Post n°686 pubblicato il 22 Aprile 2017 da albatrho.s
... e così, al pari di una modella di provata esperienza, Zanzy ha posato nuda per me.
Zanzy è una simpatica zanzara. Ogni notte mi sveglia col suo ronzio che pare quello di un aviogetto; si posa sul mio orecchio e mi sussurra qualcosa. Ma quando scuoto la testa per dirle che non ho capito, dà potenza ai motori, se ne vola altrove e non la sentirò più sfrecciare per tutta la notte.
Siamo diventati amici perchè da due anni, cioè da quando c'è Zanzy nella camera da letto che divido con mia moglie, non ho mai dovuto accendere zampironi o far uso di insetticidi contro altri insetti, altre zanzare.
La presenza di Zanzy è una presenza di quelle che fanno da deterrente contro ogni invasore. Si presenta in primavera e se ne andrà solo quando incominceranno i primi freddi. Povera Zanzy! Non sono mai riuscito ad avvicinarla per ringraziarla delle sue attenzioni, del suo affetto. Zanzy è timida.
Ma ieri sera, mentre pensieroso cercavo di scrivere un nuovo post, Zanzy si è posata sulla parete che avevo di fronte e mi ha detto con la sua vocina: « Mi fai un selfie?»
Ma quando alla fine del lavoro, spente le luci della ribalta, ho cercato di darle una ciabattata sulle spalle per dirle "brava", è volata via.
Ciao amica Zanzy, spero di rivederti presto.
questo racconto è vero per metà. Ma se qualcuno non ci crede, a me non importa niente perchè so che Zanzy... c'è!
Post n°685 pubblicato il 08 Maggio 2016 da albatrho.s
Storie di mezza estate
Prima storia Si erano conosciuti giovanissimi.Lui ancora non sapeva scrivere e si avviava alla scoperta del mondo. Neppure lei sapeva scrivere, ma anch’essa era alla scoperta del mondo. Si erano frequentati, e avevano scoperto di avere tante cose in comune: la curiosità, soprattutto, di scoprire l’uno dell’altro. Due sporcaccioni di pari tonnellaggio.
Seconda storia. Era agosto inoltrato.Le cicale frinivano sugli alberi di tiglio e, come in un dialogo, al cessar dell’una riprendeva il verso dell’altra. Alla sera poi si poteva udire il frinire del grilli, e le lucciole erano così numerose come le stelle del firmamento. Talvolta, nel dialogo, si sentiva anche lo stridio della civetta che chiamava il compagno. L’aria era pregna dei profumi pigri dell’estate. Pigri come la gente che, seduta fuori dall’uscio, pescava con una piccola roncola in una mezza anguria, tenuta in grembo come una catinella, per lenire la seta.
Terza storia. Era un pomeriggio d’agosto inoltrato. Nella stalla il cavallo normanno frangea la biada con rumor di croste e il suo nitrire, accompagnato da un breve scalpitare, risvegliava le placide mucche che rispondevano con un breve muggito. Fuori, nel cortile, la gallina chiocciava accompagnata dal pigolio dei suoi pulcini nell’incessante ricerca del cibo.
Quarta storia. Nella stalla,sulla paglia ancora odorosa della recente mietitura, era successo il fattaccio: sdraiato su di lei, avevo allargato le gambe!
- " Ehi... pst... Albatrho.s... cosa c'entri tu?" - - " Non capisco” - - “ Hai detto: 'avevo allargato le gambe' - - " Non so proprio come io possa aver detto questo” - - " Che sia forse per il fatto che quel ragazzino che aveva allargato le gambe eri tu?” - - " Non mi pare, e poi non posso mica ricordarmi di quand’ero bambino” - - " Uno potrebbe avere un rigurgito di memoria ricordando un fatto giovanile, seppur piacevole, dovuto all’inesperienza, ti pare?" - - " beh... tutto può darsi: bisogna tener presente che anche gli albatri, quando sono giovinetti sono fatti di carne." - - " Io tengo presente anche questo, però tengo presente che se gli albatri giovinetti sono fatti di carne, anche le gallinelle giovinette sono fatte della stessa pasta. Com’è andata a finire poi la storia?"-
- “ E’ andata a finire che, per quanto lo tirassi, non ci arrivava. Tutto lì.” - - " Ma vi siete poi ritrovati?“ - - " Siiiiiiii... recentemente, su FaceBook." - - “ E cosa ti ha detto? " - - " Mi ha detto ciao " -
Post n°673 pubblicato il 19 Luglio 2014 da albatrho.s
SANT’AMBROGIO.
Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco Per que’ pochi scherzucci di dozzina, E mi gabella per anti-tedesco Perchè metto le birbe alla berlina, O senta il caso avvenuto di fresco, A me che girellando una mattina, Capito in Sant’Ambrogio di Milano, In quello vecchio, là, fuori di mano.
M’era compagno il figlio giovinetto D’un di que’ capi un po’ pericolosi, Di quel tal Sandro, autor d’un Romanzetto Ove si tratta di Promessi Sposi... Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto? Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi, In tutt’altre faccende affaccendato, A questa roba è morto e sotterrato.
Entro, e ti trovo un pieno di soldati, Di que’ soldati settentrïonali, Come sarebbe Boemi e Croati, Messi qui nella vigna a far da pali: Difatto se ne stavano impalati, Come sogliono in faccia a’ Generali, Co’ baffi di capecchio e con que’ musi, Davanti a Dio diritti come fusi.
Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo Di quella maramaglia, io non lo nego D’aver provato un senso di ribrezzo Che lei non prova in grazia dell’impiego. Sentiva un’afa, un alito di lezzo; Scusi, Eccellenza, mi parean di sego, In quella bella casa del Signore, Fin le candele dell’altar maggiore.
Ma in quella che s’appresta il Sacerdote A consacrar la mistica vivanda, Di subita dolcezza mi percuote Su, di verso l’altare, un suon di banda. Dalle trombe di guerra uscian le note Come di voce che si raccomanda, D’una gente che gema in duri stenti E de’ perduti beni si rammenti.
Era un coro del Verdi; il coro a Dio Là de’ Lombardi miseri assetati; Quello: O Signore, dal tetto natio, Che tanti petti ha scossi e inebriati. Qui cominciai a non esser più io; E come se que’ côsi doventati Fossero gente della nostra gente, Entrai nel branco involontariamente.
Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello, Poi nostro, e poi suonato come va; E coll’arte di mezzo, e col cervello Dato all’arte, l’ubbíe si buttan là. Ma cessato che fu, dentro, bel bello Io ritornava a star, come la sa; Quand’eccoti, per farmi un altro tiro, Da quelle bocche che parean di ghiro,
Un cantico tedesco lento lento Per l’äer sacro a Dio mosse le penne: Era preghiera, e mi parea lamento, D’un suono grave, flebile, solenne, Tal, che sempre nell’anima lo sento: E mi stupisco che in quelle cotenne, In que’ fantocci esotici di legno, Potesse l’armonia fino a quel segno.
Sentía nell’inno la dolcezza amara De’ canti uditi da fanciullo: il core Che da voce domestica gl’impara, Ce li ripete i giorni del dolore: Un pensier mesto della madre cara, Un desiderio di pace e d’amore, Uno sgomento di lontano esilio, Che mi faceva andare in visibilio.
E quando tacque, mi lasciò pensoso Di pensieri più forti e più soavi. Costor, dicea tra me, Re pauroso Degl’italici moti e degli slavi, Strappa a’ lor tetti, e qua senza riposo Schiavi gli spinge per tenerci schiavi; Gli spinge di Croazia e di Boemme, Come mandre a svernar nelle Maremme.
A dura vita, a dura disciplina, Muti, derisi, solitari stanno, Strumenti ciechi d’occhiuta rapina Che lor non tocca e che forse non sanno: E quest’odio che mai non avvicina Il popolo lombardo all’alemanno, Giova a chi regna dividendo, e teme Popoli avversi affratellati insieme.
Povera gente! lontana da’ suoi, In un paese qui che le vuol male, Chi sa che in fondo all’anima po’ poi Non mandi a quel paese il principale! Gioco che l’hanno in tasca come noi. Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale, Colla su’ brava mazza di nocciuolo, Duro e piantato lì come un piolo.