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cun sa limba e sa cultura sarda - de Frantziscu Casula.

 

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Messaggi di Novembre 2015

-Sa Scomuniga de predi Antiogu

Post n°846 pubblicato il 20 Novembre 2015 da asu1000

 

 

Università della terza Età di Quartu sesta Lezione 25-11-2015
Scheda di Francesco Casula 
Il capolavoro, anonimo, della poesia comico-satirica sarda dell'800
Sa Scomuniga de predi Antiogu in 678 versi, alcuni dei quali particolarmente icastici e fulminanti, rappresenta senza ombra di dubbio il capolavoro della poesia comica e satirica in sardo-campidanese dell'800 e - forse - non solo. E rimane comunque una delle opere migliori prodotte in lingua sarda. 
Mai pubblicata a stampa dal suo autore che rimane sconosciuto, la più antica edizione che si conosce è del 1879 con il titolo Famosissima maledizioni de s'arrettori de Masuddas, a dimostrazione che era molto conosciuta e dunque doveva essere già abbastanza antica.
Antonello Satta, il grande studioso de Sa scomuniga, colloca la data di composizione intorno al 1850: nel clima delle polemiche e delle scomuniche che precedono e seguono l'abolizione, per legge, delle decime il 15 aprile 1851 da parte di Vittorio Emanuele II.
Celebrata da Antonio Gramsci che le riconosce un umorismo fresco e paesano e in una Lettera alla madre le chiede di mandargliene una copia; studiata da Max Leopold Wagner, che la considera «un monumento psicologico» e «dalla vis comica irresistibile», anche se, -a mio parere sbagliando - non le riconosce il minimo valore letterario.
L'autore, che è un eccezionale conoscitore della cultura popolare, di ciò che vive e che si muove nelle sue viscere e nel suo sottosuolo, non è un poeta estemporaneo che si affida alla imitazione della poesia colta. È un intellettuale raffinato che riesce a portare la poesia popolare e satirica nell'ambito della dignità artistica, in genere non amplissimo in Sardegna, anche perché la nostra intellighenzia locale, salvo rare eccezioni, è solita affidarsi alle suggestioni -quando non alle rimasticature- delle culture egemoni ed esterne: arcadiche o romantiche o neorealiste o noir, poco importa. Culture che sono assolutamente divergenti o comunque lontane, -almeno per come vengono assimilate ed espresse- dalla identità dei sardi.

Presentazione del testo 
Predi Antiogu, emblema non soltanto del clero -e dunque di una classe di potere- ma anche dei poveri di villaggio, fatti tutti uguali dalla miseria, è costretto, se vuole sopravvivere, a entrare e inserirsi anche lui nella economia locale, e si fa allevatore di pecore e di capre. Ma anche lui è costretto a "pagare" una decima, pesante ed esosa: subisce, infatti, il furto del suo bestiame. Così s'arrettori de Masuddas porta sul pulpito la sua dolorosa esperienza privata, l'aver subito in «d'una notti de scuriu», [«in una notte oscura»], il furto. In tal modo, i «malignosus e discannotus», [«maligni e ingrati»], nei paesi come Masullas hanno voluto degumai po finzas a is sacerdotus, [«far fuori persino i sacerdoti»]. 
Antonello Satta colloca la composizione in quel genere letterario specificamente sardo che chiama «poesia agreste», che riconduce nel cuore stesso di un modo di pensare la propria esistenza che è tipica della civiltà di villaggio della Sardegna dell'Ottocento.
Ma ecco i versi del testo:

[...]
Custu sreba'1 po is mascus
It'ap'a2 nai immoi
a is eguas colludas?
Minci e chi si a' parau!
Gei nd'eis cundiu sa' idda3
cun centu milla maneras
de lussuria e disonestadi!

Tengu finzas bregungia
de ddu nai me in s'Artari:
sindi andais a Casteddu
it'an ca feis me innì?
Nan c'andais a srebì:
unu tiau! A bagassai!
E finzas po tres arriabis
osi feis iscrapuddai
de pustis chi su sodrau
su nennori cavalleri
os'ant appiccigau
su mabi4 furisteri.
E immoi a intru 'e5 'idda6
ita manera è custa
ita tiau de farringiu
totu su logu è pringiu
e accanta de iscioppai.
Candu mai custu s'è biu:
is bagadias angiadas!
Eguas de su dimoniu
anch'è su matrimoniu
E is cartas de isposai ?
Minci e chini s'ad isbiddiau
e pottau a segu' de carru! [...]

Note
1.Nella lingua sarda è molto presente il fenomeno della "metatesi" (dal greco metàthesis che significa trasposizione) presente nella lingua greca, ma anche di altre lingue, persino in italiano per es. areoplano invece di aeroplano. Così possiamo avere srebat o serbat, (serva), perda, preda o pedra (pietra) con la trasposizione del fonema, "r" in questo caso, all'interno della parola. Un fonema che potremmo chiamare "ballerino": in quanto si sposta..
2. Il segno <'> indica l'elisione di qualche lettera: in genere della consonante finale (della in sreba') o della vocale ( in it') o (in ap').
3. L'elisione può anche riguardare la consonante iniziale come in 'idda, (paese) in cui è eliminata la . Il motivo delle elisioni è da ricondurre o a cacofonie (cattivi suoni) o a motivazioni metriche.
4. Mabi (male) tipico della Marmilla, nella maggior parte del Campidanese si usa "mali".
5. 'e (di):viene elisa la d iniziale
6. 'idda: vedi nota n.3

Traduzione
[...]
Questo serva per i maschi
Che dirò adesso
alle cavalle vergini?
Maledetto chi vi ha messe al mondo.
Avete proprio sistemato il paese
in centomila modi
di lussuria e disonestà.
Ho persino vergogna
a dirlo dall'Altare:
ve ne andate a Cagliari
per fare che cosa laggiù?
Dicono che andate a far le serve:
un accidenti! A puttaneggiare!
E anche per pochi centesimi
vi mettete a scapocchiare
dopo che il militare
il signore cavaliere
vi hanno contagiato
il male forestiero.
E adesso nel paese
che maniera è questa
che diamine di meretricio,
tutto il posto è pregno
ed è vicino a esplodere.
Quando mai s'è visto questo:
le nubili che hanno figliato!
Cavalle del demonio,
dove sono il matrimonio
e gli atti per sposarsi?
Maledetto chi vi ha tolto il cordone ombelicale
e portato nella parte posteriore del carro! [...]

ANALIZZARE
Dentro lo schema del componimento che è semplicissimo (denuncia particolareggiata del furto e anatema) scorre la vita della comunità della Marmilla, una regione storica della Sardegna meridionale, vista nel suo sottosuolo antropologico. Un popolo dedito alle fatiche e alle miserie delle attività contadine diventa «archiladori, chi non lassat cosa in logu, una maniga de ladronis» [«uccello rapace che non lascia niente dove passa, un manipolo di ladri»]. Tutti, infatti, sono «furuncus che i su 'attu, imbidiosus de s'allenu, praizzosus che i su cani» [«ladri come i gatti, invidiosi dei beni altrui, poltroni come i cani»].
Particolarmente duri ed efficaci sono gli improperi contro le donne, cui sono dedicati i versi riportati: esse, per predi Antiogu (prete Antioco), non si limitano a bagassai, (puttaneggiare), soltanto quando vanno a Cagliari, come domestiche: ma si comportano allo stesso modo anche a intro 'e 'idda, (dentro il paese), tanto che «tottu su logu è pringiu e accanta de iscioppai» (tutto il posto è pregno e vicino a esplodere, partorire).
L'autore de Sa scomuniga nei suoi versi rifiuta e sfugge a preziosismi retorici e lessicali come a metafore di riporto o immagini meramente letterarie. La sua lingua scorre fluida e lieve nell'alveo della poesia/creazione comunitaria, senza forzature popolareggianti di matrice colta. La lingua di base è il campidanese dell'area di Mogoro-Masullas in cui si sovrappongono elementi lessicali, fonetici e sintattici appartenenti ad altre aree linguistiche dei campidani. Il metro si avvicina a quello della repentina, una composizione estemporanea e improvvisata, cantata soltanto da pochissimi improvvisatori, il verso è libero.

FLASH DI STORIA-CIVILTA'

-"Sa scomunica de Predi Antiogu", Gramsci e il folclore.
L'interesse di Gramsci per "Sa scomunica de Predi Antiogu" deriva dalla curiosità di conoscere la cultura popolare oltre che la Lingua sarda. Che il "martire" di Ales concepisce come qualcosa che si "costruisce" dinamicamente nel tempo, che si confronta e interagisce, entrando nel circuito dell'innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce con l'agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, per Gramsci, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.
Sì, le tradizioni popolari: "le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana ... le gare poetiche... le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio ... le feste di Sant'Isidoro". "Sai - scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927- che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa".
In varie Lettere dal carcere ma anche in altre opere Gramsci ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa molto seria. Solo così -fra l'altro- l'insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, facendo sparire il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore, è ciò che è, e "occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita...riflesso della condizione di vita culturale di un popolo...in contrasto con la società ufficiale".

-La Chiesa e la Lingua sarda
Dal Basso Medioevo fino ai primi del '900 la Chiesa produce molte opere in Lingua sarda e in tutto questo periodo moltissimi preti maneggiano la Lingua sarda meglio dello Spagnolo prima e dell'Italiano poi. Vengono così prodotti Gosos (Inni e laudi), sacre rappresentazioni, sermoni ad uso dei sacerdoti ma soprattutto manuali di catechismo: questa scelta nasce soprattutto dall'esigenza di diffondere il Cristianesimo a livello popolare. Pensiamo a questo proposito a quanto avviene con il dominio piemontese nell'Isola. Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale -della cultura, del Governo,dell'insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati - è il Castigliano,; la lingua del popolo in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell'Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la Lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli Atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l'imposizione della Lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall'Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il "Partito spagnolo", sempre forte nell'aristocrazia ma non solo. Pensano allora di elaborare "Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola" affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell'Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell'Istruzione del popolo. I bambini "poverelli" ricevono, gratuitamente, due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Cardinal Roberto Bellarmino e il Catechismo agrario, "giacchè l'agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna". Ma evidentemente l'operazione culturale non dà buoni frutti se non solo all'inizio dell'800 ma anche all'inizio del '900 la Chiesa sente il dovere di scrivere i Catechismi in Lingua sarda: ne ricordo in particolare due: uno del 1820 (de su obispu Giuanni Nepomuceno de Iglesias) e un altro (Catechismu Maggiori) del 1910, ambedue scritti in sardo-campidanese.

*Questi testi sono tratti dalla mia Letteratura e civiltà della Sardegna volume 1, Edizioni Grafica del Parteolla, 2011.



 
 
 

Arquer

Post n°845 pubblicato il 13 Novembre 2015 da asu1000

 

Università della Terza Età di Quartu 5° Lezione di Francesco Casula

 SIGISMONDO ARQUER

Lo scrittore vittima dell'Inquisizione  e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)

Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell'università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell'università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l'Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni.

   Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell'isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall'Arquer  fu pubblicata nell'edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell'Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778.

  Sulla figura dell'Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta  la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell'Isola in cui l'Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell'epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l'Arci­vescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l'Arquer incorse nelle ire dell'Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda vol­ta.

L'Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un'autodifesa  in  lingua castigliana, la Passione. Il poema -che segna l'inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso "l'Archvio Historico Nacional" di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell'Archivio storico sardo. Nel poema l'Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile "auto da fé" (l'espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione. La sua figura "assai complessa e conflittiva e di dimensione europea" -la definisce Marcello Maria Cocco, studioso dell'Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del '700, quando ne parlerà Ludovico Muratori-  verrà riscoperta e riproposta nell'800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza.

Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull'Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del '500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.

 

Presentazione del testo [tratto dal cap. VII dell'opera  Sardiniae brevis historia et descriptio, testi, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Gianni Trois, Cagliari 1987, pag.30].

L'opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara  raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un'opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell'Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.

Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue.

Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d'Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell'uso del vestiario più o meno di lusso.

Il "librillo" -così lo chiama l'autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l'Arquer, conscio dell'incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, "Si dominus requiem e ocium dederit" (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell'opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell'archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.

 

DE MAGISTRATIBUS, INCOLARUM NATURA, MORIBUS, LEGIBUS ET RELIGIONE

 "[...] Ecclesiastici magistratus in Sardinia sunt constituti iuxta papae decreta. Nam sunt in ea tres archiepiscopi, nempe Calaritanus, Arborensis et Turritanensis seu Sassarensis, qui et nonnullos sub se habent episcopos. Est quoque ibi inquisitor generalis contra haereticos, apostatas et maleficos, secundum Hispaniae mores et constitutiones, ultra ea quae iure communi Imperato­rum et pontificum inquisitoribus sunt concessa. Habet iste immensa privilegia, nec quenquam praeter Hispa­niae supremum inquisitorem, cuius est delegatus, agno­scit superiorem in Sardinia. Constituit ipse quoque sub se alios inquisitores et ministros, quorum omnium iudex ipse est, qui tanta severitate contra suspectos procedunt, ut paucis verbis exprimi nequeat. Nam miseros homines multis annis in carcere detinent, examinant et torquent priusquam eos vel damnent vel absolvant. Habent autem de his rebus libros impressos, ut Malleum malefica­rum, Directorium inquisitorum et nonnullos alios, item instructiones secretas et multa alia quae ex ipsorum pendent arbitrio. Habent praeterea Sardi et Cruciatae commissarium, qui nullum praeter Romanum pontificem agnoscit superio­rem, etc.

Caeterum quantum attinet ad mores et naturam Sardo­rum, noveris eos esse corpore robustos, agrestes et laboribus assuetos, praeter paucos luxui deditos: literarum studio parum sunt intenti, venationi autem deditissimi sunt. Multi pecuariam faciunt rem, agresti cibo et .aqua contenti. Qui in oppidi et villis habitant, pacifice inter se

vivunt, advenas amant, et humaniter tractant. Vivunt in diem, vilissimoque vestiuntur panno. Bella nulla ha­bent, neque multa arma. Et quod mirandum est, nullum habent artificem in tam ampia insula, qui enses, pugio­nes et alia fabricet arma, sed haec petunt ex Hispania et Italia. Utuntur plerunque balistis, maxime in vena­tionibus. Et si quando piratae, Turcae aut Afri illuc veniunt praedam abacturi, facile a Sardis in fugam vertuntur aut captivi detinentur. Sunt Sardi optimi equites, sunt ob solis ardorem subfusci coloris, vivunt bene secundum legem naturae, optime victuri, si sin­ceros haberent verbi Dei praecones.

Cum rustici diem fe­stum alicuius sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, prophana cantant, choreas viri cum foeminis ducunt, porcos, arietes et armenta mactant, magnaque laetitia in honorem sancti vescuntur carnibus illis. Sunt etiam multi qui pecus aliquod saginant in hono­rem certi alicuius sancti, ut illud in fano eius potissimum in sylvis extructo, et festa die devorent. Et si familia minor fuerit ad esum pecoris, convocant et alios ad con­vivium illud quod in fano celebrant, ne quid residui maneat. Foeminae rusticorum valde honestae sunt in vestitu, omnem escludentes pompam at urbanae di­vitiis abundantes, abutuntur illis in magnam super­biam.

Sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris".

 

MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGION

 [...] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arci­vescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inqui­sitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come av­viene in Spagna, al quale sono con­cessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inqui­sitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all'in­fuori del supremo inquisitore di Spa­gna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; co­storo agiscono contro chi è sospet­tato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno an­che, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come ilMalleum malefica­rum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno del­le istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche unCommissarium Crociataeche non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvez­zi alla fatica, all'infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, men­tre amano moltissimo la caccia. Mol­ti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tran­quilli e sono ospitali e gentili; vivo­no alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un'isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall'Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se tal­volta sbarcano nell'isola, per far pre­da, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri. Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ar­dente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivreb­bero se avessero degli onesti pre­dicatori della parola di Dio.

Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa. Le donne cam­pagnole sono modestissime nel ve­stire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchis­sime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacer­doti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura.

 -De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29]

"Habuerunt quidem Sardi olim linguam propriam; sed quum diversi populi immigraverint in Insulam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua eorum, relictis, tamen plurimis vocabulis; quae in nullo inveniuntur idiomate. Latini sermonis aduc multa tenet vocabula, praesertim in Barbariae montibus, ubi Romani Imperatores militum habebant praesidia, ut L.ij.C. de officio praefecti prae. Afric.

 Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur,  iuxta quod tam varium

habuerunt imperium; etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt autem duae praecipuae in ea Insula linguae, una. qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates.

Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam. didicerunt ab Hispanis, qui plerumque magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum linguam,

 

La lingua dei Sardi

Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell'isola soprag­giunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie stra­niere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si tro­vino moltissimi vocaboli che non e­sistono in nessun'altra lingua. Ci re­stano molte parole latine, soprattut­to nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric.

Da quanto ho detto precedentemen­te, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tan­to diverse, a seconda dei dominato­ri; ma fra di loro si intendono bene.

Nell'isola, due sono le lingue prin­cipali: una è quella usata nelle cit­tà, l'altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi do­vunque la lingua spagnola, tarrago­nense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda.

 

 

 
 
 

Salvatore Satta

Post n°844 pubblicato il 01 Novembre 2015 da asu1000

 

Ricordando, a 40 anni dalla sua morte, Salvatore Satta

1 novembre 2015

La veranda - Salvatore SattaFrancesco Casula

Ricorre quest'anno il quarantesimo anniversario della morte di Salvatore Satta, accademico, giurista e narratore di vaglia, segnatamente per il suo capolavoro: Il giorno del giudizio. Esso pubblicato postumo, nell'anno stesso della sua morte, nel 1975, susciterà sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano mai state registrate in Sardegna.

In pochi mesi venderà 60.000 copie e conoscerà subito decine di edizioni, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama. Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un'opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell'esistenza. Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina.

Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell'unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l'inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell'atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene.

Il romanzo nasce - è lui stesso a scriverlo in alcune lettere - come "storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna, un'isola di demoniaca tristezza". Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l'autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall'arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all'altra, fa da filo conduttore dell'intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente).

Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell'esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno l'allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte.

La morte effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall'incipit: con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, "Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte" e "La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose" Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano.

Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Sattauomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C'è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente, la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l'autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che fosse esistente.

Nell'aforisma "la morte è eterna ed effimera..." sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: "Donna Vincenza era una donna senza speranza".

L'autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l'esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi.

Nel Giorno non c'è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L'io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l'interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un'operazione metalinguistica all'interno del testo, troviamo esemplificato quest'atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della moglie.

La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l'asciutezza dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l'assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.

Nell'immagine: La veranda - Salvatore Satta

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Data di creazione: 12/06/2007
 

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Questo blog, bilingue ( in Sardo e in Italiano) a disposizione, in modo particolare, di tutti i Sardi - residenti o comunque nati in Sardegna - pubblicherà soprattutto articoli, interventi, saggi sui problemi dell'Identità, ad iniziare da quelli riguardanti la Lingua, la Storia, la Cultura sarda.

Ecco il primo saggio sull'Identità, pubblicato recentemente (in Sardegna, university press, antropologia, Editore CUEC/ISRE, Cagliari 2007) e su Lingua e cultura sarda nella storia e oggi (pubblicato nel volume Pro un'iscola prus sarda, Ed. CUEC, Cagliari 2004). Seguirà la versione in Italiano della Monografia su Gramsci (di prossima pubblicazione) mentre quella in lingua sarda è stata pubblicata dall'Alfa editrice di Quartu nel 2006 (a firma mia e di Matteo Porru).

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