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Scusa

Post n°334 pubblicato il 03 Dicembre 2008 da falco58dgl
 

Scusami, ti prego. T’imploro, scusa. Scusa, scusa, scusa, scusa, lo ripeterò fino a quando non mi guarderai senza rancore. Non sopporto quel tuo sguardo colmo di disprezzo, come se avessi commesso un crimine irreparabile. Ti chiedo perdono per la mia debolezza, la mia naturale vigliaccheria, le piccole meschinità che non posso fare a meno di commettere, le indecisioni e le tante omissioni. Ti ho sempre amato, con accanimento feroce, illudendomi di attrarti con l’ostinazione e la tenacia. Ma non ho fatto altro che replicare i miei errori.

Ti ricordi? Eravamo insieme a Barcellona e girovagavamo senza una meta apparente per le stradine del Barrio Gotico. Non è passato tanto tempo, in fondo. Ti guardavo con un’ammirazione fedele degna di un cane, mentre le tue mani sfioravano gli oggetti di artigianato del mercatino antiquario. Abbiamo anche riso quando ho fatto quasi cadere una ceramica andalusa di fattura squisita. Poi ti sei fatta seria e m’hai detto “Non cambi mai”. Non era una domanda o un’affermazione, era un verdetto. La constatazione di una irriducibile differenza, di una abissale inadeguatezza. Un velo di polvere laddove aspettavi mari puliti. Ti sei allontanata con gentile indifferenza, non ti sei neanche voltata a salutarmi.

Ho saputo poi che ti eri messa in viaggio. Argentina, Cile, Indonesia, Tailandia. Non sapevo cosa facessi, non osavo chiederlo. T’immaginavo accompagnata da uomini belli e discreti che sapevano interpretare i tuoi desideri con la stessa maestria di un suonatore di chitarra che trae armonie dal suo strumento. E mi sentivo quasi felice, mentre pensavo questa immagine che proiettava il mio timore e la mia voglia di rappresentarti comunque, in qualunque modo, in ogni luogo. Ho sempre cercato conforto nella fantasia, nell’immaginazione, quasi che la costruzione di un universo tutto mio, falso e consolatorio, mi sollevasse dalla responsabilità di vivere il presente.

Eppure siamo stati bene insieme. Solo diciotto mesi, un anno e mezzo lungo, lunghissimo. Non ricordo chi ha detto che il tempo è come un elastico, se vivi con intensità i giorni scorrono veloci, ma occupano un ampio spazio nella memoria. Se vivi una vita povera, il tempo rallenta e si dilata, però non ne resta traccia alcuna. Con te è stato un lampo prolungato, un flash ripetuto, che ha illuminato giorni troppo simili tra di loro.

Scusa, te lo ripeto, scusami se non ho avuto il coraggio di spogliarmi dalle mie abitudini, di provare a cambiare. Ero troppo felice per riuscirci. Mi sembrava che l’averti incontrato fosse una ricompensa per l’oscurità che avevo assorbito in tanti anni e che, simile ad un vestito troppo aderente, mi si era incollata al corpo.

Tu mi hai voluto, mi hai preso e abbiamo fatto un tratto di strada parallela, senza incontrarci realmente, tranne in poche occasioni. Mi fissavi con curiosità, a volte con fastidio, qualche volta con affaticata tenerezza. Poi sei andata via e anche per questo ti chiedo scusa. Non volevo costringerti ad abbandonarmi. Non intendevo mortificare, neanche indirettamente, il tuo slancio. Ma l’ho fatto e non riesco a farmene una ragione.

Non guardarmi con quegli occhi spalancati e freddi. Non fissarmi così, adesso che ti ho ritrovato e ti sono piombato addosso con tutta la mia furia alimentata da mesi, da anni di distacco.

Ti ho visto e mi è venuta voglia di inginocchiarmi e di mettermi a pregare. Ma tu hai detto “Cosa vuoi? Perché sei tornato?”, mirandomi come da una lontananza abissale.

Ho aperto le mie mani strette tra di loro a cercare conforto e le ho portate sopra il tuo petto che assomiglia a un paio di mele acerbe e succose. Volevo accarezzarti il collo lungo e sottile, ma le mie braccia non hanno seguito l’ordine che avevo dato loro e si sono animate da sole, serrandoti in una morsa.

Ho pianto, urlato e maledetto le mie mani mentre ti soffocavano. Gridavo così forte che le mie grida rimbombavano dentro la testa come uccelli predatori in caccia. Ho desiderato di morire, di svenire, di annullarmi in un vortice gelato.
Non guardarmi così, ti supplico. Dimmi qualcosa.

Scusa, non volevo, scusa, scusa, scusa, scu..

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LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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