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OCCHI DI MARE

Post n°61 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da Larbo
Foto di Larbo

"Dal guizzo impetuoso di due delfini innamorati che si carezzavano in un letto chiamato mare….io nacqui libera, blu’, leggera, vogliosa del mio movimento, della mia natura liquida….
sposai il vento e con lui iniziai il mio viaggio.
gonfia di luce dell’amico sole, specchio di notte di una lucida luna….attraversai i mari del mondo, sfiorai e fui sfiorata da bianchi gabbiani che mi guidarono attraverso i loro occhi in luoghi dell’anima.
vidi isole in lontananza che nessun uomo aveva mai toccato;
vidi navi di pirati al crepuscolo, immerse in sogni di conquista;
sentii le loro voci ubriache che cantavano ruvide ;
ascoltai il canto nomade di queste anime del mare;
gesta antiche di uomini da un occhio solo che scrutavano avidi l’orizzonte;
rumori metallici di spade ancora insanguinate che brandivano nel l’aria voci di vittoria.
vidi la zattera di un naufrago circondata da squali in attesa del loro giusto pasto……vidi quel naufrago dolente sprofondare lentamente tra acqua e zanne….e mentre moriva ricordando il suo cammino, alzo’ gli occhi al cielo ed inforcata un’ armonica, musico’ delicato il suo inno di gioia alla vita.
vidi occhi di splendide sirene penetrare piu’ volte nel mio passo liquido;
vidi la magia dei loro movimenti al tramonto, corpi sinuosi di donne senza eta’ che cavalcavano bianche chiome di onda;
vidi le loro evoluzioni nell’aria, nell’acqua, nel sole;
odorai la loro pelle color di perla; maneggiai i loro capelli fluidi, ubriachi di sale e di mare, capelli ondulati e morbidi, capelli come gialli sentieri del deserto, che conducevano ad oasi sottomarine, capelli sinuosi come aurore a drappi, che dipingevano il cielo e trattenevano respiri.
vidi fulmini roboanti immergersi segreti nell’oceano; vidi rapide saette tuffarsi nel blu; vidi la luce che squarciava il buio in profondita’ di velluto vestite;vidi la luce di quel fulmine illuminare in fasci di bagliori ellittici, il dorso di cristallo di balene azzurre che morbide, come rocce di panna ,davano inizio a danze lunari che culminavano, seppur trafitte da lance assassine, in baci antalgici.
vidi una bottiglia che galleggiava solitaria nell’immenso, trascinata da una corrente caotica che l’avvolgeva di flutti;
lessi il messaggio nella bottiglia, scritto da un uomo che ricordo e che non voglio dimenticare, un uomo che dono’ tutto se stesso per essere ucciso da chi amava……un uomo chiuso in gocce di musica…..che sprezzante, nonostante l’incapacita’ del volo di uccelli rattrappiti….continuava a scrivere di anime pure e belle da sempre.
ed alla fine….vidi il culmine del mio viaggio, vidi la mia meta pararsi di fronte a me;
il mio percorso di delfini,gabbiani, pirati, sirene, fulmini gentili che concedevano luci notturne agli esseri del mare, stava per terminare, stava per estinguersi.
l’onda che ero, l’onda che avrei voluto tornare, l’onda che si spense dentro un assetata sabbia dalla bocca plumbea….l’onda che prima di morire allargo’ le braccia al mondo solido, fino ad arrivare ai bianchi piedi di una donna, che mi aveva atteso, che mi aveva chiamato a se…..
dal guizzo impetuoso di due delfini innamorati, io nacqui per portare il loro messaggio al mondo….fino a diventare piccolo granello di sabbia che ora una donna custodiva segretamente sulla sua pelle.
ora…ero sempre piu’….. parte del mondo.

 
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C.P.T.

Lento scorre il tempo, in questo luogo contenuto da sbarre di ferro e viali di cemento. Bordi di grigio, racchiudono un quadro grigio. Timidi fili d’erba cercano di riprodurre una natura stretta in gusci di calce. Qualche tombino quà e la spezza la monotonia del piatto, creando fosse di piombo zigrinato ove si adagia la guazza di un’ennesima notte. Antenne come cipressi robotici si piegano al vento della sera e lampioni dagli steli affusolati, offrono i frutti di una luce fredda, racchiusa in boccioli di plastica e nettare di tungsteno. I cancelli che vedo di pesante imponenza claustrofobia, danzano ripetutamente, basculando negli stetti passi di un binario scollinato, pronti a ballare agli ingressi o alle uscite dei tanti girovaghi. Tetti e ombre, cartelli e tasti esausti di essere pigiati e una macchinetta automatica del caffé che sgorga ritmicamente miscele nere di noia per dissetare gole a volte incapaci di fare altro. Il libero andamento di questo micromondo si dissolve oltre il vetro che mi contiene; un uomo s’avvicina alle acustiche fessure dello scambio umano. Sua moglie lo attende qualche muro e sbarra più in la. Con una busta in mano, percorre i soliti passi nei soliti giorni, portando magari con se in quella busta vestita di bianco, piccole ampolle di aria lontana, da far respirare ingordamente alla sua amata. Siamo qui, come ieri, come domani a guadagnare un posto nell’olimpo dei vigilanti, dei trascrittori di nomi, dei bevitori di cappuccino, dei compositori di numeri, dei pigiatori di tasti, dei culi sprofondati nelle sedie, dei pensatori lontani che volano con la fantasia oltre le fessure equidistanti di un recinto; siamo qui a stretto contatto col nulla a condividere il niente e a sentire il senza. Si potrebbe dire basta a tutto questo, spogliarsi di un’assurda contestualità di sfere che rotolano sempre nello stesso verso e nel medesimo istante liberarsi di una cravatta nera che si slega dal suo calice di stoffa, e ritrovare finalmente il senso delle cose. Nessuna gabbia in fondo ha mai contenuto i pensieri di un sognatore.
 
 
 

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