Perché negare a chi è in fase terminale di una malattia incurabile il diritto di morire degnamente? Perché accanirsi a mantenere in vita chi, dalla vita, si è già progressivamente allontanato? Le polemiche che nascono ogniqualvolta si cerchi di affrontare in Italia il tema delle scelte di fine vita sono sempre molto ideologiche. Forse troppo. Soprattutto quando, dimenticandosi delle condizioni drammatiche in cui vivono oggi tanti malati terminali, si insiste a voler opporre tra loro i concetti di “dignità della persona” e “autonomia individuale”, riempiendosi così la bocca di parole che suonano bene – e che molto spesso ci fanno sentire in pace con la nostra coscienza – senza interrogarsi sul senso della vita, del dolore e della morte. Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij scriveva: “Ama la vita più del senso, e anche il senso troverai”. Ma quando si è gravemente malati e non c’è più niente da fare, che senso ha invocare astrattamente il “valore inalienabile della vita? Quando si è detto esplicitamente che si desidera andarsene, in nome di cosa qualcun altro dovrebbe potersi arrogare il diritto di opporsi?

Certo, una delle caratteristiche della persona è proprio la dignità: quel valore intrinseco che possiede ogni essere umano e che lo differenzia dalle semplici cose che, come spiegava Kant, non hanno dignità, ma sempre e solo un “prezzo”. Ma proprio per questo, la vita dovrebbe poter essere vissuta in modo degno, anche e soprattutto quando si giunge alla fine, senza che nessun altro consideri legittimo imporci il proprio punto di vista e la propria concezione dell’esistenza. Ecco perché l’autonomia, nel nome della quale da anni si invoca il diritto all’autodeterminazione dei malati, non si oppone affatto al principio di dignità. Anzi. È solo un modo per rispettare la volontà di coloro che, nella sofferenza, chiedono di essere ascoltati, e quindi anche la loro dignità. Tanto più che difendere l’autodeterminazione dei pazienti non significa poi che i medici debbano venir meno alla propria vocazione, e abbandonare quindi i malati alla solitudine delle proprie scelte: per potersi veramente prendere cura di un’altra persona, un medico dovrebbe essere capace di adottare il punto di vista altrui, sapendo che la “cura del corpo” non può mai prescindere dalla consapevolezza delle sofferenze psichiche e morali legate ai mali fisici.

Il dramma del “fine vita” ci riguarda tutti. Anche semplicemente perché morire è una delle caratteristiche della condizione umana. La vita è mortale proprio “perché” è la vita, come scriveva il filosofo Hans Jonas. E un giorno o l’altro ci ritroveremo tutti lì, forse impotenti di fronte alle decisioni che altri vorranno prendere al posto nostro, cercando disperatamente di essere rispettati almeno un’ultima volta, soprattutto quando non c’è più niente da fare. La dignità della persona, che nessuno pretende negare o cancellare, consiste anche nell’avere il diritto di essere riconosciuti come soggetti della propria vita fino alla fine. Sapendo che il “valore inalienabile della vita”, spesso invocato da chi si oppone al fatto che in Italia si legiferi sulle scelte di fine vita, lo si rispetta anche quando si prende sul serio la parola di chi soffre.

Articolo pubblica su Repubblica del 19 marzo 2014