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l'imperativo categoprico e l'etica del Dovere. La morale di Kant

Post n°8 pubblicato il 23 Luglio 2015 da ahivelasquez1975
 
Tag: etica

Offrire uno sguardo completo e semplice - ma non semplicistico - dell'etica kantiana non è facile né agevole sia per la vastità della sua indagine, sia per la difficoltà e la finezza dei concetti espressi nelle sue opere che trattano di morale. Così, come accade in situazioni del genere, la strada migliore è quella di partire dalle domande e dalle esigenze che hanno mosso l'indagine etica di Kant per delineare il percorso filosofico che dalla ricerca e formulazione dell'imperativo categorico arriva ai postulati della Ragion Pura Pratica e alla fede razionale. La ricerca morake di Kant parte dall'esigenza di comprendere le possibilità e i limiti della Ragion Pura nel suo "rispetto" pratico ovvero se esista la possibilità di una volontà libera, scevra da ogni condizionamento sensibile, e se possa essere una morale; le domande di partenza del filosofo sono, dunque, le seguenti: "qual è la natura della moralità?", "in cosa consiste una azione morale?" e "che differenza intercorre tra una persona che agisce moralmente e una no?". Sono tali domande che declinano nella concretezza la definizione dei limiti e delle possibilità della Ragion Pura nel suo "rispetto" pratico o morale.

L'uomo per Kant appartiene contemporaneamente a due mondi. I sensi, gli istinti, la bramosia del possesso incatenano ogni individuo al mondo sensibile, materiale che tocchiamo, sentiamo e odoriamo tutti i giorni; la Ragione però fa si che ogni uomo possa essere parte del mondo proprio di questa facoltà, che appartenga al mondo sovrasensibile della razionalità e che, in funzione di tale cittadinanza, ogni individuo possa comportarsi razionalmente. È proprio in quanto ogni uomo è figlio di questo mondo sovrasensibile governato dalla Ragione che Kant parte alla ricerca della presenza di una morale che possa astrarre dalle condizioni sensibili e specifiche per ricavare una morale libera, universale e perciò oggetiva. Il percorso di analisi morale di Kant, quindi, volge alla scoperta dell'esistenza di precetti etici che possano valere astraendo dalle condiezioni particolari e di conseguenza trovare la loro valenza morale nella forma della massima in cui sono formulati.

L'analisi di Kant parte dalla classificazione dei vari tipi di azione dando ad ognuno di essi la propria definizione per arrivare ad individuare quella che propriamente può essere definita come morale. Ogni uomo che agisce lo fa liberamente e non per costrizione; tra queste vi sono le azioni fatte per inclinazione, per piacere personale e quelle svolte per obbligo ovvero "per un qualcosa che mi impongo di fare nonostante la mia inclinazione mi spinga a fare altre cose". Una azione che non si ha voglia di fare ma che viene svolta dal soggetto, poiché in essa vi riconosce un obbligo, è il cuore della condotta legata al dovere la quale si distingue in "azioni conformi al dovere" e in "azioni svolte per dovere". La condotta conforme al dovere è un comportamento tenuto non per adesione e intima convinzione che ciò che debba essere fatto sia giusto, ma perché esiste un quid esterno - come una norma che se violata vede l'erogazione di una sanzione - che ci porta a rispettare tale obbligo. Le azioni per dovere, invece, vengono fatte per senso del dovere, per adesione e convinzione interna a quello che è necessario che venga fatto e assumono il nome di imperativi. Anche in questa categoria, Kant rintraccia due tipologie di imoerativi quelli "ipotetici" e quelli "categorici"; gli imperativi ipotetici sono quelle direttive che il singolo deve tenere al fine di raggiungere un risultato da essi garantito e, come è palese, non costituiscono l'oggetto della morale. Diversamente,  gli imperativi categorici ingiungono in ogni situazione di agire senza se e senza ma, incuranti delle conseguenze che dall'azione scaturiscono e vanno a formare il cuore dell'etica kantiana. Ed è proprio in quest'ultima categoria di imperativi che Kant individua la Legge Morale, l'Imperativo Categorico ovvero quella massima morale che può astrarre dalle situazioni sensibili e quindi porsi come oggettiva e universale; una massima vuota che solo per la sua forma determina la volontà morale che liberamente decide di aderire alla prescrizione impartita. Con la formulazione dell'imperativo categorico si giunge, dopo un'attenta e approfondita analisi delle azioni umane, al cuore dell'indagine sulle possibilità pratiche della Ragion Pura.

Kant lungo la sua opera non offre una sola ed univoca definizione dell'imperativo categorico bensì ci torna più volte declinandolo in differenti formulazioni tutte comunque coerenti tra loro. La formulazione più celebre è la seguente: "agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso,che divenga una legge universale". In altre parole, ogni persona per agire moralmente dovrebbe sottoporre ogni sua azione a un "test di universalizzazione" ossia dovrebbe agire come se la sua condotta divenisse regola universale. Nessuno, ad esempio, dovrebbe rubare poiché se tutti lo facessero le relazioni morali basate sulla proprietà dei beni sarebbero impossibili; analogamente, non bisognerebbe dire menzogna visto che qualora tutti mentissero le relazioni incentrate sulla fiducia non avrebbero possibilità di essere. L'imperativo categorico, quindi, ci dice che bisognerebbe intraprendere ogni azione come se questa divenisse una regola generale, una linea di condotta universale.

Delineato l'imperativo categorico, la linea di ricerca kantiana affronta il nodo concettuale di come una massima universale, oggettiva e vuota possa divenire una massima soggettiva ovvero possa essere acolta con intima adesione dal soggetto.  Il dovere, l'imperativo categorico è il motivo determinate dell'azione per la sola sua forma e quindi astrae da qualsiasi situazione concreta e sensibile. È una legge morale che in quanto tale è percepita come esterna dal soggetto, come un qualcosa che aplica una pressione per spingere la persona a rendere effetuale l'azione in modo da produrre il Bene razionale e non quello personale che coincide con il piacere. Il soggeto, dopo il primo senso di dolore dovuto al richiamo al dovere da parte dell'imperativo categorico, se  vuol essere morale aderisce intimamente e con convinzione a quanto prescritto dall'imperativo categorico senza curarsi delle conseguenze e soprattutto dei vantaggi o svantaggi legati alla sua persona. È con l'adesione convinta del soggetto alla prescrizione oggetiva dell'imperativo categorico, frutto della facoltà della Ragione, che l'oggettività e l'universalità della Legge Morale si salda con il piano soggettivo. E' grazie a questa scoperta della logica dell'azione morale che Kant fonda una morale formale in cui non viene indicato che cosa sia il bene ma viene descritto come si debba agire, con quale animo si debba intraprendere una condotta, al fine di comprotarsi in modo morale. Un'etica, inoltre, a-prioristica, delle intenzioni giacché ciò che fa un soggetto un agente morale è la sua adesione soggettiva alla prescrizione dell'imperativo categorico senza che debba curarsi delle conseguenze.

L'azione pratica ovviamente entra in relazione con il mondo, con la natura e di conseguenza anche l'ordine morale trova il suo gioco quotidiano con l'esistente. Il rapporto tra Legge Morale e natura è,  quindi, un rapporto pratico in cui continuamente si registra una tensione tra l'ordine morale, il dover essere, e il mondo che è l'essere o il mondo così come modificato dall'azione morale. Per Kant, a differenza di Spinoza, di Hegel o dei filosofi Stoici, il mondo non è espressione spontanea di un'ordine morale che coincide con un ordine logico delle cose. Di conseguenza la sua teoria etica non giustifica l'esistente bensì spinge, da grande illuminista qual era, a modificare il mondo al fine di costruire l'ordine morale derivato dalla Legge Morale.

L'ultimo grande passo di Kant sono i postulati della Ragion pratica in cui arriva a dare uno sguardo originale e moderno al rapporto tra Ragione e Fede. La Legge Morale e la realizzazione del Sommo Bene richiedono che tutti vengano ricompensati in funzione della loro virtù; siccome nella vita terrena ciò non succede allora è necessario postulare l'esistenza dell'immortalità dell'anima, della libertà di azione e di Dio in modo che si possa permettere e garantire a ogni persona la ricompensa in base alla sua virtù.  Giova precisare che Kant non dimostra l'esistenza di Dio o dell'immortalità dell'anima bensì le postula ovvero accertata l'esistenza dell Legge Morale da tale costatazione inferisce delle proposizioni che garantiscono e ne permettono la sua esistenza ed effettualità. Infatti, grazie a questi postulati, Kant arriva alla formulazione di una fede razionale ovvero data l'esistenza della Legge Morale nella ragione umana è ragionevole, plausibile - ma non certo - credere in Dio e nell'immortalità dell'anima. Ecco, infine, che da un piano morale in cui senza libertà non c'è etica si giunge a Dio, alla fede mostrando un cammino inverso da quello solito in cui è il piano teologico a calare direttamente le prescrizioni morali e a ridurre le questioni etiche a problema di ubbidienza o violazione delle sue prescrizioni.

Nonostante Kant sia stato il più grande filosofo della storia, o per chi non condivide questa opinione  lo deve indubbiamente considerare tra i pensatori più influenti dell'umanità , e nonostante la rafinatezza e profondità della sua riflessione etica, anche il suo pensiero non ha potuto non lasciare sul campo dubbi e situazioni concettualmente difficili da spiegare. Kant, innanzitutto, delinea la sua morale come morale delle intenzioni ma lungo il suo ragionamento non si mostra coerente con tale dettame. In piú parti delle sue opere etiche egli introduce, infatti, surrettiziamente l'analisi delle conseguenze per poter giudicare la correttezza o meno di un'azione. Inoltre, non spiega cosa fare quando un soggetto si trova in una situazione in cui c'è un conflitto di doveri come nel caso di un soldato catturato che viene interrogato per rivelare i piani segeti del suo esercito; egli deve mentire ed rispettare l'obbligo di fedeltà al suo paese oppure deve dire la verità? In questi casi la teoria kantiana mostra il fianco a critiche. Infine, molti pensatori hanno criticato il concetto stesso di imperativo categorico giacché le regole morali sono più generalizzazioni che proposizioni categoriche ovvero, ricorrendo all'esempio di cui sopra, in genere dovremmo dire la verità ma esistono delle circostanze eccezionali in cui si deve mentire per agire moralmente. Nonostante queste critiche, Kant rimane importantissimo nel panorama della riflessione etica - e non solo - poichè la sua teoria incentra l'attenzione sul fenomeno del dovere e offre una visione originale al mondo morale offrendo un'etica formale in cui l'oggettività della stessa è garantita da una massima universale cui il soggetto vi aderisce con convizione intima.

 
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l'etica della Rivelazione

Post n°7 pubblicato il 11 Luglio 2015 da ahivelasquez1975
 
Tag: etica

Parlare di etica cristiana è impossibile nello spazio di un blog ed è un'impresa titanica per le conoscenze, il tempo e le capacità di una sola persona per cui poter delineare, seppur in modo superficiale, tutte le declinazioni di tale etica sia nello spazio sia nel tempo è un'impresa impossibile. Nondimeno, la morale cristiana ha costituito una fonte importante, nella speculazione filosofica e nella vita quotidiana, di norme di comportamento, di codici morali e di concezioni di bene e di male. Proprio per questo non è possibile non delinearne in maniera sommamente generale la struttura del suo pensiero che, su questo piano di generalizzazione, può essere grossomodo preso ad esempio come l'etica propria di ogni religione che si fonda su una rivelazione di Dio.
L’etica cristiana, dunque, non è una dottrina morale autonoma, che fonda in sé stessa i propri presupposti, ma deriva e dipende da una concezione teologico-religiosa del mondo in cui un essere divino (Dio), rivela se stesso e il suo progetto salvifico dell'umanità ai propri figli (gli uomini). In questa rivelazione, Dio  ha formulato e fissato una volta per tutte delle regole di condotta morale attraverso delle scritture considerate Sacre, ha stabilito dei codici di comportamento da considerarsi universali, inviolabili con la conseguenza che la loro mancata osservazione costituisca un peccato e una condotta immorale. Il Bene e il Male sono concetti stabiliti nel codice morale della sacre Scritture da cui deriva la casistica ossia una lista di comportamenti consentiti che portano alla produzione del Bene e una teoria di condotte vietate poiché generano inevitabilmente il Male.  Il codice morale, quindi, si pone come  il cuore della dottrina etica cristiana – e generalizzando di ogni dottrina morale che si fonda su una religione rivelata – e si configura come una guida infallibile e oggettiva in quanto espressione dell'infallibile volontà divina.Al di là dell’aspetto religioso, se le osservazioni si mantengono lungo un piano di analisi morale anche la dottrina etica cristiana mostra il fianco a perplessità logiche e a critiche. L’immoralità, abbiamo visto, coincide con la violazione del codice morale, con la disobbedienza ai precetti etici che ne derivano; se essi producono il Bene, però, diventa necessario mostrate che il fondamento da cui discendono è buono ovvero che Dio è buono. Tutto questo, però, sposta inevitabilmente l’attenzione e il fondamento della dottrina etica cristiana – e di qualsiasi altra etica fondata su una religione rivelata – dal piano squisitamente morale a quello teologico. Di più, dove risiede la moralità di un’azione che obbedisce al codice etico divino? Secondo il senso comune, un’azione è morale perché la sentiamo giusta e non per obbedienza, perché c’è un’adesione interna, del nostro animo a ciò che pensiamo produca. Come può questa concezione di moralità non entrare in conflitto con l’idea della moralità come obbedienza? È evidente che l’opinione del senso comune e quella della dottrina etica cristiana risultano in questo caso in conflitto. Altra questione è il problema dell'interpretazione delle Sacre Scritture da cui si dovrebbe ricavare cosa sia il Bene e cosa sia il Male in modo da poter stilare in modo sicuro ed inoppugnabile la casistica; l'interpretazione delle Sacre Scritture deve essere letterale o metaforica? qual è  il significato delle storie ivi riportate? del mito del Paradiso Terrestre, della Torre di Babele o del racconto dell'Esodo? è evidente che a seconda di come vengono intese le Sacre Scritture la dottrina etica cristiana - e di ogni religione rivelata - cambi profondamente.

Nonostante questo, la dottrina etica cristiana mostra un importante fenomeno della vita morale che non può essere trascurato. La nostra idea di bene e di male, le nostre scelte etiche, la nostra "coscienza morale" non rispondono solamente a convinzioni o processi psicologici personali ma hanno in parte fondamento in un qualcosa di esterno - pensiero religioso, convenzioni o abitudini sociali o altro - che si impone al nostro comportamento morale come un codice cui obbedire ed essere morali o non obbedire e violarlo. La nostra vita morale, quindi, è il risultato dell'intreccio tra motivi personali e psicologici alla moralità e motivi esterni alla persona che si impongono con forza cogente sull'individuo che agisce.

 
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Lo stoicismo, l'etica dell'indifferenza verso gli eventi del mondo

Post n°6 pubblicato il 27 Giugno 2015 da ahivelasquez1975
 
Tag: etica

 Lo stoicismo è stata la dottrina etica più diffusa nel mondo antico e senza dubbio la più famosa tanto che la sua influenza arriva  fino al nostro linguaggio, ai nostri modi di dire e, quindi, alla nostra quotidianità. L’aggettivo stoico, utilizzato nel linguaggio comune, ha il significato di indicare colui che denota un grande coraggio e fermezza nell’affrontare dolori fisici e morali. Ovviamente, come tutte le parole del linguaggio quotidiano, questa definizione non ricalca perfettamente la filosofia stoica anche se ne racchiude una verità fondamentale: la capacità di sopportazione verso i dolori e il male della vita.

La dottrina stoica è, come ogni filosofia, figlia del suo tempo nata nei momenti in cui l’antica Grecia delle città stato rovinava per lasciare il posto all’impero di Alessandro Magno, prima, e, in seguito, al mondo ellenistico. In questa civiltà in disfacimento, in cui i valori del vivere delle citta-stato greche venivano inesorabilmente travolte dalle armi dell’impero alessandrino, intorno al III secolo a.c. Zenone elaborò il cuore della dottrina stoica. Di fronte a questa tragedia dell’autogoverno delle piccole città greche, al filosofo apparve chiaro che tutto era perduto, che niente poteva essere cambiato maturando, probabilmente, la convinzione che ogni evento nel mondo fosse predeterminato dal piano di un dio lontano e indifferente ai dolori umani. Sono queste le premesse per comprendere lo stoicismo, una filosofia nata in un mondo che tramontava nelle sue istituzioni e valori e la convinzione che ogni evento fosse già predeterminato da un dio.

Per lo stoico, in siffatta situazione, la vita buona è quella che è segnata dall’indifferenza alle influenze degli eventi esterni che rispondono al realizzarsi di un piano divino. È l’indifferenza la caratteristica eminente della vita buona e virtuosa, è la volontà di restare indifferenti la buona volontà che non permette agli eventi dolorosi della vita di tormentarci e farci vivere male. È grazie a questa pratica che è possibile diventare uomini veramente liberi giacché niente ci tocca e nessuna perdita, nessun dolore ci può inseguire e annidare nel cuore. Liberarsi dai desideri e dalle passioni è, dunque, il corollario necessario della buona volontà; ma questa liberazione implica, come i cinici, il rifiuto della vita e delle convenzioni sociali? Dell’utilizzo dei beni materiali e delle cose? Lo stoico, e qui risiede la differenza fondamentale con i cinici, deve vivere in società, avere un proprio ruolo anche rilevante nel consorzio umano, può possedere, inoltre, beni materiali ma la discriminante è che non si faccia intrappolare da questi elementi della vita umana. Lo stoico deve essere indifferente alle cose, non deve aver paura di perderle oppure non deve essere tormentato nell'inseguire il possesso di beni, onori o ruoli sociali più elevati. Indifferenza come pratica della buona volontà, come liberazione dai desideri e dalle passioni, come l'evitare di farsi intrappolare dai ruoli sociali e dai beni, sono queste le caratteristiche fondamentali della dottrina etica stoica.   

Tale teoria etica, pur essendo la filosofia morale maggiormente diffusa nel mondo antico, lascia – come è ovvio – una serie di perplessità teoriche e mostra dei limiti nello spiegare le situazioni morali più diffuse. Se tutto è predestinato, se Dio ha previsto ogni evento, dall’esito della battaglia di Isso a cosa mangeremo a cena stasera, allora l’uomo non ha alcun potere sulla propria vita; nessuna persona, quindi, ha la possibilità di mutare il proprio carattere e neanche di praticare la volontà buona poiché tutto è predeterminato. Per la teoria stoica l’uomo è contemporaneamente libero – poiché può scegliere di praticare l’indifferenza come buona volontà – e non libero visto che tutto è predeterminato. Inoltre, tale morale si adatta solamente a quelle situazioni etiche molto specifiche in cui è necessario “farsene una ragione” o perché esiste un bene più alto da perseguire o perché non è possibile fare altrimenti; ad esempio, lo stoicismo può essere necessario quando un ufficiale che catturato debba sopportare enormi dolori fisici e psicologici per non rivelare i piani del suo esercito oppure nella circostanza in cui la tua auto venga rigata e sia impossibile individuare il vandalo. Per altre situazioni etiche, invece, la dottrina stoica non si mostra molto adatta a spiegarle e a inserirle entro il suo quadro concettuale, anzi talvolta può prescrivere delle azioni assurde e paradossali come il praticare l’indifferenza nella vita familiare.

Nonostante queste perplessità, la dottrina stoica è importante non solo perché è quella che ha avuto maggior presa e diffusione nel mondo antico ma soprattutto perché ha aperto alla filosofia morale una serie di problemi che tuttora hanno la loro attualità. Indicando il bene nella volontà, lo stoicismo è la prima teoria che identifica l’individuo come il responsabile del bene e del male mettendo in disparte la società. Il bene è il male sono quindi risultato della buona volontà oppure della società? Tale è la prima questione lasciata sul campo della filosofia morale. Infine, lo stoicismo nella sua contraddizione tra Dio che ha predeterminato ogni evento e l’uomo che deve praticare l’indifferenza introduce la questione del libero arbitrio. Al di fuori della cornice metafisica degli stoici, la domanda che essi pongono è: quanto in ogni azione che l'uomo pratica sia da attribuire alla sua volontà o a motivi di cui non ha il controllo? una persona quando commette un crimine quanto è dovuto alla propria volontà di delinquere e quanto vi è stato spinto da esperienze pregresse, fattori sociali, economi, culturali che non può controllare? Lo stoicismo, quindi, nonostante i suoi limiti teorici ed euristici, è una delle più importanti pagine della storia della filosofia morale ed è impossibile attualmente parlare di etica senza tener di conto delle questioni che ha lasciato in dono alla riflessione morale.    



 
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l'edonismo etico di Epicuro

Post n°5 pubblicato il 16 Giugno 2015 da ahivelasquez1975
 
Tag: etica

Mai nella storia del pensiero una dottrina etica come quella di Epicuro è stata tanto fraintesa ed ha acquistato una fama che non corrisponde al suo contenuto. Nel linguaggio attuale, infatti, l'aggettivo epicureo trova il proprio riferimento nel richiamo alla teoria etica del filosofo ma riporta significati che richiamano a una vita fatta di piaceri estremi, dissolutezze e pervesioni. Leggendo, però, tra le righe delle sue opere si comprende che la dottrina epicurea non presenta alcuno di questi tratti ed invece prescrive un modo di vivere piacevole ma moderato, parco, modesto; lo stesso Epicuro, si legge dalle cronache sulla sua vita, fu un personaggio che visse in semplicità, senza vizi e senza rincorrere alcun piacere estremo. Probabilmente, la sua identificazione del bene con il piacere soggettivo col tempo ha ridotto questo concetto al semplice piacere dei sensi, al godimento fine a sé stesso senza alcun limite trasformando nel senso comune il significato della sua dottrina in senso semplicistico e materialistico .
E' vero che per Epicuro il bene è soggettivo, senziente e coincide con il piacere personale ma non si riduce a un piacere materialistico di semplice soddisfazione dei sensi. Comunque sia, nell'opinione del filosofo una vita buona, virtuosa, è quella che coltiva i piaceri e ogni uomo che vive su questa terra dovrebbe apprezzarli e ricercarli nella sua esistenza quotidiana. Ma Epicuro constata che esistono certi piaceri i quali sono seguiti da dolore e ammonisce gli individui dal ricercare quei piaceri i quali sono seguiti inevitabilmente da questo stato fisiologico-emotivo. Ecco, così, che introduce la distinzione tra i piaceri "dinamici", che sono seguiti dal dolore, e i piaceri "stabili" che non sfociano in questo stato e e che sono il cuore di ogni vita considerata buona e quindi degna di essere vissuta. Bere smodatamente vino è un piacere dinamico poiché è seguito dal malessere della sbornia come il praticare sesso poiché è seguito da fatica, rimorso, depressione mentre coltivare l'amicizia è un piacere "stabile" visto che da questo non sorge alcuna controindicazione. Si comprende, quindi, che se la vita buona risiede nei piaceri "stabili" questa viene dipinta da Epicuro, man mano che li analizza, come una vita piacevole ma moderata, parca e senza eccessi.
La dottrina etica di Epicuro è all'origine delle teorie morali denominate con il nome di edonismo etico le quali identificano il bene con il piacere soggettivo e prescrivono ad ogni uomo di ricercare il piacere in quanto caratteristica eminente della vita buona. Tale morale mette, dunque, in evidenza una verità fondamentale, esistenziale e che deve essere un fattore irrinunciabile nella analisi della moralità ovvero il piacere o, più in generale, la soddisfazione delle aspirazioni dell'Io come sorgente di ogni comportamento. Nondimeno, anche la teoria etica edonistica lascia ad un attento lettore alcune perplessità. Se tale morale prescrive per ogni uomo la ricerca del piacere e alcuni piaceri sono "dinamici" e portano al dolore, il risultato è che alcuni effetti pratici contrastano con il principio generale cuore della teoria. Si potrebbe prescrivere, ad esempio, di bere ma con moderazione introducendo, però, un ulteriore elemento nel principio generale con la conseguenza di modificare la dottrina: "ricerca il piacere ma con moderazione" ovvero nella situazione concreta la persona vorrebbe bere a dismisura, poiché percepisce maggior piacere, ma deve compiere uno sforzo per limitarsi. Inoltre, la ricerca del piacere in moltissime situazioni non indica la via del comportamento morale secondo la logica del buonsenso.  Se un pilota di aereo durante l'atterraggio avesse voglia di una bibita ghiacciata e lasciasse la cloche di comando per soddisfare il suo bisogno è ovvio che non farebbe la cosa giusta. Si comprende, quindi, che nella moralità esiste un altro fattore oltre al piacere che è il dovere.  La teoria di Epicuro, quindi, mette in luce un elemento universale, potente dell'azione che ogni teoria etica deve tener conto ma opera una forzatura quando lo indica come il solo della vita buona, della morale. La realtà, si comprende, è molto più complessa e la moralità risponde a molti più fattori che non a uno, tantomeno il piacere soggettivo come bene.

 
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l'Aurea Medioocritas di Aristotele

Post n°4 pubblicato il 13 Giugno 2015 da ahivelasquez1975
 
Tag: etica

È risaputo che i filosofi con le loro teorie non sono delle isole a sè stanti, lontane e non comunicanti tra di loro. Come le isole di un arcipelago poggiano su un fondo comune anche le teorie filosofiche hanno tra loro collegamenti e rimandi che le inseriscono in un dibattito intellettuale che si distende nello spazio e nel tempo. Così anche la dottrina etica di Aristotele sottostà a questa regola in quanto è stata elaborata nel milieu intellettuale ateniese della scuola platonica in confronto e scontro non solo tra i discepoli di Platone ma anche, e soprattutto, in critica al filosofo delle Idee e del Bene. A differenza di Platone, dunque, l'approccio di Aristotele all'etica non è di tipo assoluto e analogo a quello che si può avere nei confronti di una scienza esatta come la matematica ma si presenta, invece, con uno stampo empirico e descrittivo. Nell'etica aristotelica, infatti, c'è un'attenzione ai comportamenti differenti tra le persone ed alla constatazione che non esiste una sola "vita buona" ma che le vite ispirate alla virtù possono essere molte tanto da dover parlare di "vite buone". Nonostante queste differenti "vite buone",  Aristotele nota che tra loro esiste una cifra comune, un elemento che si ritrova in tutte e le rende simili tra loro; queste vite, infatti, sono vite felici. È capire, dunque, cosa sia la felicità il passo successivo dell'indagine etica di Aristotele che ha preso il cammino a partire dalla constatazione empirica dei comportamenti e non cercando di ricavare l'etica dal mero ragionamento astratto.

Nell'Etica Nicomachea il filosofo offre una definizione della felicità arrivandoci non tramite un ragionamento astratto ma continuando attraverso la strada solcata dal suo metodo empirico. La felicità non è una mèta da raggiungere o un oggetto da possedere cui una volta fatto proprio dà quello che cerca di definire. La felicità è più simile alla persistenza, è presente nel mentre si fanno le cose. Notando questo nell'osservazione delle "vite buone", lo Stagirita arriva a concepire la felicità come un modo di affrontare le diverse attività della vita, un modo di fare le cose; ad esempio, si può mangiare distrattamente oppure farlo gustando ed apprezzando ogni porzione di cibo con una conseguente intima e completa soddisfazione.  Questa definizione primaria ed empirica è,  ovviamente, un po grezza e Aristotele sente il dovere di approfondirla e raffinarla. La felicità,  continua con un esempio, è come essere ben nutriti assumendo la quantità giusta di cibo; tale quantità,  quindi, sta in "mezzo" ossia assumere una quantità di cibo nè troppo esigua e neanche eccessiva. Tale "mezzo", però,  non va confuso con il significato del sostantivo "medio" ma più correttamente con "giusto" il quale è frutto di prove, tentativi e valutazioni personali sulla corretta quantità di cibo da assumere. Analogamente all'esempio, il modo per essee felici e vivere una vita buona tra le tante è agire con moderazione comprendendo, attraverso un percorso personale di tentativi e valutazioni, quale sia il proprio giusto mezzo. Questa è la dottrina etica delle virtù,  della moderazione spesso etichettata in modo negativo con la formula dell'aurea mediocritas della persona senza qualità travisando completamente il pensiero di Aristotele. Esistono, dunque, molte "vite buone" le quali hanno come caratteristica comune la felicità ossia un modo di fare le cose frutto di tentativi e valutazioni del singolo che nel tempo impara ad individuare il "giusto mezzo" a lui congeniale.

La dottrina del "giusto mezzo", la filosofia della moderazione introducono un altro punto che distingue Aristotele da Platone e che si presenta come una critica all'intellettualismo etico. Non è vero che chi conosce il bene sicuramente non potrà essee malvagio e seguirà la prescrizione che da tale conoscenza ne deriva; la vita buona è la moderazione ma un individuo può conoscere cosa sia il bene in una determinata situazione però essere debole moralmente e seguire una comportamento non etico. Aristotele, dunque, introduce nella filosofia etica il concetto di debolezza morale, la scelta da parte della sensibilità individuale di un comportamento non etico ancorché il soggetto sia consapevole di quello che fa.

Il pregio di Aristotele è quello di presentare una teoria etica di approccio empirista che spiega le varietà del comportamento umano e concependo nel suo sistema il concetto di debolezza morale delle persone. La dottrina etica presentata è nella sua sostanza una filosofia della moderazione, della ricerca del giusto mezzo in ogni situazione quotidiana il quale coincide con la felicità. Esistono, però, delle situazioni in cui non esiste il giusto mezzo e la dottrina aristotelica si dimostra inadeguata; tra dire o non dire la verità,  ad esempio, non esiste una via di mezzo e ciò mostra che accanto alle virtù relative di matrice aristotelica esistono delle virtù assolute di cui la presente teoria non tiene conto. Inoltre, possono esistere soggetti per i quali la filosofia della moderazione non è sinonimo di felicità e che, anzi, è inadeguata a loro. Pertanto, l'etica relativista ed empirista dello stagirita, pur superando alcune difficoltà proprie della teoria etica platonica, non riesce a dar conto di cosa fare per agire moralmente in ogni situazione e non pone alcuna necessità per cui la filosofia della moderazione sia sinonimo di "vita buona".

 
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