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AVERE GLI ALTRI DENTRO DI SE'

Post n°75 pubblicato il 03 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: POESIE

Ringrazio Laura per avermi segnalato la

Canzone dell'appartenenza
di Gaber - Luporini

L'appartenenza
non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé.

L'appartenenza
non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un'apparente aggregazione
l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé.

Uomini
uomini del mio passato
che avete la misura del dovere
e il senso collettivo dell'amore
io non pretendo di sembrarvi amico
mi piace immaginare
la forza di un culto così antico
e questa strada non sarebbe disperata
se in ogni uomo ci fosse un po' della mia vita
ma piano piano il mio destino
é andare sempre più verso me stesso
e non trovar nessuno.

L'appartenenza
non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.

L'appartenenza
è assai di più della salvezza personale
è la speranza di ogni uomo che sta male
e non gli basta esser civile.
E' quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa
che in sé travolge ogni egoismo personale
con quell'aria più vitale che è davvero contagiosa.

Uomini
uomini del mio presente
non mi consola l'abitudine
a questa mia forzata solitudine
io non pretendo il mondo intero
vorrei soltanto un luogo un posto più sincero
dove magari un giorno molto presto
io finalmente possa dire questo è il mio posto
dove rinasca non so come e quando
il senso di uno sforzo collettivo per ritrovare il mondo.

L'appartenenza
non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un'apparente aggregazione
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.

L'appartenenza
è un'esigenza che si avverte a poco a poco
si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo
è quella forza che prepara al grande salto decisivo
che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti
in cui ti senti ancora vivo.

Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi.

 
 
 

MEDEA DI EURIPIDE (1/6)

Post n°76 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

Eurìpide

Medèa


Tragedia rappresentata nel 431. La leggenda di Medea si riannoda al mito degli Argonauti cantato a lungo da poeti epici e lirici. Ma l'episodio vero e proprio di Medea, che, abbandonata da Giasone per una nuova sposa, si vendica di lui procurando la morte alla fanciulla e al padre di lei, e uccidendo di sua mano i suoi propri figli, che è il soggetto della tragedia di Euripide, è assai più recente, e l'uccisione dei figli è un elemento probabilmente aggiunto dalla tragedia attica, se non proprio da Euripide. Nel prologo, una vecchia schiava, la nutrice di Medea, espone la situazione iniziale del dramma. Medea, dopo avere per amore di Giasone mosso alla conquista del Vello d'oro e indotto le figlie di Pela a uccidere il loro padre, è stata costretta a fuggire, con Giasone e coi figli, a Corinto. Qui Giasone sta per abbandonarla e per legarsi in nuove nozze a Glauce, la figlia del re Creonte. Disperata, Medea passa dalle grida, dai lamenti, dai rimproveri, a un cupo mutismo e non vuol più rivedere i figli. La nutrice teme - presagio che si sente pesare sempre più urgente fino al compimento dell'atto - che Medea compia qualche tremenda azione. Essa conosce troppo bene l'anima della sua padrona. Così, quando giunge, accompagnando i figli di Medea, un vecchio schiavo, e informa la nutrice che essi saranno, per volontà di Creonte, banditi dalla città, essa, sentendo aggravarsi la minaccia, raccomanda al vecchio di tener lontano da Medea i suoi figli. Si sentono ora, dall'interno del palazzo, le grida dell'infelice che impreca alla sua sorte, alla sua casa, ai suoi figli. Si uniscono nel compiangerla e nell'esprimere oscuri timori la nutrice e il coro di donne corinzi ora sopraggiunto. Per consiglio del Coro la nutrice entra nel palazzo per condurne fuori Medea, semmai il vedere e parlare con persone amiche, le donne del coro, calmi il suo furore. E Medea esce e lamenta dinanzi al Coro il destino di tutte le donne, e soprattutto il suo destino. Privata di parenti, di amici, di patria, giunta al delitto per l'uomo amato, ora essa sta per perdere anche lui. Una sola cosa chiede Medea al Coro: il silenzio sul suo proposito di vendetta, sicuro anche se non fermo ancora nel modo. Giunge Creonte e intima a Medea di lasciare, nel giorno stesso, la città, coi suoi figli. Medea, fattasi calma e umile, domanda ragioni e supplica, ma il vecchio le dice chiaro che egli teme la sua presenza, per sua figlia e per Giasone e tanto più la teme quanto meglio essa sa, perfidamente, farsi umile e mansueta. Ma quando Medea gli chiede un giorno, un giorno solo di dilazione per prepararsi a partire, egli finisce col concederglielo, pur col presentimento di far male. Rimasta sola, Medea se ne rallegra sinistramente e invoca ogni sua forza d'animo e di magia per preparare a Glauce e Giasone "nozze amare". Si trovano ora faccia a faccia Medea e Giasone, venuto a tentar di calmare la sposa tradita con un tentativo di giustificazione. Non si potrebbe immaginare contrasto più significativo, opposizione più radicale di questa. Di fronte alla passionalità aspra e magnanima della donna che per amore ha tutto perduto e commesso delitti, quest'uomo mediocrissimo pretenderebbe di fare accettare il suo desiderio di nuove nozze come un tentativo di buona sistemazione per i figli, che avranno dalle sue nozze posizione regale, e per la stessa Medea, che, a sentir lui, avrebbe potuto vivere tranquilla e onorata in Corinto, se non fosse stata così violenta. Ma Medea non discute neppure queste insultanti considerazioni i motivi dell'abbandono o son falsi e coprono un amore che la rende pazza di gelosia, o sono spregevoli. Con i rimproveri più appassionati, con la rappresentazione della propria miseria e desolazione, Medea intreccia ironia sprezzante e minaccia. Il diverbio lascia a lei un'ultima parola in cui la sentiamo dominatrice sicura. La sorte la favorisce. (È stato rimproverato ma con poca ragione da critici antichi questo intervento della sorte. Noi sentiamo che di fronte a tale anima ogni occasione esteriore è elemento secondario). Giunge Egeo, re di Atene, che è stato a Delfi per interrogare Apollo, perché 'è afflitto dalla mancanza di prole, ed è ora diretto a Trezene. A lui Medea chiede ospitalità in Atene e la promessa che egli non la consegnerà mai ai suoi nemici. In cambio Medea, coi suoi filtri, gli darà la paternità. Egeo acconsente con giuramento e Medea, sicura ormai di avere un rifugio, può pensare risolutamente alla vendetta. Manderà alla sposa un peplo e una ghirlanda d'oro, avvelenati con un suo farmaco, che farà morire la fanciulla appena li avrà indossati e chiunque poi la toccherà. Poi ucciderà i figli in modo che Giasone sia colpito nell'unica cosa che ama. Nel compimento della vendetta le vale di strumento quella simulazione fredda e sicura che in lei si unisce alla violenza selvaggia, con apparente contrasto, in realtà traendo forza e tensione dalla chiusa passione. Ha mandato a chiamare Giasone, fingendosi pentita della sua violenza, lo prega di intercedere presso Creonte perché i suoi figli possano rimanere a Corinto. Li ha fatti venire perché salutino il padre. Vedendoli, sentendo le parole di Giasone auguranti a loro una vita felice, è vinta dalla tenerezza e piange, ma riesce a dominarsi e dà loro da portare il peplo e la corona per Glauce. La preghino essi, di lasciarli vivere a Corinto. Dopo il canto corale, tutto pieno del presagio dell'imminente sventura, torna sulla scena il pedagogo coi figli e racconta che i doni sono stati accettati. Si meraviglia però che Medea rimanga triste e piangente. Ella pensa all'atto che sta per compiere, mentre il pedagogo si appaga di credere che l'affligga il dolore della separazione imminente. Congedato il vecchio schiavo, Medea, in un monologo famoso e meraviglioso di verità e profondità, esprime il tormento del suo animo fluttuante tra il proposito e la tenerezza dei figli. Li chiama a sé piangendo e li bacia, poi li fa allontanare e li richiama ancora, più volte sentendo insostenibile l'atto meditato, ma sempre ritornandovi come a una ferrea legge del fato. La sua passione funesta prevale anche se ella sente e sa che per essa sarà distrutta la sua vita. Giunge, dopo il canto del Coro, un servo e annunzia a Medea che Glauce e suo padre sono morti, la fanciulla per avere indossato i doni di Medea, il padre per aver voluto abbracciarla morta. Medea si accinge ora a compiere l'atto più tremendo: entra nel palazzo vincendo ancora una volta il sentimento materno. Si sentono, dopo il canto del Coro deprecante la sciagura, le grida dei bambini che chiamano aiuto. Tutto è compiuto quando Giasone arriva per salvare i suoi figli, strumenti della morte di Creonte e di Glauce, dall'ira dei Corinzi. Lo informa il Coro. Furente egli si precipita sulla porta della casa e vorrebbe entrare a forza, ma lo ferma una apparizione prodigiosa: Medea appare sul fastigio della casa, su un carro alato, mandatole, essa dice, dal Sole, suo avo. Ha con sé i corpi dei piccoli figli. Giasone impreca contro di lei "non donna, ma leonessa", mostro come la "Tirrena Scilla". Medea ribatte, durissima, che lui solo è causa della sciagura e nega alle sue suppliche la grazia di vedere e toccare ancora i corpi dei figli. Con un'ultima invocazione di Giasone alla vendetta di Zeus ha termine il dramma. Questa tragedia, che è tra i grandi capolavori euripidei, ha nella figura sempre dominante della protagonista la sua unità. Non ci sono, tranne in qualche canto corale, momenti episodici e digressioni. Lo stesso sentenziare, comune in Euripide, ma qui meno frequente, sembra ora quasi sempre esprimere direttamente un sentimento. Euripide è riuscito a creare una figura mostruosa e umana insieme, violenta e tenera, lacerata dal più potente conflitto di passioni e dominatrice. Il suo interesse per le anime, e per le anime infelici, sempre dolorose e vinte anche quando si abbandonano al demone da cui sperano felicità e vittoria, questa che è la nota dominante della sua ispirazione, si è qui attuata compiutamente.

(segue)

 
 
 

MEDEA DI EURIPIDE (2/6)

Post n°77 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

TESTO GRECO

Traduzione di Ettore Romagnoli


PERSONAGGI:

NUTRICE
AIO
I FIGLI di Medèa
Medèa
CORO di donne Corinzie
CREONTE
GIASONE
Egèo
MESSO


L'azione si svolge a Corinto, dinanzi alla casa di Giasone.
NUTRICE:
Deh, mai varcate non avesse a volo
le Simplègadi azzurre il legno d'Argo,
verso il suolo dei Colchi, e mai non fosse
nei valloni del Pelio il pin caduto
sotto la scure, e al remo non si fossero
strette le mani degli eroi gagliardi,
che, per mercè di Pelia, a cercar vennero
il vello d'oro! Navigato allora
non avrebbe Medèa, la mia signora,
alle torri di Iolco, in cuor percossa
dall'amor di Giasone; e mai, le vergini
Pelie convinte alla paterna strage,
col suo sposo in Corinto e coi suoi figli
dimora eletta non avrebbe, cara
ai cittadini alla cui terra giunse
esule, e in tutto ligia ella a Giasone:
grande saldezza d'una casa, quando
non fa contrasto la sposa allo sposo.
Ma tutto infesto è adesso, e affligge il morbo
ogni piú cara cosa. In regio talamo
Giasone or dorme, ed ha traditi i figli
suoi, la consorte: ché sposò la figlia
di Creonte, signor di questa terra.
E Medèa, l'infelice, abbandonata,
ad alta voce i giuramenti invoca,
e della destra la solenne fede;
e del ricambio che Giasone or le offre,
a testimoni gli Dei chiama. E giace,
sfatte le membra nel dolore, e cibo
non prende, e tutto il dí si strugge in lagrime,
poiché si sente dal consorte offesa,
né l'occhio leva, né distoglie il viso
mai dalla terra; e, come rupe, o flutto
marino, degli amici ode i conforti.
Salvo, se il bianco suo collo talora
volge, ed il padre suo, la casa sua,
la patria, seco stessa ella rimpiange,
ch'ella ha traditi, per seguir quest'uomo
ch'or la disprezza. Sotto i colpi, misera,
della sventura, appreso ha quanto giovi
il non lasciar la propria patria. E i figli
odia, e a vederli non s'allegra; e temo
che disegni novelli essa non volga;
perché l'animo ha fiero; e sopportare
sí mali tratti non saprà: pavento
che immerga in cuore un'affilata lama,
entrando in casa dov'è steso il talamo,
nascostamente, ed il suo sposo e re
uccida, e n'abbia danno anche maggiore:
ch'essa è tremenda; e contro lei chi mosse
a nimicizia, facil non sarà
che riporti trofeo. Ma questi pargoli
già qui, lasciati i loro giochi, muovono,
che nulla sanno dei materni mali:
fanciullesco pensier cruccio non cura.
AIO:
O vecchia ancella, dalla casa addotta
della signora, perché dunque sola
stai su la soglia, e teco stessa gemi?
Come senza di te Medèa rimase?
NUTRICE:
Aio dei figli di Giasone antico,
la mala sorte dei signori affligge
i buoni servi, e al cuore lor s'appiglia.
A tal dolore io son giunta, che brama
di qui venir mi vinse, ed alla terra
narrare e al ciel della Signora i mali.
AIO:
Non desisté la trista, ancor, dai gemiti?
NUTRICE:
Semplice! Appena adesso il mal comincia.
AIO:
Stolta, se posso ciò della regina
dire, che nulla sa dei nuovi mali!
NUTRICE:
Vecchio, che c'è? Non rifiutarti, parla.
AIO:
Non vo': di quanto già dissi, mi pento.
NUTRICE:
No, per la bianca tua barba, confidalo
alla compagna: io tacerò, se occorre.
AIO:
Senza aver l'aria d'ascoltare, fattomi
vicino al luogo ove dei dadi al gioco
seggono gli anzïani, all'acque sacre
di Pirene vicino, un tale udii
dir che Creonte, il re di questa terra,
da Corinto scacciar questi fanciulli
vuole, e la madre. Se poi vera sia
la nuova, ignoro. Deh, vera non fosse!
NUTRICE:
E patirà Giasone, anche se in lotta
con la madre, che ciò soffrano i fig1i?
AIO:
Cedono ai nuovi i parentadi antichi,
né di Medèa la casa ama Creonte.
NUTRICE:
Siamo perduti, ove all'antico, prima
d'averlo scosso, un nuovo mal s'aggiunge.
AIO:
Non dir parola, tu, taci: momento
questo non è che la signora sappia.
NUTRICE:
O fig1i, udite l'animo del padre
qual è verso di voi? Morte imprecargli
non voglio, ch'esso è mio signor; ma certo
è chiaro ch'egli è pei suoi cari un tristo.
AIO:
Chi non è tale, fra i mortali? Impara
che ciascuno ama sé piú che il suo prossimo,
quando vedi che piú non ama il padre,
per le nozze novelle, il proprio sangue.
NUTRICE:
In casa entrate, sarà bene, o fig1i.
E tu tienili quanto è piú possibile
in disparte, e fa' sí che non accostino
la madre esacerbata: io già l'ho vista
che li guardava con occhio di furia,
come se accinta a qualche male; e l'ira
non deporrà, bene lo so, se prima
su qualcun non s'abbatta. Oh, sui nemici
possa però piombar, non sugli amici!
(Dal di dentro si ode la voce di Medèa)
Medèa:
Ahimè!
Ahi me misera! Me sventurata!
Quali pene! Oh, potessi morire!
NUTRICE:
Questo è ciò, fig1i miei, ch'io temevo.
Della madre il cuor s'agita, l'ira
si ridesta. Affrettatevi, entrate
nella casa, lontani tenetevi
dal suo sguardo, e a lei presso non fatevi,
dall'umor suo selvaggio guardatevi,
dall'indole infesta dell'animo
orgoglioso. Via, subito entrate.
Ben chiaro è fin d'ora,
che ben presto, con alto furore
scoppierà questo nembo di gemiti
ch'or s'innalza. Che cosa farà,
cosí morsa dai mali, quell'anima
superba, che ignora pietà?
Medèa:
Ahimè!
Ho patite, ho patite sciagure
d'alti gemiti degne. O figliuoli
maledetti di madre odïosa,
deh, possiate morire col padre,
tutta vada la casa in rovina!
NUTRICE:
Ahi me misera, ahi me sventurata!
E che colpa hanno dunque i tuoi figli
del fallo del padre? Perché
li aborrisci? Ahimè, figli, che cruccio
nel mio cuor, che vi colga sventura!
Son tremende le audacie dei principi,
poco avvezzi a ricever comandi,
molto a darne, è ben raro che l'ira
a deporre s'inducano. Uguali
meglio è viver fra uguali. Invecchiare
vo' fra piccoli beni e sicuri.
Ché la vita medíocre, basta
dirne il nome, e prevale, ed a viverla
di gran lunga migliore è per gli uomini.
Ciò che fugge misura, non può
niun vantaggio recare ai mortali;
e maggiori sciagure, se il Dèmone
mai s'adira, procaccia alle case.
(Si avanza il coro, componto di donne corinzie)
CORO: Preludio
Della misera donna di Colco
udito ho la voce, le grida,
ché ancor non si placa. Su, vecchia, tu parla:
ché un ululo dentro al palagio
udii dalla gemina porta.
Né, donna, m'allegro pei guai della casa,
che cara è per me divenuta.
NUTRICE:
Piú non è questa casa: è finita:
ché letti di principi accolgono
Giasone; e si strugge nel talamo
la nostra signora; né v'ha
parola d'amico che possa
molcirne lo spirito.
Medèa:
Ahimè!
Sul mio capo la fiamma celeste
piombasse! A che viver mi giova?
Ahi, ahi, nella morte disciogliermi
potessi, lasciare
la vita odïosa!
CORO: Strofe
O Giove, o Terra, o Luce, udiste i gemiti
che intona questa misera?
Qual brama hai tu dell'ultimo
sonno? A che affretti il termine di morte?
Il voto, oh! non esprimerne.
Se vago il tuo consorte
è di novello talamo,
non esser tu soverchiamente acerba.
Non ti strugger, non sia troppo il rammarico
per lui: ché Giove a te vendetta serba.
Medèa:
O tu, Giove santissimo, o Tèmide
veneranda, le mie sofferenze
vedete, da poi che lo sposo
maledetto, con gran giuramenti
a me strinsi! Deh, possa io vederlo
con la sposa, con tutta la casa
stritolato! Ché primi d'obbrobrio
mi copersero. O padre, o città
donde mossi raminga, poi ch'ebbi
turpemente trafitto il germano!
NUTRICE:
Non udite che dice, che grida
leva a Tèmi, patrona dei supplici,
ed a Giove, dei giuri custode
pei mortali? Che plachi il suo sdegno
la signora per piccol conforto
possibil non è.
CORO: Antistrofe
Essere non potrà che a noi la misera
venga, ed ascolti il sònito
dei miei detti, e dall'impeto
del cuore, e dalla grave ira s'affranchi?
La cura mia sollecita
agli amici, oh, non manchi.
Or tu muovi, e conducila
qui, pria che in casa faccia un qualche danno.
Annuncia a lei che amiche qui l'attendono:
ché qui prorompe luttuoso affanno.
NUTRICE:
Lo farò; non credo io che convincere
la signora potrò; ma la grazia
pur vo' darvi di questo mio sforzo.
Sebbene, essa lo sguardo sí fiero
sui famigli rivolge, che sembra,
quando alcuno a parlarle si appressa,
lionessa che guardi i suoi cuccioli.
Se dicessi che sciocchi, che in nulla
sapïenti fûr gli uomini antichi,
non diresti menzogna: ché cantici
per conviti, per feste e per cene
ritrovâr, pei sonori sollazzi
della vita; e nessuno trovò
come i tristi cordogli degli uomini
con la musa e i multísoni canti
mitigare potesse; e di qui,
stragi e orrende sventure devastano
le magioni. Eppur, questo sarebbe
gran vantaggio, i mortali coi cantici
risanare. Ma dove son lauti
banchetti, levare le voci
perché, se il piacer della mensa
procura, nell'ora fuggevole,
da se stesso, delizia ai mortali?
CORO: Epodo
Udii di flebili gemiti il grido.
Con urli acuti, penosi, i triboli
geme, e al suo talamo lo sposo infido;
e, soverchiata, s'appella a Tèmide,
ch'è, presso a Giove, vindice ai giuri.
Essa, alle opposte spiagge de l'Ellade,
lei, per lo stretto del mare impervio,
spinse, sui tramiti del mare oscuri.
(Dalla reggia esce Medèa)

(segue)

 
 
 

MEDEA DI EURIPIDE (3/6)

Post n°78 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

Medèa:
Donne corinzie, per fuggire il biasimo
uscita son, venuta a voi. Conosco
molti superbi: n'ho veduti io stessa,
d'altri ho udito parlare; e v'ha chi trista
fama lucrava d'albagia, per vivere
troppo in disparte. Ma non bene gli uomini
sol per veduta giudicano, quando
c'è chi aborrisce altrui, senza conoscerne
l'animo a fondo, sol per vista, senza
che torto n'abbia ricevuto. Un ospite
uniformarsi in tutto alla città
deve; né pure un paesano lodo
che per troppa baldanza ai cittadini
riesce ingrato, o per serbarsi incognito.
Su me piombò questo inatteso evento,
e il cuore mi spezzò. Perduta io sono:
piú non ho gioia della vita, e voglio
morire, amiche, quando l'uom che tutto,
lo vedo or bene, era per me, lo sposo
mio, s'è mostrato il piú tristo degli uomini.
Fra quante creature han senso e spirito,
noi donne siam di tutte le piú misere.
Ché, con profluvii di ricchezze prima
dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo
- male dell'altro anche peggiore - despota
del nostro corpo. E il rischio grande è questo:
se sarà tristo o buon: ché separarsene
non reca onore alle consorti, né
repudïar si può lo sposo. E, giunta
quindi a nuovi costumi, a nuove leggi,
indovina dovrebbe esser: ché appreso
in casa non ha già come piacere
possa allo sposo. E quando, a gran fatica,
vi siamo giunte, se lo sposo vive
di buon grado con noi, se non sopporta
il giogo a forza, invidïata vita
la nostra! Ma se no, meglio è morire.
Quando in casa si cruccia, un uomo può
uscir di casa, e presso un coetaneo,
presso un amico, cercar tregua al tedio:
noi, di necessità, sempre allo stesso
uomo dobbiamo essere intente. Dicono
che passa in casa, e scevra dai pericoli
la nostra vita, e invece essi combattono;
ed hanno torto: ch'io lo scudo in guerra
imbracciare vorrei prima tre volte,
che partorire anche una sola. Ma
ciò ch'io dico per me, male s'addice
a te: la patria hai tu, la casa tua,
agi di vita, consorzio d'amici:
io sola sono, senza patria, e oltraggio
mio marito mi fa, che me rapiva
da una barbara terra; e non ho madre,
non fratello o parente, a cui rivolgere
possa l'approdo in questa mia sciagura.
Ora io vorrei da te questo impetrare:
se qualche via, se qualche astuzia io posso
escogitare, onde allo sposo infligga
del mal ch'esso mi fa la giusta pena,
tu non parlar: ché in tutti gli altri eventi,
piena è la donna di paure, e vile
contro la forza, e quando vede un ferro;
ma quando, invece, offesa è nel suo talamo,
cuore non c'è del suo piú sanguinario.
CORIFEA:
Non parlerò, Medèa: ché sarà giusta
contro il tuo sposo la vendetta; né
se del tuo mal ti crucci, io n'ho stupore.
Ma ve', Creonte, il re di questa terra
s'avanza, ad annunziar nuovi consigli.
(Entra Creonte e si volge a Medèa)
CREONTE:
A te che truce il guardo volgi, e piena
di cruccio sei contro lo sposo, impongo,
Medèa, che tu da questa terra fugga
esule, e teco entrambi i figli tuoi,
e che non tardi. E a che si compia l'ordine
io veglierò; né a casa tornerò,
pria che da questo suol non t'abbia espulsa.
Medèa:
Ahimè, son giunta all'ultima rovina!
I miei nemici sciolsero le gomene
tutte, e porto non è dove io rifugio
trovi dalla sventura. Eppur, sebbene
in tante angustie, chiederò, Creonte,
perché mi scacci dalla terra in bando.
CREONTE:
Di parole raggiri non occorrono.
Temo che qualche male immedicabile
alla mia figlia tu procacci; e molte
ragioni a tal sospetto mio concorrono.
Scaltra di molte male arti maestra
sei tu: pel letto, che ti fu rapito,
del tuo consorte, sei crucciata; e sento
che tu minacci, a quanto pur mi dicono,
che un qualche mal tu vuoi fare alla sposa,
a chi la tolse, a chi la diede. Ed io,
pria di patirlo, mi schermisco. Meglio
venirti in odio, o donna, oggi, che debole
essere, e dopo amaramente piangerne.
Medèa:
Ahimè, ahimè!
Non or la prima volta, anzi sovente,
Creonte, a me nocque la fama, e molti
danni mi procurò. Mai non dovrebbe
nella scïenza un uom di retto senno
troppo scaltrire i figli suoi: ché, a parte
la fama ch'essi d'indolenza avranno,
dai cittadini loro ostile invidia
riscoteranno: ché se nuovi esprimi
fini concetti al vulgo, un perditempo,
e non un dotto sembrerai. Se poi
migliore sembrerai di quanti han fama
di saper vario, in uggia ai cittadini
verrai. Tale destino anch'io partecipo.
D'invidia a questi, d'acrimonia a quelli,
la mia scïenza è obbietto; eppure, è piccola
scïenza; e tu paventi adesso, ch'abbia
a patire da me qualche gran male.
Ma non temermi: ch'io non son, Creonte,
in tale stato che i sovrani insidii.
Tu, che torto m'hai fatto? A chi ti disse
l'animo, hai data la tua figlia. Il mio
sposo aborrisco, sí; ma d'uom di senno
la tua condotta fu; né se a te prosperi
volgon gli eventi, invidia io te ne porto.
Celebrate le nozze, e a voi sorrida
felicità. Ma vivere lasciatemi
in questa terra. Io cederò, sebbene
soverchiata, ai piú forti; e tacerò.
CREONTE:
Dici parole a udir blande; ma nutro
terror che in seno qualche insidia macchini.
Perciò, di te mi fido adesso meno
di prima. Vuoi da un uom, vuoi da una femmina
súbiti all'ira, puoi guardarti meglio
che da un muto rancore. Orsú, partite
al piú presto; e non far troppi discorsi.
Fu deciso cosí; né tale un'arte
possiedi tu, che rimanere possa
vicina a noi, quando ci sei nemica.
Medèa:
No, per le tue ginocchia, e per la sposa!
CREONTE:
Sperdi parole: non potrai convincermi.
Medèa:
Le preci mie non udirai? Mi scacci?
CREONTE:
Perché non t'amo piú della mia casa.
Medèa:
Quanto or m'assale il tuo ricordo, o patria!
CREONTE:
Anch'io su tutto, dopo i figli, l'amo.
Medèa:
Ahi, ahi, che gran malanno è amor per gli uomini!
CREONTE:
Sí, ma secondo il volger degli eventi.
Medèa:
Giove, chi causa fu del mal, tu scoprilo.
CREONTE:
O stolta, va', da queste pene affrancami.
Medèa:
Pene, io ne soffro; e aggiunte non mi servono.
CREONTE:
T'espelleranno presto, a forza, i famuli.
Medèa:
Non farlo, no, Creonte, te ne supplico.
CREONTE:
Noie vuoi darci, a quel che sembra, o donna.
Medèa:
Lascia che questo giorno almeno io resti,
e il pensier volga a preparare il modo
del nostro esilio, e per i figli miei
il viatico appresti, ora che il padre
di provvedere ai figli suoi non cura.
Abbi pietà di loro: anche tu sei
padre; e devi per loro esser benevolo.
Non mi curo di me, se in bando io vado;
ma la sventura che li coglie, lagrimo.
CREONTE:
Punto l'umore mio non è tirannico,
e spesso per pietà feci il mio male.
Ed or vedo che sbaglio, o donna; eppure
ciò che brami, otterrai; ma ti prevengo:
se la vampa del sol, dimani al sorgere
vedrà te coi tuoi figli in questa terra,
tu morrai: non sarà vana parola.
(Esce)

(segue)

 
 
 

MEDEA DI EURIPIDE (4/6)

Post n°79 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

CORO:
O donna infelice,
ahi, ahi, le tue doglie ti rendono
ben misera. Dove potrai
rivolgerti? In quale ospitale
o terra o magione,
rifugio dai mal' troverai?
In qual gorgo di mali, o Medèa,
invisibili, un Dio ti sospinse?
Medèa:
Il mal mi stringe da ogni parte: chi
potrà negarlo? Eppure, questo l'esito
non sarà degli eventi, oh, non crediatelo!
Nuovi cimenti i nuovi sposi attendono,
e non piccole angustie i loro suoceri.
Pensi tu che Creonte avrei blandito
senza vantaggio averne, o senza insidia?
Parlato non gli avrei, le sue ginocchia
non avrei strette. Ed egli è giunto a tale
stoltezza, che potea, da questa terra
scacciandomi, le mie trame deludere,
e invece consentí ch'io rimanessi
questo dí, ch'io tre miei nemici uccidere
voglio: il padre, la figlia, e il mio consorte.
E molti modi, o amiche, avrei d'ucciderli,
e non so bene a qual m'appigli prima:
se degli sposi arda la casa, o spinga
un ferro acuto a lor traverso il fegato,
entrando muta dov'è steso il talamo.
Ma un punto a me s'oppone: ove sorpresa
fossi mentre io varco la soglia, e tramo
l'arti mie, sarò morta, ai miei nemici
sarò di scherno oggetto. Oh, meglio assai
batter la via diritta, ov'io maestra
sono eccellente: coi veleni ucciderli.
Ahimè!
Ecco, son morti. E in qual città trovare
posso io rifugio? Quale ospite, offrendomi
terra d'asilo, e casa invïolabile,
la mia persona salverà? Nessuno.
Dunque, attendendo breve tempo ancora,
se per me qualche baluardo appaia,
perseguirò con frode e con silenzio
la loro strage; e, dove poi m'incalzino
senza uscita gli eventi, un ferro stretto,
a vïolenza aperta romperò,
li ucciderò, morir dovessi, io stessa.
Ché mai - lo giuro per la Dea che piú
di tutte l'altre venero, che all'opera
scelsi compagna, per Ecate, ch'abita
nei penetrali della casa mia -
niuno s'allegrerà che il cuor mio crucci.
Amare e luttuose io renderò
le nozze ad essi, amaro il parentado
e il bando mio da questa terra. Orsú,
non risparmiar delle tue trame alcuna,
Medèa, dell'arti tue: muovi all'orribile
punto: ché agone d'ardimento è questo.
Vedi il sopruso che patisci? Oggetto
di riso a nozze di Giasone, a nozze
di Sisifídi esser non devi tu,
che figlia sei d'un padre illustre, e vanti
avolo il Sole. Tu sei saggia. E poi,
donne nascemmo, al bene oprare inette,
ma d'ogni male insuperate artefici.
(Si trae da parte e rimane muta ed assorta)
CORO: Strofe prima
Ai fonti risalgono le sacre correnti dei fiumi:
con tutte le cose tramuta Giustizia.
Le menti degli uomini son piene di frode,
piú saldi non restano i giuri dei Numi:
la fama per essi tramutasi, e lode
partisce alla nostra progenie.
Onore avran le femmine: piú la donnesca vita
da trista fama non sarà colpita.

Antistrofe prima
Desister dai cantici vetusti dovranno le Muse,
che usavan cantare la nostra perfidia.
La lira ed il carme che ispiran gli Dei,
Apollo, dei suoni signor, non infuse
a noi nella mente: ché allor leverei
un inno alla stirpe degli uomini.
Il volgere dei secoli narrare agevol rende
nostre e d'uomini assai varie vicende.

Strofe seconda
Dalla casa paterna un naviglio
fra le gemine rupi del pelago
te, nel cuor delirante, rapiva.
Or sopra terra estranea
ti trovi, e sposo e talamo
hai perduto, e in esilio
vai bandita, meschina, e d'onor priva.

Antistrofe seconda
è vanito dei giuri l'ossequio,
e Pudor piú non regna ne l'Ellade,
ma per l'ètere a vol si perdé.
A te, non piú la reggia del padre offre ricovero:
t'occupa in casa una regina il talamo,
piú possente di te.
(Entra Giasone. Medèa si ricuote)
GIASONE:
Non or la prima volta, anzi sovente
vidi che mal senza rimedio sia
l'aspra ira. A te concesso era pur vivere
in questa terra, in questa casa, quando
tu di buon grado sopportato avessi
il valor dei piú forti; e adesso, a causa
di vane ciance, sei cacciata in bando.
E a me nulla ne importa; e non desistere
mai, tu, dal dire che Giasone è il piú
tristo fra tutti gli uomini. Ma quanto
a ciò che tu dicesti contro i principi,
stima fortuna grande esser punita
sol con l'esilio. Io mitigavo sempre
l'ire crucciose dei signori, e farti
rimanere volevo; e tu, deporre
la tua stoltezza non volevi, e sempre
dei principi sparlavi; e perciò sei
cacciata dalla terra. E tuttavia
io non manco agli amici; e sono qui
per provvedere alla tua sorte, o donna,
perché non vada coi tuoi figli in bando
senza sostanze, e nulla anzi ti manchi:
ché molti mali trae seco l'esilio.
Ché, pur se adesso tu m'aborri, a te
nemico non potrei volgere l'animo.
Medèa:
O tristo, o scellerato - altro non so
per la tua codardia maggiore oltraggio -
tu vieni a me, tu che odïoso piú
mi sei d'ogni altro? Ardire e forza d'animo
questa non è, fissare in viso i cari
tratti a rovina; è il piú funesto morbo
che fra gli uomini sia: spudoratezza.
Pure, a venir, bene facesti: ch'io
parlando, allevierò l'anima; e tu
ti roderai di tristo cruccio, udendomi.
E delle cose prima parlerò
che furon prima. Io ti salvai, lo sanno
gli Ellèni, quanti il legno d'Argo ascesero,
il dí che tu fosti inviato a Colco
perché col giogo dominassi i tauri
che spiravano fiamme, e seminassi
i mortiferi solchi. Il drago io spensi
che con l'intreccio delle fitte spire
stringendo il vello tutto d'oro, insonne
lo custodiva; e di salvezza il raggio
per te feci brillare. Ed io medesima,
tradito il padre mio, la casa mia,
a Iolco teco, sotto il Pèlio, venni,
innamorata piú che saggia, e morte
qual è piú dolorosa, a Pelia inflissi,
per man delle sue figlie, e t'affrancai
d'ogni timore. E tu, simili beni
da me riscossi, o il piú tristo degli uomini,
tradita m'hai, contratte hai nuove nozze,
pur figli avendo: ché, se privo tu
ne fossi stato, meritava scusa
desio di nuovo letto. Ora la fede
dei giuramenti è spersa; e non intendo
se tu creda che adesso piú non regnino
gli Dei d'allora, e che sancite siano
nuove leggi per gli uomini: ché tu
sei verso me spergiuro; e ben lo sai.
Ahi, destra mia, che tu spesso stringevi,
ginocchia mie, quanto fu van che un tristo
pur v'abbracciasse, o mia delusa speme!
Ma via, con te, quasi mi fossi amico,
favellerò - sebben, quale vantaggio
posso attender da te? pure, piú turpe
ti scopriran le mie dimande -: dove
rivolgermi potrò? Forse alla casa
del padre, che tradito ho, per seguirti
alla tua patria? O forse alle Pelíadi
misere? Oh, liete quelle accoglierebbero
chi le privò del padre! A questo io sono:
dei cari miei, della mia casa, fatta
nemica io sono; e quelli a cui far male
io non dovea, per compiacerti, infesti
contro me resi. E fortunata, in cambio
di tanto, tu m'hai resa adesso, agli occhi
di molte Ellène. Uno sposo ammirevole
ho in te, meschina, e degno ch'io lo veneri,
se dalla terra andar dovrò fuggiasca,
sola coi figli miei, priva d'amici!
Bel vanto, proprio, pel novello sposo,
ch'errin pitocchi i suoi figliuoli, ed io
che ti salvai! Deh, perché, Giove, un segno
certo agli uomini desti per distinguere
l'oro, quale sia falso, e niun sigillo
impresso invece è su le membra umane,
per chi debba un malvagio pur distinguere?
CORO:
è pur furia tremenda ed implacabile,
quando amici ed amici insiem contrastano.
GIASONE:
D'uopo è, sembra, che al dir fiacco io non sia,
ma, come scaltro guidator di nave,
gli estremi lembi delle vele schiusi
lasci soltanto, per salvarmi, o donna,
della tua ciancia dal doglioso morbo.
Or, poi che troppo i tuoi favori estolli,
Cípride sola io reputo, fra gli uomini
e fra i Numi, che sia la salvatrice
della naval mia gesta. Addurre prove
che solo Amor, coi dardi inevitabili
suoi ti astrinse a salvar la mia persona,
sottil sarebbe, ma odïoso; ed io
troppo non vo' su questo punto insistere.
Che mi salvassi, qual ne sia la causa,
male non fu; ma dalla mia salvezza
piú ricevesti che non desti; e adesso
te lo dimostrerò. Primo, ne l'Ellade
abiti adesso, e non in terra barbara;
e sai giustizia, e l'uso delle leggi,
e non l'arbitrio della forza; e tutti
gli Ellèni sanno che sei dotta, e sei
venuta in fama: se abitato agli ultimi
confini avessi della terra, niuno
fatto di te parola avrebbe. Ed oro
in casa avere non vorrei, né un canto
piú di quello d'Orfeo vago intonare,
se fama non dovessi averne in cambio.
Tanto delle mie gesta ho detto, quando
m'hai provocato a gara di parole.
Quanto alle nozze poi, che mi rimproveri
con la figlia del re, vo' dimostrarti
primo, che saggio fui, poi riflessivo,
poi grande amico ai miei figliuoli e a te.
Rimani calma. Poi che venni qui
dalla terra di Iolco, trascinandomi
dietro molte sciagure immedicabili,
quale potuto avrei sorte migliore
trovare, che sposar del re la figlia,
io fuggiasco? E non già per la ragione
onde ti struggi: perché tedio avessi
dell'amor tuo, perché di nuova sposa
fossi colpito dalla brama, né
di molti figli per desio: mi bastano
quelli che abbiamo, né di ciò mi lagno;
ma perché noi con ogni agio vivessimo,
senza penuria, ben sapendo ch'èvita,
se in lui s'imbatte, ognun l'amico povero;
per educare i figli in modo cònsono
al mio casato, e, generando ai figli
nati da te, fratelli, e quelli a questi
pareggiando, e la stirpe accomunandone,
fossi felice. E che bisogno hai tu
d'altri. figliuoli? A me convien coi figli
venturi avvantaggiar quelli che vivono.
Il mio consiglio errato fu? Neppure
tu lo diresti, se il rodío non fosse
del talamo: ché voi, femmine, a tanto
giungete: che vi sembra ogni fortuna
avere attinta, sin che salvo è il talamo;
ma se sventura a quello incoglie, cosa
non v'è, sia pur buonissima, bellissima,
che la piú infesta non vi sembri. Oh!, gli uomini
altronde generar figli dovrebbero,
donde che fosse, e non esister femmine.
Nessun malanno allora avrebber gli uomini.
CORO:
Giasone, adorno il tuo discorso fu;
ma, pur se debbo contraddirti, io penso
che nel tradir la sposa, ingiusto sei.
Medèa:
In molti punti, da molti degli uomini
io son diversa. Per me, quel ribaldo
che da natura ebbe facondia, merita
maggior castigo: l'ingiustizia rendere
bella ei presume con l'eloquio, e ardisce
ogni empietà. Ma povera saggezza
è infin la sua. Come ora tu. Garbato
non volere con me mostrarti, ed abile
favellatore: una parola sola
t'abbatterà. Se tu non fossi stato
un malvagio qual sei, sol dopo avermi
convinto, celebrar dovevi queste
nozze, non senza dir nulla ai tuoi cari.
GIASONE:
Bene, suppongo, secondato avresti
questo disegno, se svelato prima
l'avessi a te, quando neppure or sai
dal cuore tuo la grave ira sgombrare!
Medèa:
Non ciò ti tenne, ma le nozze barbare,
da vecchio poco onor fatto t'avrebbero.
GIASONE:
Sappilo bene: per amor di femmina
queste nozze regali io non ho strette,
ma pel tuo bene, come dissi già,
per procreare ai figli miei fratelli
re, che alla casa mia sostegno fossero.
Medèa:
Mai non divenga un uom turpe felice,
né mai beato chi mi strugge il cuore!
GIASONE:
Sai come i voti mutar devi, e puoi
saggia sembrare? Turpi non ti sembrino
le cose utili, mai; né pensar d'essere
misera, quando avventurata sei.
Medèa:
Oltraggiami: ché a te l'asil non manca,
ed io debbo partir soletta ed esule.
GIASONE:
Altri non incolpar: tu l'hai voluto.
Medèa:
Facendo che? Sposandoti e tradendoti?
GIASONE:
Empie lanciando imprecazioni ai principi.
Medèa:
La mia presenza anche ai tuoi Lari impreca.
GIASONE:
Basta: ch'io non vo' teco oltre contendere.
Se per l'esilio dei fanciulli e tuo
vuoi dalle mie sostanze alcun viatico,
dillo: con larga mano io pronto sono
ad offrirlo, a inviar tessere agli ospiti
miei, che benigni t'accorranno. Stolta,
se rifiutassi, tu saresti: avrai
maggior vantaggio, se deponi l'ira.
Medèa:
Trarre profitto io non potrei dagli ospiti
tuoi, né gradire checchessia di tuo,
e tu non offerirmelo: ché i doni
dei tristi, mai vantaggio non arrecano.
GIASONE:
Eppure, i Numi testimoni invoco
che sovvenire in tutto i figli e te
io bramerei. Ma il bene a te non piace;
e, per superbia, da te lungi scacci
gli amici: onde ancor piú dovrai crucciarti.
Medèa:
Va' via: ché brama della nuova sposa
t'invade, mentre dalla reggia fuori
qui ti trattieni. Celebra le nozze.
Pure, se vuole un Dio, saranno tali
nozze, che tu vorresti ben disdirle.
CORO: Strofe prima
Gli amori che trasmodano
per troppa furia, agli uomini
non consiglian virtú, non dànno fama.
Se con misura invece appressa Cípride,
Diva non v'è che lei pareggi in grazia.
Signora, e mai non sia che tu dall'aureo
arco vibri su me l'inevitabile
freccia intrisa di brama.

Antistrofe prima
Me tuteli, dei Superi
guiderdone bellissimo,
Saggezza; e mai, né garruli contrasti,
né risse insazïate, a me nell'animo
pel desiderio d'altrui letto susciti
la terribil Ciprigna. Io le pacifiche
nozze venero, eleggo delle femmine
sagge i talami casti.

Strofe seconda
O casa mia, mia patria,
deh, ch'io non resti priva
di mia città, fra i lacci inestricabili
di miseria io non viva!
Morte mi colga; morte, pria di giungere
a simil giorno! Vivere
dalla terra natale
esule, è mal che supera ogni male.

Antistrofe seconda
Ho visto, e non già memore
parlo d'altrui parola,
che niun amico i tuoi tormenti orribili,
niun cittadin consola.
Muoia l'ingrato che all'amico schiudere
nega del cuore gl'intimi
serrami, e non gli fa
onore: amico mio mai non sarà.
(Arriva Egèo vestito da viaggiatore)
Egèo:
Salve, Medèa! Ché a salutar gli amici
miglior proemio nessun mai trovò.
Medèa:
Anche a te salve, Egèo, figlio del saggio
Pandíone: a questo suol di dove giungi?
Egèo:
Di Febo or or lasciai l'antico oracolo.
Medèa:
Della terra isti all'umbilico? A che?
Egèo:
A chieder come seme avrò di figli.
Medèa:
Dunque, sin qui, di figli orbo vivesti?
Egèo:
Volle ch'io figli non avessi, un Dèmone.
Medèa:
Ed hai la sposa? O privo sei del talamo?
Egèo:
Del letto nuzïal conosco il giogo.
Medèa:
E che responso diede Febo a te?
Egèo:
Tal, che non basta umana mente a intenderlo.
Medèa:
E ch'io tale responso apprenda, è lecito?
Egèo:
Lecitissimo; e vuol mente sottile.
Medèa:
Dunque, se posso udir, parla. Che disse?
Egèo:
Ch'io dell'otre non sciolga il pie' sporgente...
Medèa:
Pria di far che, prima di giunger dove?
Egèo:
Prima che al patrio focolar non torni...
Medèa:
E allora, a questo suol perché tu navighi?
Egèo:
Un Pitèo v'è, signore di Trezene...
Medèa:
Figlio, dicon, piissimo di Pèlope.
Egèo:
A costui, vo' comunicar l'oracolo.
Medèa:
Saggio è quell'uomo, e di quest'arte pratico.
Egèo:
E tra i compagni d'arme a me carissimo.
Medèa:
Sii tu felice, e ciò che brami ottenga.
Egèo:
Perché l'occhio ed il viso hai sí distrutti?
Medèa:
Giason, mio sposo, è degli sposi il pessimo!
Egèo:
Che dici? Chiaro il tuo cordoglio spiegami.
Medèa:
Torto Giason mi fa', né pur l'offesi.
Egèo:
E quale torto? A me piú chiaro spiegalo.
Medèa:
Sposò, ché in casa dominasse, un'altra.
Egèo:
Compier poté quest'opera turpissima?
Medèa:
Certo: e spregiata, io prima cara, or sono.
Egèo:
Per nuovo amore? O il tuo talamo aborre?
Medèa:
Per grande amore; e ruppe fede ai suoi.
Egèo:
Gli avvenga mal, se tristo è quanto dici.
Medèa:
In cambio lor, nozze regali elesse.
Egèo:
Chi glie l'offerse? Il tuo discorso compi.
Medèa:
Creonte, re di questo suol corinzio.
Egèo:
Meriti scusa, se t'affliggi, o donna.
Medèa:
Son morta; e dalla terra anche mi scacciano.
Egèo:
Chi ti discaccia? Un nuovo mal m'annunzi.
Medèa:
Da Corinto m'esilia il re Creonte.
Egèo:
E Giasone acconsente? Oh, non lo lodo!
Medèa:
Non a parole: ma lo brama, e finge
di tollerarlo. Ora io, per il tuo mento,
per le ginocchia tue ti prego, e supplice
dinanzi a te mi prostro: abbi pietà,
abbi pietà di me misera, sola
cosí non mi lasciar, cosí raminga,
ma nel paese e nella casa tua,
all'ara presso accoglimi: cosí
appagata ti sia, mercè dei Numi,
la tua brama di figli. Oh, tu non sai
quale fortuna in me trovi: io farò
che tu generi figli, e non ne sia
piú privo: tal potere hanno i miei farmachi.
Egèo:
Per piú ragioni son pronto a concederti,
donna, questo favor. Prima, pei Numi;
poi, per i figli miei, di cui la nascita
m'annunzi tu: ché vòlto a questo è tutto
l'animo mio. Son questi i miei propositi.
E se tu giunga alla mia patria, o donna,
quivi ospitarti, come vuol giustizia,
io curerò. Ma da te muovi il passo
lungi da questa terra: ch'io desidero
scevro da colpe rimaner per gli ospiti.
Medèa:
E sia: di te solo a lodarmi avrei,
quando avessi di ciò fida promessa.
Egèo:
In me non hai tu fede? O che sospetti?
Medèa:
Ho fede in te; ma la casa di Pèlia
m'è nemica, e Creonte. Or, se volessero
strapparmi dalla tua lerra, permettere
non lo vorresti, se tu fossi stretto
da giuramenti; ma pel solo vincolo
delle parole, senza giuri, amico
potresti essermi forse, e al bando loro
non dare ascolto? Debole sono io:
essi han dovizie, essi han case regali.
Egèo:
Gran previdenza mostrano le tue
parole, o donna; e non rifiuto, quando
tu cosí brami. Piú sicuro io sono
quando ragioni ai tuoi nemici opporre
posso; e tu stessa, piú sarai sicura.
I Numi dimmi, nel cui nome io giuri.
Medèa:
Della Terra pel suol, pel Sole, padre
del padre mio, pei Numi tutti giura.
Egèo:
Di far che cosa, o di non fare? Parla
Medèa:
Di non cacciarmi dalla terra tua
tu stesso, mai; né, quando altri volesse,
qualcun dei miei nemici, indi strapparmi,
di buon grado, finché vivi, concederlo.
Egèo:
Per la Terra lo giuro, e per la fulgida
luce del Sole, e per i Numi tutti,
che ciò che tu mi chiedi io manterrò.
Medèa:
Basta. E che pena a te, se manchi, impetri?
Egèo:
Quella che suole cadere sugli empii.
Medèa:
Lieto prosegui il tuo cammino: tutto
ora va bene; ed alla tua città
ben presto io giungerò, quando compiuto
sia ciò che imprendo, e paga la mia brama.
(Egèo parte)
CORO:
Di Maia il figlio, signor che l'anime
guida, ai tuoi tetti
t'adduca, e tutto giunga a buon esito
ciò che tu brami, per cui t'affretti:
ché un generoso mi sembri, Egèo.
Medèa:
Giove, e di Giove tu figlia, Giustizia,
e tu, raggio del Sole, alta vittoria
or dei nemici nostri, amiche, avremo,
e siam già su la via: speranza nutro
or che i nemici miei la pena scontino,
poi che quest'uom, dal lato ove il periglio
era maggiore, come un porto apparve
dei miei divisamenti. Indi la gomena
da poppa legherò, come io di Pàllade
giunga alla rocca, alla città. Sin d'ora
tutti vi voglio esporre i miei propositi,
né voi crediate che per gioco io parli.
Dei miei famigli alcuno invierò
a Giasone, e ch'ei venga chiederò
al mio cospetto; e, come ei giunga, blande
parole gli dirò: ch'io son convinta,
che mi par giusto quanto accade; e i figli
miei chiederò che restino. Non già
che abbandonarli io voglia in terra estranea;
ma con la frode voglio morte infliggere
alla figlia del re. Li manderò,
che a lei rechino doni: un peplo fine
e, foggiato nell'oro, un serto; e, ov'essa
ne abbellisca le sue membra, morrà
d'orrenda morte, e chicchessia la tocchi:
di tal farmaco i doni intriderò.
Ma tronco qui le mie parole, e gemo
per l'opera che poi compier dovrò:
ché morte ai figli miei darò: nessuno
v'è che salvarli possa. E, poi che tutta
di Giasone sconvolta avrò la casa,
e compiuto lo scempio nefandissimo,
partirò da Corinto, e dei figliuoli
la strage fuggirò: ché dai nemici
esser derisa, amiche, io non lo tollero.
Su via, la vita a lor che giova? Io patria
non ho, né casa, né rifugio ai mali.
Bene errai, quando le paterne case
abbandonai, credendo alle parole
d'un ellèno che il fio mi pagherà,
con l'aiuto d'un Dio: ché i fig1i nati
da me, piú vivi non vedrà, né prole
dalla sua nuova sposa avrà: ché deve
per i tossici miei morir la trista,
di trista morte. Me dappoco e fiacca
non creda, o rassegnata: anzi, al contrario,
per gli amici benigna, e pei nemici
funesta: a gloria cosí giungon gli uomini.
CORO:
Poiché tale discorso a noi partecipi,
per brama di giovarti, e per difendere
le leggi, da tal opra io ti sconsiglio.
Medèa:
Essere altro non può; ma scusa meriti
se cosí dici: ché il mio mal non soffri.
CORO:
Oserai, donna, i tuoi figliuoli uccidere?
Medèa:
Nulla il mio sposo piú morder potrebbe.
CORO:
Né sarebbe di te donna piú misera.
Medèa:
Su via, ché son superflue parole
quante indugiare fan l'opera. Su,
muovi, e chiama Giason: ché dove occorre
fiducia, ivi io t'adopero; e dei miei
disegni, nulla tu svelar, se pure
ami i signori, se pur donna sei.

(segue)

 
 
 

MEDEA DI EURIPIDE (5/6)

Post n°80 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

CORO: Strofe prima
Erettídi, dagli evi remoti
felici, progenie di Numi
beati, cresciuti dal suolo
inespugnabile, sacro,
che ognor vi nutrite d'eletta
saggezza, e movete con morbido incesso
per l'ètere tutto fulgore,
dove una volta, si narra, le nove
Muse Armonia generò.

Antistrofe prima
Anche narran che Cípride attinse
dai flutti del puro Cefíso,
ed aure di venti spirò
sopra la terra, con tempra
soave, e le chiome velando
con fiori, con serti di rose fragranti,
mandò, ché a saggezza vicini
seggan, gli Amori, che sempre partecipi
siano dell'opere tutte.

Strofe seconda
E come sui sacri suoi rivi,
Atène potrà, come accoglierti
potranno gli amici, quando empia
sarai fra le genti, i tuoi parvoli
di vita per te saran privi?
Pensa a che strage t'appigli!
No, per le tue ginocchia,
ti prego, t'invoco, ti supplico,
no, non uccidere i figli!

Antistrofe seconda
E dove di mano dominio
attinger potrai, dove d'animo,
che avventi la strage terribile
al cuor dei tuoi pargoli? L'occhio
volgendo su lor, l'esterminio
compier potrai senza lagrime?
Quando con supplici grida
dinanzi essi ti cadano,
tu non potrai con saldo animo
tinger la mano omicida.
(Arriva Giasone)
GIASONE:
M'hai chiamato, e son qui: sebben nemica
mi sei, rifiuto non opposi; e udrò
ciò che di nuovo, o donna, da me vuoi.
Medèa:
Io ti chiedo, Giason, che tu perdono
di ciò ch'io dissi mi conceda. è giusto
che tu condoni il mio furore, quando
molte dolcezze insieme avemmo. Ora, io
fra me e me considerando venni,
e rampogne mi volsi: «O temeraria,
ché furïando io vado, ed osteggiando
quelli che bene avvisano, ed infesta
contro i signori della terra insorgo,
e contro il mio signor, che quello fa
che a noi piú giova, quando una regina
sposa, ed ai figli miei fratelli genera?
Non deporrò quest'ira mia? Che faccio,
quando gli Dei mi danno il bene? Figli
forse non ho? Non so che siam banditi
dalla Tessaglia, e siam privi d'amici?»
A ciò pensando, vidi bene ch'ero
mal consigliata, e m'adiravo a torto.
Dunque, or t'approvo, e mi sembra che tu
sia l'assennato, quando a noi procuri
simile parentado, ed io la stolta,
che di tali disegni esser partecipe
avrei dovuto, e favorirli, e assistere
alle tue nozze, ed alla sposa tua
le mie cure prestare, e andarne lieta.
Ma siamo ciò che siam: non dico danno,
dico donne; e per te non conveniva
che ti rendessi pari a sciocche simili,
contrapponendo stoltezza a stoltezza.
Ma ora cedo, e riconosco ch'io
prima sbagliavo, ed a miglior partito
m'appiglio adesso. O figli, o figli, qui,
la casa abbandonate, uscite fuori,
il padre vostro salutate, ch'egli
è qui con voi, volgetegli parole,
e desistete, come fa la madre,
dall'odïar gli amici, or che fra noi
fatta è la pace, e in oblio posta l'ira.
(Dalla casa escono i figli)
La destra a lui stringete. - Ahi, le sciagure
nascoste, come nella mente ho impresse! -
O figli miei, sempre cosí le braccia
tenderete, se pur vivrete a lungo?
Misera me, come son pronta al pianto,
e piena di terror! Ma, poiché, dopo
tanto, troncai la lite mia col padre,
il molle viso mio pieno è di lagrime.
CORO:
Ed anche a me giú dalle ciglia erompono
lagrime impetuose. Oh, non proceda,
piú grave d'ora non divenga il male.
GIASONE:
Ciò ch'ora dici, o donna, io lodo; e ciò
che pria dicevi, non biasimo. Quando
lo sposo fa di nuove nozze acquisto,
diritto è ben che la femminea stirpe
di sdegno avvampi. Ma il tuo cuore è volto
adesso al meglio, ed il migliore avviso
hai conosciuto, sebben tardi: è questo
tratto di donna saggia. O figli, il padre
per voi non prese a cuor leggero tale
provvedimento; i Numi lo assisterono:
ché primi spero di vedervi in questa
corinzia terra, coi germani vostri.
Or voi crescete. Il padre, e qual benevolo
è a voi dei Numi, il resto compierà.
Deh, vedervi possa io, di chi ben v'educhi
sotto la guida, al fior di giovinezza,
dei miei nemici trionfando, giungere.
Perché gli occhi, Medèa, d'ardenti lagrime
bagni, e smorta la guancia altrove giri,
e senza gioia ciò ch'io dico ascolti?
Medèa:
Per nulla: a questi figli miei pensavo.
GIASONE:
Per i tuoi figli piangi? E perché, misera?
Medèa:
Li ho partoriti; e al tuo voto che vivano,
ansia mi colse, se ciò mai sarà.
GIASONE:
Fa' cuor: ch'io bene a ciò provvederò.
Medèa:
Farò cuore: non vo' fede negarti;
ma debole è la donna; e nacque a piangere.
Ma delle cose onde venisti a udirmi,
parte fu detta: il resto or ti dirò.
Poi che bandirmi vogliono i signori
da questa terra - ed è, lo riconosco,
meglio per me, non rimanere ai principi
e a te d'impaccio, ché nemica io sembro
di questa casa - e sia, fuggiasca andrò
da questo suol; ma che fuggir non debbano
i figli miei, che qui cresciuti siano
dalle tue mani, da Creonte impètrami.
GIASONE:
Ignoro se potrò; ma vo' tentare.
Medèa:
Prega la sposa che suo padre implori
perché non vadano esuli i miei figli.
GIASONE:
Lo farò certo; e spero ben convincerla,
sebbene è donna, all'altre donne simili.
Medèa:
Di tal prova io sarò teco partecipe:
i miei figliuoli invierò, che rechino
a lei presenti, quali piú fra gli uomini
sono pregiati, un sottil peplo, e un serto
lavorato nell'oro. Or, quanto prima,
convien che alcuna delle ancelle questo
adornamento rechi. E non per mia
cagion la sposa, anzi per mille e mille
sarà beata: ché compagno al talamo
il migliore degli uomini ebbe in te,
ed un monile avrà, che un giorno il Sole,
padre del padre mio, diede ai suoi figli.
Questi doni prendete, e del signore
alla sposa beata, o figli, offriteli.
Non saranno per lei doni da poco.
GIASONE:
Perché vuotare le tue mani, o stolta?
Credi tu che penuria abbia di pepli,
penuria d'oro, la casa del re?
Conservali, non far doni: ché, se
trova alcun pregio in me la sposa mia,
vorrà, son certo, preferirmi ai doni.
Medèa:
Non dirmi questo. I doni persuadono
- è comun detto - anche i Celesti. L'oro
può fra i mortali ciò che non potrebbero
mille e mille discorsi. Adesso, prospera
volge la sorte a lei, la sua fortuna
un Nume accresce, ora è nuova regina.
E non solo con l'oro, anzi con l'anima
riscatterei dei figli miei l'esilio.
Su, dunque, figli, della nuova sposa
del padre vostro, della mia signora
alla reggia opulenta ora movete,
pregatela, imploratela, che in bando
ir non dobbiate, porgetele i doni,
ché questo importa piú di tutto: ch'ella
di propria mano i doni accolga. Andate
presto, compiete ben l'opera; e nunzi
di ciò ch'ella desia, siate alla madre.
CORO: Strofe prima
Piú non ho speme che vivano i pargoli,
non piú: ché già verso la morte muovono.
Riceverà, riceverà la misera
sposa, dono fatal, l'auree bende.
Già per cingere il funebre
ornamento alla sua bionda cesarie,
la mano ella protende.

Antistrofe prima
Essa vaghezza certo avrà di cingere
gli ambrosii raggi che dai pepli fulgono
e dall'aurea corona; e già per gl'Inferi
si fa bella: in tal rete ella cadrà,
in tale fato, o misera,
esizïale: ché sfuggire all'ultima
rovina non potrà.

Strofe seconda
E tu, tristo sposo, di principi perfido genero,
ignaro, conduci a sterminio
la vita dei figli, ed orribile
alla sposa prepari una morte.
O misero, male prevedi la sorte!

Antistrofe seconda
Ed ora te, madre infelice, compiango, che ai pargoli
la morte darai. Ne fu causa
il letto di nozze: ché l'empio
tuo sposo, che t'ebbe tradita,
ora ha con un'altra comune la vita.
(Entra l'aio coi due bambini)
AIO:
Sono dal bando liberi, o signora,
questi fanciulli: di sua mano accolse
la regia sposa i doni, e si compiacque.
Pace, da questa parte, hanno i tuoi figli.
Medèa:
Ahimè!
AIO:
La ventura t'arride, e sei sconvolta?
Medèa:
Ahimè!
AIO:
Con le mie nuove il tuo lagno discorda.
Medèa:
Anche una volta, ahimè!
AIO:
Qualche sciagura,
senza saperlo, t'annunciai? Fu falsa
l'idea che un buon messaggio io ti recassi?
Medèa:
Fu quel che fu, l'annuncio: io non lo biasimo.
AIO:
Ché dunque il volto abbassi, e versi lagrime?
Medèa:
Non mi posso frenar, vecchio: tal danno
i Numi, ed a me stessa io stessa macchino.
AIO:
Fa' cuor: qui tornerai, grazie ai tuoi figli.
Medèa:
Ma saprò far che prima altri ne partano.
AIO:
Non sei la sola tu, che separarsi
debba dai figli: chi mortale nacque,
in pace sopportar deve gli affanni.
Medèa:
Cosí farò. Tu entra, e ai figli appresta
quanto per oggi ad essi occorre. O figli,
o figli, a voi non manca né città
né casa, dove, della madre orbati,
abiterete eternamente; ed io
andrò fuggiasca ad altra terra, prima
ch'abbia di voi gioito, abbia la vostra
felicità veduta, ad una sposa
v'abbia congiunti, e il talamo di nozze
adornato, e levate alte le fiaccole.
Ahi, tristo frutto dell'orgoglio mio!
Invano, o figli, v'ho nutriti, invano
in fatiche mi strussi, e m'affannai,
doglie crudeli soffrendo nei parti.
Misera! E un dí tanto sperai che voi
curata avreste la vecchiezza mia,
che con le vostre man' curato avreste
il mio corpo defunto, ch'è tra gli uomini
invidïato ufficio. Adesso, è spenta
la soave speranza; e, di voi priva,
trista sarà per me, sarà dogliosa
tutta la vita. E gli occhi vostri piú
la madre, o figli, non vedranno: ad altra
forma di vita passerete. Ahi, ahi!
Le pupille su me perché levate?
Perché ridete il vostro ultimo riso?
Ahi, che farò? Mi manca il cuore, o donne,
se fisso gli occhi dei miei figli fulgidi.
No, ch'io mai non potrò! Vadano spersi
tutti i disegni di poc'anzi: i figli
miei, condurrò lontan da questa terra.
Per dare cruccio al padre lor, dovrei
procacciare a me stessa un danno duplice?
No, certo: spersi i miei disegni vadano.
Eppure, no: che faccio? I miei nemici
impuniti lasciar devo, ed oggetto
essere a lor di riso? Ardire occorre.
Oh mia viltà, che profferisce detti
degni d'un cuore imbelle. Entrate in casa,
o figli miei. Se assistere al mio scempio
sembra iniquo a talun, quei non v'assista:
non perciò fiacca la mia man sarà.
Ahimè!
No, no, cuor mio, non compiere lo scempio!
Lasciali, o trista, i figli non uccidere.
Forse laggiú, con me vivendo, gioia
darmi potranno? Oh, per le Furie inferne
d'Averno, non sarà che i figli lasci
dei nemici all'oltraggio. Inevitabile
destino è questo, e sfuggirgli non posso.
Già cinta al capo ha la ghirlanda, già
chiusa nel peplo, ben lo so, la sposa
regal perisce. E, poi ch'io per miserrimo
tramite i pie' volgere devo, i figli
salutar bramo. O figli miei, porgete
la vostra mano, alla madre porgetela,
in tenero commiato. O dilettissima
mano, o sembiante, o capo dilettissimo
dei figli, o nobil volto, a voi sorrida
fortuna; ma laggiú: ché tutto il padre
quassú v'ha tolto. O abbracci soavissimi,
morbida cute, ed alito soave
dei figli! Andate, andate! Io non ho forza
di piú guardarvi, e son vinta dai mali.
Intendo ben che scempio son per compiere;
ma piú che il senno può la passione,
che di gran mali pei mortali è causa.
CORO:
M'addentrai fra sottili argomenti
bene spesso, fra dispute gravi,
piú di quanto convien che ne cerchi
donnesca progenie.
Ché abbiamo una Musa anche noi,
che vive con noi, che c'ispira
saggezza. Non tutte; ma pure
talune (forse una fra molte
trovarne potresti)
non sono di senno inesperte.
Ora, affermo, che quanti degli uomini
son di pargoli ignari, né mai
procrearono figli, son molto
piú felici di quelli che n'ebbero.
Quei che prole non ebbero, e ignorano
se cosa dogliosa o soave
sian per gli uomini i pargoli, quando
non n'ebbero, vivono scevri
di molte sciagure.
Quelli invece che dolci germogli
in casa han di figli,
li vedo che giorno per giorno
nei pensieri si struggono. Primo,
di bene allevarli; poi, d'onde
lasceranno sostanza ai figliuoli.
Oltre a ciò, se per buoni o per tristi
si spendan le loro fatiche,
nessuno lo sa.
E un male soggiungo, l'estremo
fra tutti, per gli uomini tutti.
Trovarono agevole copia
di vita, sia pure, pervennero
le membra dei figli a fiorente
gioventú, buoni crebbero. Ma,
se tale è il destino,
la Morte, lontano, nell'Ade
i corpi dei figli trascina.
A che giova dunque, che i Superi
sopra l'altre sciagure, ai mortali
addossino questa
dei figli, acerbissima?
(Giunge, esterrefatto, un messo)

(segue)

 
 
 

MEDEA DI EURIPIDE (6/6)

Post n°81 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

Medèa:
Da un bel tratto gli eventi, amiche, attendo,
l'esito spio, qual ne sarà. Ma vedo
un dei famigli di Giasone giungere:
l'affannoso respir, ben mostra ch'egli
qualche nuova sciagura annunzierà.
NUNZIO:
O tu rea d'un iniquo orrido scempio,
fuggi, fuggi, Medèa: né carro nautico
né terrestre da te non sia negletto.
Medèa:
Per quale causa tanto urge ch'io fugga?
NUNZIO:
Fu spenta or or la giovine regina,
pei tuoi veleni, e il padre suo Creonte.
Medèa:
Dolcissime parole! E d'ora innanzi
benefattore e amico io ti considero.
NUNZIO:
Che dici? In te sei, donna, non sei folle?
Odi che il focolar dei nostri re
è distrutto, e t'allegri, e non sgomenti?
Medèa:
Bene io saprei parole onde ribattere
le tue; ma narra senza fretta, amico,
la loro morte: se fu crudelissima
morte, due volte lieta mi farai.
NUNZIO:
Poiché dei figli tuoi la coppia giunse
insiem col padre, e nella stanza entrò
della regina, ci allegrammo noi
servi, che pel tuo mal tristi eravamo;
e fu per il palagio un gran discorrere,
che con lo sposo tu composta avevi
l'antica lite. E chi la mano, e chi
il biondo capo dei fanciulli bacia.
E, pel piacere, anch'io, dietro ai fanciulli,
sino alle stanze delle donne entrai.
E la signora che onoriamo adesso
in vece tua, pria di veder la coppia
dei figli tuoi, lo sguardo affettuoso
a Giasone volgea. Ma, come entrarono,
velo si fece agli occhi, e volse altrove
la bianca guancia: ché n'avea disgusto.
Ed il tuo sposo, a mitigar lo sdegno
della fanciulla, sí parlò: «Non essere
nemica ai fig1i miei, placa lo sdegno,
qui volgi il capo, ed abbi cari quelli
che son cari al tuo sposo, e i doni accetta,
e implora il padre tuo che dall'esilio,
per grazia mia, questi fanciulli affranchi».
Ed ella, come e veste e vezzo vide,
non resisté, ma die' consenso a quanto
chiedea lo sposo. E, pria che dalla reggia
fossero lungi padre e figli, il peplo
varïopinto prese, e lo indossò,
e sopra i ricci la corona d'oro
posta, la chioma s'acconciò davanti
ad un lucido specchio; ed alla propria
inanimata immagine sorrise.
Poscia, dal trono surse, e traversò,
sul bianchissimo pie' molle incedendo,
la stanza; e tutto gaudio era pei doni;
e spesso e a lungo si mirò, levandosi
sugli apici dei pie', sino al tallone.
Ciò che poscia seguí, per chi lo vide,
fu spettacolo orrendo. Essa mutò
d'improvviso colore; e, tremebonda
per ogni membro, e indietreggiando obliqua,
sopra un seggio a cader pervenne, appena
che non piombasse a terra. E delle ancelle
una piú annosa immaginò che invasa
di Pan le furie o di qualche altro Dèmone
l'avessero; e gridò, sinché non vide
candida spuma dalla bocca scorrere,
e lei stravolger le pupille, e il sangue
dalla pelle sparito; e un urlo alzò,
ben differente, di cordoglio. E súbito
alla reggia del padre una volò,
un'altra al nuovo sposo, e la sventura
narrâr della fanciulla; e d'un accorrere
fitto, sonora fu tutta la casa.
E tanto tempo era già corso, in quanto
un veloce pedon, doppiando il braccio
d'una lizza di sei plettri, tornato
al termine sarebbe; e la tapina
dal muto e cieco stato si destò,
grida levando orribili: ché duplice
spasimo aveva le sue fibre invase:
dal serto d'oro al capo attorno cinto,
d'arcano fuoco un rivolo sprizzava
divoratore; ed il fin peplo, dono
dei figli tuoi, le carni divorava
dell'infelice. E, balzando dal trono,
s'avventa, in fiamme, squassando qua e là
e chioma e capo, per gittare il serto.
Ma dell'oro ben salda era la presa;
e il foco, quanto piú scotea la chioma,
tanto piú sfolgorava. E a terra cadde,
dallo spasimo affranta; e riconoscerla,
niun, tranne il padre suo, potuto avrebbe:
ché ben distinta la forma degli occhi
non era piú, né ben formato il viso;
e sangue giú dal vertice de capo,
misto a sangue, stillava, e, lungo l'ossa,
le carni, pari a lagrime di pino,
scorrevano. Guardarla, era un orrore;
e la salma toccar, tutti temevano:
ch'era stato l'evento a noi maestro.
Ma della sorte ignaro, il padre misero,
nella stanza improvviso irruppe; e súbito
leva un ululo, e piomba sul cadavere,
la salma abbraccia, la bacia, le volge
la parola cosí: «Figlia infelice,
quale dei Numi a cosí sconcia fine
t'addusse? Orbo di te, chi questo vecchio,
presso alla tomba rese? Ahimè, con te,
figlia mia, fossi morto!». E quando poi
dalle querele desisté, dai gemiti,
il vecchio volle sollevarsi; e stretto
ai fini pepli si sentí, com'ellera
a cespiti d'alloro. E cominciò
un'orribile lotta: egli il ginocchio
sollevare volea; ma lo stringeva
a sé la salma; e se traeva a forza,
la vecchia carne dall'ossa strappava.
Si spense infine, l'anima esalò,
ché piú non resse alla crudel tortura.
Or, la figliuola e il vecchio padre giacciono
spenti vicini, dolce esca alle lagrime.
Dei casi tuoi, parola dir non voglio:
il mal, su chi lo fa, lo sai, ricade.
Le cose umane, poi, non è la prima
volta ch'ombre le stimo, e non mi pèrito
d'affermare che quei che saggi e acuti
di parole maestri esser presumono,
affetti da follia son piú degli altri:
ché felice non è verun degli uomini.
Piú fortunato, quando abbia benessere,
può l'uno esser dell'altro; e niun felice.
(Parte)
CORO:
Sembra che molti in questo giorno il Dèmone
gravi malanni su Giasone avventi.
Ma quanto, o figlia di Creonte, o misera,
la tua sciagura compiangiam; ché scendi,
grazie alle nozze con Giason, nell'Ade!
Medèa:
Amiche, è fermo il mio disegno: i figli,
prima ch'io possa, uccidere, e lontano
fuggir da questa terra, e non concedere
che per l'indugio mio muoiano i figli
di piú nemica mano. è ch'essi muoiano
ferma necessità. Poiché bisogna,
io che li generai li ucciderò.
Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? è vile
non far ciò che bisogna, anche se orriblle.
Su, sciagurata mano mia, la spada,
stringi la spada, e muovi a questo truce
termin di vita, non esser codarda,
né dei fig1i pensar che d'ogni cosa
ti son piú cari, e che li desti a luce.
Questo sol giorno i figli tuoi dimentica,
e poscia piangi. Anche se tu li uccidi,
cari sono essi, e sciagurata io sono.
(Entra nella reggia)
CORO: Strofe prima
O Terra, o fulgidissimo
raggio del Sole, a questo suol volgetevi,
mirate questa sciagurata femmina,
prima che avventi l'impeto
della morte sanguinea
sui figli suoi. Dell'aurea progenie
tua son germoglio; ed uom che versi l'ícore
d'un Dio, dei Numi la vendetta pròvoca.
Ma tu reggila, frenala,
raggio divin: tu scaccia dalla casa
la sanguinaria Erinni, cui lo spirito
della vendetta invasa.

Antistrofe prima
Invano, dunque, i pargoli
generasti alla luce: spersi ed írriti
i travagli materni andaron, misera,
che l'inospite tramite
delle azzurre Simplègadi
abbandonasti. Or, che t'invade l'animo
cura sí grave? A che, furia d'eccidio
segue a furia d'eccidio? Il consanguineo
contagio infesto agli uomini,
pena al misfatto ugual sovressi i rei
desta, che su le lor case precipita,
per voler degli Dei.
(Dal di dentro si odono i disperati urli dei bambini)
CORO: Strofe seconda
Odi dei figli la querula voce?
Ahi, temeraria, ahimè, donna feroce!
FIGLIO A:
Ahi, dove sfuggo alla materna mano?
FIGLIO B:
Non so: perduti siamo, o mio germano.
CORO:
Bisogna i figli salvare da morte!
Varchiamo le porte!
FIGLIO A:
è questo il punto. Accorrete, accorrete!
FIGLIO B:
Già già del ferro ci avvince la rete!
CORO:
Ahi, scellerata, di ferro, di roccia
sei, che i tuoi figli, i tuoi stessi germogli,
con la tua mano di vita li togli?

Antistrofe seconda
Sola una donna dei tempi lontani
so, che sui figli avventasse le mani:
Ino, dai Numi resa folle, quando
dalla casa Era via la spinse in bando.
E giú nel mare, poi ch'ebbe trafitta
la prole, si gitta:
i suoi piedi spingeva oltre la riva,
e lei la morte e i due figli ghermiva.
Quali altri orrori seguire potrebbero?
O delle femmine nozze funeste,
quanti ai mortali già lutti adduceste!
(Giunge Giasone, in corsa affannosa)
GIASONE:
Donne che presso a questa casa state,
forse dentro è Medèa, che perpetrò
orridi scempî, e volse a fuga il piede?
Conviene che sotterra ella si asconda,
o che dell'ètra per gli abissi il corpo
innalzi a volo; o il fio pagar dei principi
alla reggia dovrà. Confida forse,
quando ella uccise della terra i principi
impunita fuggir da queste mura?
Ma non di lei mi dò pensiero, quanto
dei figli miei: ché a lei, chi male n'ebbe,
male darà; ma dei miei figli vengo
la vita a tutelar: ché l'empia strage
della lor madre a vendicar sovr'essi
dei signori i parenti non risolvano.
CORO:
Fra che mali ti trovi ignori, o misero
Giasone; o tu cosí non parleresti.
GIASONE:
Che avvenne? Anche me, forse, uccider vuole?
CORO:
Spenti fûr dalla madre i figli tuoi!
GIASONE:
Ahimè, che dici! Tu m'uccidi, o donna!
CORO:
Sappi che i fig1i tuoi piú non son vivi!
GIASONE:
Dove li uccise? Nella casa, o fuori?
CORO:
La porta schiudi, e ne vedrai la strage.
GIASONE:
I serrami allentate, o servi, prima
che sia, le spranghe liberate, ch'io
vegga il duplice male: i figli morti,
e la donna a cui morte infliggerò.
(Appare in aria Medèa, su un carro tratto da draghi
alati. Ai suoi fianchi, sono i cadaveri dei figli)
Medèa:
A che mai questa porta scuoti e scalzi,
e i morti cerchi, e me che uccisi? Tregua
poni al travaglio; e se d'uopo hai di me,
di' quel che vuoi. Ma non potrai toccarmi.
Il Sole, il padre di mio padre, un carro
mi die' che me degl'inimici salva.
GIASONE:
Donna esecrata, piú d'ogni altra a me
e ai Numi infesta, e a tutti quanti gli uomini,
che cuore avesti di vibrar la spada
sui fig1i tuoi, che partoristi, e me
orbo di figli e misero rendesti,
e dopo ciò, dopo compiuta un'opera
piú d'ogni altra esecranda, e Sole e Terra
guardare ardisci? L'esterminio a te!
Or fatto ho senno: allor senno non ebbi,
che dalla casa e dalla patria barbara
tua, nella patria mia t'addussi, in Ellade,
o traditrice di tuo padre, e della
terra, che ti nutriva, o gran flagello.
I Numi contro me spinsero il Dèmone
che te punir dovea: ché il tuo germano
al focolare presso ucciso avevi,
quando ascendesti il legno d'Argo bello.
Tale il principio fu. Poscia, a quest'uomo
fosti consorte, e generasti figli,
e sterminati li hai, per gelosia
dell'amplesso e del letto. Oh, niuna tanto
osato avrebbe delle donne ellène
da me neglette, che te scelsi a sposa,
te mia nemica, te rovina mia,
leonessa e non donna, e ch'hai natura
selvaggia piú della tirrena Scilla.
Ma morderti che val con mille e mille
oltraggi? è troppa l'impudenza tua.
Alla malora va', di turpitudini
operatrice, assassina dei figli!
A me non resta che gemer la sorte
mia: ché fruir delle novelle nozze
non potrò, non potrò parlare ai figli
che generai, nutrii, ma li ho perduti.
Medèa:
Alle parole tue lunga risposta
rivolta avrei, se non sapesse Giove
ciò che avesti da me, ciò che mi desti.
Ma non dovevi tu, poi che il mio talamo
vituperasti, gaiamente vivere,
ridendoti di me, né la regina;
né quei che a nozze t'istigò, Creonte,
a scorno via da questo suol bandirmi.
Come or ti piace, leonessa o Scilla
del tirren piano abitatrice chiamami:
il tuo cuor lanïai, com'era giusto.
GIASONE:
Te stessa strazi, e il male mio partecipi.
Medèa:
Il mio, purché non rida tu, si mitiga.
GIASONE:
Figli, che trista madre aveste in sorte!
Medèa:
Del padre il morbo vi distrugge, o figli.
GIASONE:
No: dalla mano mia spenti non furono.
Medèa:
M'erano oltraggio le tue nuove nozze.
GIASONE:
L'offeso letto a uccidere ti spinse?
Medèa:
Per una donna è poca doglia, immagini?
GIASONE:
Sí, purché savia; e tu sei trista tutta.
Medèa:
Questi son morti; e ciò ti morde il cuore.
GIASONE:
Duro castigo avrai dai loro spiriti.
Medèa:
Chi fu la prima causa, i Numi sanno.
GIASONE:
Sanno il cuor tuo, quant'è degno d'obbrobrio.
Medèa:
Odiami: aborro la tua voce amara.
GIASONE:
Ed io la tua; ma separarci è facile.
Medèa:
Come? Che devo fare? Anch'io lo agogno.
GIASONE:
Fa' che i miei figli io sepellisca e lagrimi.
Medèa:
No certo: seppellirli io stessa intendo,
con le mie mani. Nel sacrario d'Era,
Diva d'Ascrèa, li porterò, ché niuno
dei nemici l'insulti, e non profani
le tombe loro. E in questo suol di Sísifo
sacre istituirò feste, e cortei,
per espiare questa orrida strage.
Alla terra mi reco io d'Erettèo,
e con Egèo, figliuolo di Pandíone
abiterò: tu, com'è giusto, morte
farai da tristo, ché sei tristo: avranno
amaro fine le tue nuove nozze.
GIASONE:
Dei fanciulli l'Erinni ti stermini,
e Giustizia, l'ultrice del sangue.
Medèa:
E qual Genio, o spergiuro, t'udrà,
quale Iddio, traditore degli ospiti?
GIASONE:
Ahi, ahi, turpe assassina dei figli!
Medèa:
Entra: appresta alla sposa il sepolcro.
GIASONE:
Vado: orbato d'entrambi i miei figli.
Medèa:
Nulla è or: piangerai piú da vecchio.
GIASONE:
Figli cari...
Medèa:
alla madre: a te no.
GIASONE:
E perciò li uccidesti?
Medèa:
A crucciarti.
GIASONE:
O me misero! Io voglio le labbra
dei carissimi figli baciare.
Medèa:
Or li chiami, or soave a lor parli,
quando pria li scacciasti?
GIASONE:
Oh, ch'io tocchi
le lor tenere membra concedi!
Medèa:
Non sarà: sperdi invano i tuoi detti.
GIASONE:
Odi, o Giove, quale empia repulsa,
quale torto mi fa, questa oscena
leonessa, dei figli assassina!
Pure quanto m'è dato e possibile,
io li piango, e ai Celesti m'appello,
e i Dèmoni chiamo, che attestino
che, trafitti i figliuoli, mi nega
che a loro le mani
appressi, che a lor dia sepolcro.
Deh, mai non li avessi
generati, se uccisi vederli
dovevo da te!
(Il carro alato sparisce nell'aria)
CORO:
Molte cose in Olimpo sollecita
il Croníde; e i Celesti deludono
ben sovente ogni attesa. Molte opere
imperfette restaron, che al termine
parean giunte: parea che niun esito
altre avessero; e un Dio schiuse un tramite.

dal sito www.rodoni.ch 

 
 
 

CLAUDIA D'IPPOLITO - PIANISTA

Post n°82 pubblicato il 21 Novembre 2010 da Margherita281028
 
Tag: MUSICA

Claudia D'Ippolito

Claudia D'IppolitoNata a Bologna nel 1985, si è diplomata in pianoforte nel 2004 al Conservatorio G.B.Martini di Bologna con il massimo dei voti, lode e menzione d'onore. Ha conseguito nel 2007 il Diploma Accademico di II livello allo stesso Conservatorio con la votazione di 110 e Lode. Ha studiato con i Maestri Agostini e Barbalat e si è perfezionata presso Accademie internazionali con i Maestri Rattalino, Ballista, Gulyak, Vernikov, Meunier, Corti, Specchi, Baraz. Ha vinto premi in vari concorsi tra cui il Premio Magone (2004) e Hans Bauer istituito dal Soroptimist International Club di Bologna per il miglior diplomato dell'anno 2003-2004. Ha tenuto recital solistici e cameristici in vari teatri e sale da concerto in Italia e all'estero. Ha collaborato con l'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna e con l'Orchestra Mozart sotto la direzione di Claudio Abbado. Svolge tuttora un'intensa attività concertistica e didattica.

 

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LA BELLA SCRITTURA TI FA INTELLIGENTE

Post n°83 pubblicato il 04 Dicembre 2010 da Margherita281028
 

LA BELLA SCRITTURA TI FA INTELLIGENTE

Il 50% degli italiani ammette di non aver perso il dono di una bella calligrafia e di amare i caratteri tracciati a penna

"Le lettere legate tra loro riproducono il ritmo del pensiero"
FABIO SINDICI


La bella scrittura ti fa intelligenteIl segreto, come in un libro poliziesco, è nei dettagli. Nell'apostrofo sulla lettera O in senso antiorario, come una spettinatura. Nella zampetta finale della Emme, con uno scattino verso l'alto. O nei ghirigori della Zeta, croce e passione di tutti gli antichi studenti delle elementari. E forse dei prossimi. Già, la bella scrittura, quella a mano, in corsivo, ripetuta fino all'esasperazione sui banchi di scuola, con sofferenza di dita e gomiti. Poi abbandonata, in favore delle tastiere dei computer e dei cellulari, che hanno quasi raggiunto gli asili nido. Ora la calligrafia sta conoscendo una nuova stagione di gloria. Il merito è in parte di una serie di ricerche scientifiche che vengono dall'America, la culla dell'era digitale. Alcuni test condotti attraverso la risonanza magnetica nell'Università dell'Indiana hanno dimostrato che i bambini che hanno dimestichezza con la scrittura a mano dimostrano una maggiore attività neurologica nell'area del cervello predisposta all'apprendimento rispetto a quelli abituati alla tastiera del computer.

Altri esperimenti hanno tracciato la mente degli adulti. Anche qui le tecniche di MRI (Magnetic Resonance Imaging) hanno messo in relazione l'abitudine alla scrittura manuale con le regioni cerebrali connesse all'immaginazione e alla creatività. «Sembra che ci sia una relazione importante tra la capacità di manipolare manualmente simboli bidimensionali e la nostra attività cerebrale», spiega Karin Harman James, del Dipartimento di Psicologia e Neuroscienze dell'Università dell'Indiana, che ha guidato la ricerca, appena pubblicata.

Scrivere a mano aiuta ad imparare anche secondo una ricerca dell'Università di Washington. Ed è una ginnastica per le sinapsi. I bambini che hanno sudato sulla calligrafia nei temi esprimono idee più originali dei maghetti del computer. Gli adulti possono invece avere beneficio nell'imparare nuovi alfabeti, dal cirillico agli ideogrammi del mandarino, fino alle diverse complicatissime calligrafie islamiche, considerate dai fedeli un modo di avvicinarsi a Dio. Intanto, l'associazione calligrafica italiana ha lanciato un allarme sulla poca attenzione alla scrittura a mano nelle scuole primarie. Umberto Eco lo aveva anticipato sul «Guardian»: «I bambini, e non solo loro, non sanno più scrivere a mano. La nostra generazione ha imparato a scrivere a forza di ricopiare in bella grafia le lettere dell'alfabeto», ha denunciato il semiologo, sostenendo che la bella scrittura ha perso la sua anima già con l'arrivo della penna a sfera.

Ma oggi l'attenzione degli educatori comincia a guardare indietro: alla scrittura ritrovata. In Inghilterra, alcune scuole hanno preteso che i bambini mettessero negli zainetti anche la stilografica, che richiede una certa destrezza. In Francia, nelle classi è tornato il dettato. E in Italia, sempre più insegnanti sono sensibili a un corsivo scorrevole e comprensibile nelle loro valutazioni. Proprio al corsivo il magazine americano «Time» ha dedicato, un anno fa, un lungo reportage. Con una scoperta: la scrittura in corsivo, con le lettere legate le une alle altre, riproduce il fluire del pensiero. I caratteri separati, in una tastiera, portano a una frammentazione artificiale. Di recente, invece è stato il «Wall Street Journal» ha fare il punto sul ritorno della scrittura a mano. Negli Usa, le librerie si riempiono di manuali. E le aziende cominciano a chiedere ai candidati curricula da far valutare al grafologo.

Un addio al computer? Tutt'altro. Tanto che sia i cellulari che l'iPad hanno applicazioni per la scrittura manuale direttamente sugli schermi. E i due metodi possono convivere. Per dirla con Umberto Eco: «Le persone non viaggiano più a cavallo ma molti vanno a scuola di equitazione. Sarebbe una buona cosa se i genitori iscrivessero i figli alle scuole di calligrafia».

da LA STAMPA del 21 ottobre 2010

 
 
 

CONOSCERE LA MUSICA

Post n°84 pubblicato il 31 Maggio 2011 da Margherita281028
 
Tag: MUSICA

 NOTTI MAGICHE 2011 ALLE VILLE E AI CASTELLI

8 Giugno 2011 Villa Dolfi-Ratta - via Emilia Levante, 261 - San Lazzaro di Savena (BO)
(Ingresso dal parcheggio della Comet)
Mercoledì Giuseppe Gullotta - pianoforte
Ore 21,00 Musiche di M.Clementi, F.Busoni, F.Chopin, L.van Beethoven, I.Strawinskij

15 Giugno 2011 Cà Granda - Via Carradona, 1 - San Matteo della Decima (BO)
Mercoledì Duo Anna Allevi - Stefano Guidi - pianoforte a quattro mani e proiezioni
Ore 21,00 Musiche di A.Marcello, L.Bacalov, N.Piovani, N.Rota, E.Morricone, S.Fain, M.Nyman, J.Horner, M.Steiner, M.Jarre, A.Menken

23 Giugno 2011 Villa Gandolfi-Pallavicini - Via Martelli, 22/24 - Bologna (autobus 14 - A)(Per il parcheggio, più avanti rispetto il numero civico della villa si imbocca via Pallavicini)
Giovedì Trio Mariozzi - clarinetto, violoncello, pianoforte
Ore 21,00 Musiche di J.Brahms, L.van Beethoven, M.Glinka, N.Rota

30 Giugno 2011 Villa Smeraldi - via Sammarina, 35 - San Marino di Bentivoglio (BO)
Giovedì Paolo Forlani chitarra classica - Massimo Ghetti flauto
Ore 21,00 Musiche di M.Giuliani, N.Paganini, M.Castelnuovo Tedesco, I.Albeniz, A.Piazzolla,H.Villa Lobos

7 Luglio 2011 Villa Smeraldi - via Sammarina, 35 - San Marino di Bentivoglio (BO)
Giovedì Quartetto Saxofonia - complesso di quattro Sassofoni
Ore 21,00 Musiche di J.B.Singelée, D. Scarlatti, I.Albeniz, A.Romero, P.Iturralde

Prezzo intero Euro 12,00 - Ridotto Euro 10,00 con tessera per: Soci dell'Associazione, Giovani entro i 26 anni, Over 65 anni. Il Pullman è gratuito. Le prenotazioni avvengono dal martedì precedente ogni concerto, al numero tel. 051/ 580.795 dell'Associazione, dalle 15,00 alle 18,00 feriali. Qualora sia in funzione la Segreteria, comunicare subito il numero telefonico, il cognome ed il numero dei posti: verrà data la conferma. Il Pullman gratuito delle "Notti Magiche" partirà da Piazza Malpighi (cancellata di San Francesco) alle ore 19,25; dall'interno Autostazione - Pensilina 25 - alle 19,40; dal viale Ercolani (prima fermata del Sant'Orsola da Porta Mazzini) alle ore 19,50. Per il concerto del 23 giugno, a Villa Gandolfi-Pallavicini, l'autobus non ci sarà in quanto la villa, posta in via Martelli 22/24, si raggiunge con l'autobus urbano 14A che circola fino alle ore 1,00 di notte. La Direzione si riserva il diritto di modificare calendario e programmi, qualora se ne dovesse verificare la necessità.

www.comune.bologna.it/iperbole/asconmus/

 
 
 
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