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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Messico, 1983

Post n°345 pubblicato il 25 Gennaio 2009 da falco58dgl
 

Segretario, avrei bisogno di sei mesi di aspettativa. Come mai, Dr. Folloni? Lavora con noi solamente da due anni. A lei lo posso dire segretario, avrei intenzione di scrivere un libro. Va bene, dottore, vedremo di considerare la sua richiesta.

-Scrissi il mio libro che s’intitolava pomposamente “ Sociologìa de la liberaciòn”. Sfoggiava una tremenda copertina porno soft con un primo piano di gambe di donna in dissolvenza. Lo presentai davanti a platee di studenti e di intellettuali appartenenti all’area variegata della sinistra Latino-americana. Si trattava di un insieme di saggi, scritti in uno spagnolo ancora approssimativo, con costruzioni sintattiche mutuate dai documenti dell’Ufficio Politico di Avanguardia Operaia, che descriveva esperienze di ricerca “alternative” in Italia  e in Messico. Freire, la ricerca partecipante, il superamento della relazione di potere tra ricercatori ed oggetti della ricerca, Psichiatria Democratica ed i movimenti di lotta anti istituzionali, lo sviluppo delle comunità indigene, elementi di metodologia critica delle scienze sociali, tutto ciò era frullato ed amalgamato dentro una costruzione teorica tripartita.Avevo sempre bisogno di tre aggettivi, di tre proposizioni concatenate, di tre soggetti. Esattamente come adesso-.

Palle, sono palle, sono tornato nel Distretto Federale non per scrivere il libro, ma per stare vicino a Isabel. Non ne potevo più di viaggiare ogni settimana per mille e duecento chilometri, di abitare in un appartamento sotterraneo vasto e spoglio, della  provincia sonnacchiosa e affollata di Guadalajara.

-     Città orrenda, Città del Messico,  ma almeno non avrei dovuto più  fare la spola  tutte le settimane tra il lavoro ed il mio amore, percorrendo quindici  ore in autobus.  Così facendo perdetti la mia dualità,  la possibilità di vivere, anche se scisso, due vite diverse, due posizioni separate. La casa in cui vivevo  nel quartiere Condesa   era lo specchio di Isabel. Piena di mobili liberty così fragili da non sopportare uno sguardo troppo prolungato, idoli preispanici, piante rigogliose, ninnoli, lampade a stelo, quadri che mescolavano gli amatl a interni parigini di fine ottocento. Mi ci trovavo felicemente estraneo, ospite permanente, osservatore privilegiato delle sue emozioni, dei suoi andirivieni, dei suoi umori-.

Un ragazzo dai capelli lunghi sta scrivendo su fogli di carta che si ammucchiano disordinati. Un raggio di sole dalla finestra che illumina l’aralia “elegantissima”. Tracce di succo d’arancia in un bicchiere. Il telefono.

Pronto? Ciao, sono Alejandra. Ale, che sorpresa. Sei sempre a Guadalajara? No, vivo a Città del Messico, adesso. Davvero? Anch’io. Sto lavorando presso il dipartimento dei progetti educativi del ministero della pubblica istruzione. Ah, sì? Interessante. Senti, Marco, conosci la matematica educativa? Francamente no, Ale. Ma il concetto di numero secondo Piaget sì, no? Bè, l’ho insegnato. Perfetto, ho parlato di te alla responsabile che coordina il progetto, credo che ti chiameranno. Grazie, Ale, sei proprio un tesoro. Que te vaya bien, Marco. 

-Non era quello che cercavo, ma che potevo farci. I tempi per entrare in un’Università della capitale erano biblici, le necessità istituzionali stringenti. Mi presentai. Si trattava del progetto più sconclusionato di cui avessi mai sentito parlare. Troppo irreale per essere solo fantastico. Dovevamo pianificare e realizzare una ricerca di psicomatematica. Predisporre uno strumento di valutazione per misurare le competenze dei bambini delle scuole elementari limitatamente alle quattro operazioni aritmetiche.
Eh già. Al Ministero si erano resi conto che troppi bambini venivano bocciati in Matematica e ci avevano incaricato di capire perché. Ipotesi prevalenti:  deficiente strutturazione degli schemi cognitivi operatori (la direttrice del Dipartimento, la sola persona in gamba, era piagetiana), competenze matematiche limitate dal tipo di istruzioni contenute negli esercizi scolastici, deficit specifico di origine neurobiologica. A nessuno era venuto in mente che la presenza di cinquanta bambini per aula, la demotivazione dei maestri, pagati una miseria, l’attenzione prevalente ai rituali, le disastrose metodologie didattiche potessero influire sul problema. Mi ritrovai così in uno spazio totalitario, una stanza di tre metri per quattro e sei ricercatori che lavoravano gomito a gomito per sette ore al giorno. La responsabile del progetto -Juana- riusciva a sommare in sé qualità rare e preziose: aveva una risata agghiacciante, lunga e stridula, che replicava ogni quarto d’ora, voleva trasmetterci lo “spirito di squadra”, sottoponendoci a compiti collettivi di indubbio valore formativo (discutere in gruppo per ore di problemi incomprensibili con posizioni sempre più polarizzate e distanti e decidere alla fine chi avesse ragione), ma, soprattutto, non capiva un acca di matematica educativa. A stento sapeva moltiplicare-.

Un lavoro di merda, a eccezione delle facce dei bambini che scrivono compunti. Isabel
che sorride, s'arrabbia, allarga le braccia e le rinchiude intorno alla schiena del suo uomo,
viaggi  attraverso sierre grandi quanto il nord Italia,  la voglia di andare avanti 
comunque.
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"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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