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CERAM LE CIVILTà SEPOLTE

Post n°37 pubblicato il 06 Maggio 2014 da blotex2014_20140

Prefazione

 

Questo non è un libro di grandi problemi, per quan- to nel suo fondo si agiti tutta la storia dell'umanità. È un libro di piacevole divulgazione, che attira il lettore con quel tanto di avventuroso che accompagna ogni grande scoperta del passato, e che gli fa comprendere come, nel giro di appena due secoli, la cultura moderna si sia impadronita del passato dell'umanità (o almeno di quei quattromila anni - ben pochi, in realtà - che ne costituiscono la vita storica, dalla barbarie dell'ultima età nella quale l'uomo usava ancora strumenti di pietra, fino all'età del cristianesimo, dalla quale noi contiamo gli anni). Attratto dal lato romanzesco, il lettore finirà per trovarsi arricchito di una prospettiva storica, che spesso manca alla nostra media cultura.

L'uomo di media cultura, tra noi, se sente dire Nabuccodonosorre, pensa, in primo luogo, all'opera musicale di Verdi e non alla civiltà assira, e se legge le parole filisteo o samaritano, pensa soprattutto al valore morale che questi termini hanno acquistato, non al loro significato storico, come avviene invece a chi sia stato educato in paese di religione protestante, dove i testi biblici vengono accompagnati da un commento storico e geografico (e, soprattutto vengono letti, a differenza di quanto accade nei paesi cattolici). L'italiano, poi, ha sempre assorbito, nella scuola, la nozione che i Romani furono il piú gran popolo del mondo; e da ciò gli nasce poca curiosità di conoscere gli altri popoli dell'antichità,

 

C. W. Ceram Civiltà sepolte. Il romanzo dell'archeologia

che considera senz'altro, in certo modo, inferiori, vas­salli e barbari.

L'archeologo, poi, non è mai stato circondato, tra noi, di un'aureola di grandezza. Ciò dipende, in parte, dalla circostanza, che è da reputar sempre fortunata, che gli Italiani non sono romantici; ma soprattutto poi dal fatto che, effettivamente, gli studi archeologici in Italia non hanno avuto grandi figure, che potessero colpire l'attenzione di un vasto pubblico. (L'unico nome che ebbe risonanza fu quello di Giacomo Boni, che fu, soprattutto, un retore, e la cui opera scientifica si è ridotta a nulla in pochi anni). Sembrerebbe che l'Italia, col patrimonio archeologico che possiede, dovesse esse­re un paese esportatore di archeologi; invece solo a sten­to si arriva a coprire il nostro fabbisogno interno, per la conservazione dei monumenti e dei musei e per l'inse­gnamento universitario, e non esiste (se non sulla carta) una organizzazione scientifica che promuova e coordini il lavoro in questo campo. In compenso, non mancano le Accademie, grandi e piccine, che hanno sezioni di archeologia, ma esse servono quasi esclusivamente alle piccole ambizioni personali e agli studi locali.

Sembra di essere ancora, spesso, al Settecento. E la colpa non è, come si sente dire, del fatto che l'Italia sarebbe un paese povero. Perciò, nel libro che qui si tra­duce, i nomi italiani sono ben pochi, e quei pochi tutti appartengono a un passato remoto. L'autore ha guarda­to soprattutto al lato romantico delle scoperte; e noi, di figure romantiche in questo campo non ne abbiamo, che possano paragonarsi a uno Schliemann o a uno Stephens, scopritori della civiltà di Troia e della civiltà dei Maya. Ma bisogna anche dire che l'autore aveva a disposizione, per ognuno dei suoi capitoli, non solo dei libri di carattere scientifico, ma soprattutto dei libri di carattere divulgativo, scritti dagli stessi autori, archeo­logi e scienziati: dal Carter sugli scavi della tomba di Tut-ench-Amun, dal Koldewey sugli scavi di Ur, dal

 

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Chiera sulle ricerche in Babilonia, ecc. ecc. Gli archeo­logi italiani hanno fatto ottimi e importantissimi scavi: a Festo, per esempio, a Haghia Triada e Arkades in Creta; tre scavi nel Dodecaneso, in Cirenaica e in Libia; ma nessuno di essi ha mai scritto su questi scavi un libro di divulgazione, un libro leggibile. (Vero è che, per scri­vere in modo divulgativo, senza fare del basso giornali­smo, bisogna avere ben esaurito e assimilato il proble­ma scientifico; e spesso, purtroppo, è mancata anche la pubblicazione scientifica, sicché tutto si è ridotto a un fatto personale e a un po' di propaganda turistica). Gli unici archeologi di tipo romantico, tra noi, sono stati, negli anni recenti, Umberto Zanotti Bianco e Paola Zan­cani Montuoro, che con mezzi privati, con mal celata avversione dell'archeologia ufficiale e, per un certo tempo anche nella condizione di sorvegliati speciali della polizia fascista, cercarono il tempio di Hera alla foce del Sele, presso Paestum, luogo di culto dei piú famosi nel­l'antichità, punto estremo della penetrazione greca nella penisola e punto di contatto tra la civiltà greca e quella etrusca; lo trovarono, lo scavarono, ci presero la mala­ria, e hanno arricchito le nostre conoscenze del mondo greco-italico primitivo di un nuovo capitolo.

Un altro archeologo romantico e irregolare, come quelli che piacciono all'autore di questo libro, è l'avvo­cato Calzoni di Perugia, che, scavando da solo nelle grotte della montagna di Cetona, presso Chiusi, scoprí l'esistenza di un grande stanziamento umano dell'età del bronzo proprio nel cuore di quella regione etrusca, nella quale l'età del bronzo sembrava essere stata «saltata». Si può ben dire che anche questa scoperta è stata fon­damentale per la preistoria italiana. Ma sono argomen­ti di portata troppo circoscritta per entrare in questo libro.

Il quale libro dovrebbe soddisfare la curiosità di molti lettori, che sentono come queste cose antiche, non sono «anticaglie», ma fanno parte di noi stessi; fanno parte

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della nostra storia, perché sono le vicende della società umana alla quale apparteniamo; allo stesso modo che fan parte della nostra storia individuale e della nostra per­sonalità le vicende del nostro bisnonno, del nostro nonno, del nostro padre.

L'autore, il cui vero nome un antico etrusco, abitua­to a leggere da destra a sinistra, scoprirebbe subito sotto lo pseudonimo, non è un archeologo. Ma tutto ciò che egli racconta si basa su opere di archeologi accreditati, e non vi è nessun elemento fantastico e nessun banale errore. Questo va detto, perché è difficile trovare un articolo di giornale nel quale si parli di qualche scoper­ta archeologica, che non formicoli di strafalcioni. E spesso questi non mancano persino nelle didascalie poste sotto le illustrazioni dei libri di testo per le scuole, men­tre sono generalmente corrette quelle che riguardano i monumenti dell'arte medievale e moderna. È dunque, l'archeologia, una scienza cosí arcana? No, è una scien­za che comporta una quantità di nozioni specifiche, un metodo di indagine sistematica, accurata, paziente, nella quale non bisogna che vadano perdute certe qualità di intuizione per le quali l'archeologia procede talora coi metodi della polizia scientifica, e alle quali si dovrebbe accompagnare sempre un vivo senso per la realtà con­creta della storia e la comprensione del fenomeno del­l'arte in se stesso, sotto qualunque espressione esso si presenti. Queste due ultime qualità sono, come sembra, le piú difficili; perciò esistono archeologi che le consi­derano non necessarie e forse addirittura estranee al loro ufficio: uno dei nostri piú reputati archeologi era solito dire che quando egli aveva scavato, catalogato, misurato e descritto, considerava finito il suo compito, e che l'archeologia appunto gli piaceva in quanto era «una scienza senza problemi». Da questo libro il letto­re si accorgerà subito che essa è invece tutta una suc­cessione di problemi; che la soluzione di uno ne pone subito un altro e che gran parte della sua storia è costi‑

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tuita di problemi che si è riusciti a porre, a circoscrive­re, piuttosto che a risolvere. Ma si persuaderà anche che in questo, come in ogni altro caso, non vi è scienza cosí astrusa della quale non si possa far capire a chiunque la problematica con parole semplici e piane: solo quando dalla enunciazione si vuol procedere alla ricerca e al lavoro scientifico vero e proprio, occorre un linguaggio tecnico e specialistico.

Solo in qualche caso l'autore ha usato una termino­logia che appare specialistica a noi, ma che è anche trop­po diffusa nella cultura tedesca. E non è una termino­logia archeologica; ma soltanto pseudostorica: è l'ac­cenno, che egli fa sovente, al concetto di «morfologia della storia», accettato e divulgato largamente nella cul­tura tedesca dell'ultimo quarto di secolo. Concetto dal quale vorrei che il lettore si tenesse in guardia, perché è proprio contrario, invece, a un intendimento del feno­meno storico. La storia è sempre oltremodo complicata; ritrovare il perché di un avvenimento o di una serie di avvenimenti è impresa difficile, siano questi avveni­menti vicini o lontani da noi, perché i legami tra causa ed effetto sono in massima parte sotterranei, sono, cioè, diversi da quelli che vengono alla superficie. Ogni sovra­no che inizia una guerra, proclama di farla per vendica­re l'onore, per difendere l'oppresso, per condurre al trionfo la verità e la giustizia. E i documenti del tempo ripetono queste belle affermazioni. Ma lo storico deve cercare i veri motivi, e per far questo gli occorre un lavo­ro di paziente ricerca, che lo conduca a ricostruire e rivi­vere le condizioni e le circostanze che accompagnarono gli avvenimenti stessi, le correnti sociali, economiche, politiche, spirituali che li determinarono. A questa ricer­ca faticosa, che conduce anche, talora, a scoprire spia­cevoli verità, altri preferiscono inquadrare gli avveni­menti entro schemi preordinati, cicli storici che si sus­seguono in modo fatale e che ritornano, rivolgendosi su se stessi, entro ogni civiltà con lo stesso percorso e

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variando solo nel particolare. Ufficio dello storico divie­ne, in tal modo, solo il riconoscere e descrivere il parti­colare aspetto che il fenomeno ha acquisito in quel tempo e in quel luogo determinati. Ma non è questo del­l'appiattimento del lavoro dello storico il difetto mag­giore: è il fatto che, accettando una interpretazione cosí mitologica della storia, l'uomo rinunzia a comprendere, rinunzia a esercitare quella facoltà di raziocinio che è una delle sue precipue qualità distintive, ed è spinto a considerarsi non responsabile degli avvenimenti, e quin­di ad accettarli senza tentare di esercitare la propria influenza, a vedere nella storia l'azione di forze non defi­nite, alle quali l'uomo soggiace come una marionetta. Questa specie di «Provvidenza», che non è nemmeno piú concepita come «divina», e ha perduto quindi anche i suoi attributi di Intelligenza e di Giustizia, rimane una forza interna alle cose, misteriosa e perciò piú affasci- nante per chi si sente debole, vinto, incapace di lottare. È questa una di quelle concezioni irrazionalistiche che sorgono in epoche di stanchezza e di disfacimento, e che noi dobbiamo respingere, se siamo intellettualmente sani, concreti, se vogliamo affermare la nostra fiducia nell'uomo. Nella cultura della Germania, nel clima di delusione e di scoraggiamento seguito alla prima guerra mondiale perduta, e nella durezza degli anni successivi, sul terreno romantico di quella cultura, queste conce­zioni presero forma in particolar modo con lo Spengler, col Frobenius e i loro seguaci, nella dottrina di «morfo­logia della storia», secondo la quale ogni civiltà arriva­ta a un certo grado di sviluppo genera nel suo seno germi di disfacimento che la portano alla morte; non solo, ma a ogni stadio del suo sviluppo corrispondono stati omologhi dell'« anima» delle diverse civiltà, che producono effetti analoghi anche nelle manifestazioni artistiche. Cosí il nostro autore affermerà, nel capitolo XIII, che sorgono da una stessa situazione spirituale-sto­rica entro le singole civiltà, le ziggurah babilonesi, cioè

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le torri a ripiani che dettero spunto al racconto biblico, le piramidi egiziane e le cattedrali gotiche. Avrebbe potuto aggiungere le piramidi messicane e i grattacieli di New York e di Mosca, e nessun aderente alle teorie della «morfologia della storia» lo avrebbe potuto contraddi­re. Anzi, lo Spengler lo afferma esplicitamente. Questo principio di interpretazione della storia, che non è un principio, ma un mito, circola abbastanza spesso nelle pagine di questo libro. Il lettore avvertito non vi si lascerà prendere e si interesserà piuttosto all'argomen­to fondamentale del libro, che è la narrazione di come la civiltà moderna ha scoperto le varie fasi delle civiltà antiche, come il nostro orizzonte culturale si è allarga­to per mezzo di queste scoperte. Sarebbe interessante completare questo quadro ponendo in evidenza quanto il nostro gusto in fatto d'arte figurativa sia stato influen­zato da queste scoperte; come alla assoluta sovranità delle forme dell'arte greca si sia sostituita prima la cono­scenza frivola e poi l'apprezzamento effettivo delle forme egiziane; come la scoperta dell'arte micenea abbia influito sul sorgere del movimento che conosciamo col nome di liberty; come le scoperte della Mesopotamia, dello Yucatán e del Messico abbiano portato acqua al mulino dei cubisti, dei simbolisti e degli astrattisti moderni. Ma per questo ci vorrebbe un altro libro, e sarebbe meno facile a scriversi anche perché sarebbe assai prossima la tentazione di cadere in semplicistiche deduzioni di imitazioni e di contatti, mentre anche qui, è evidente, il problema sta assai piú nel profondo, giac­ché bisogna persuadersi che ciò che chiamiamo gli stili nell'arte, non si trasmette per infezione.

Concludendo, io credo che questo libro sia utile alla cultura italiana.Tutti conosciamo la storia di Ut-napisc­ti sotto il nome di Noè, e tutti pronunziamo la parola azteca cho-cho-latl quando diciamo cioccolata, e tutti partecipiamo alla civiltà dei Maya quando mangiamo un fico d'India, o un bel tacchino, o l'umile polenta di

 

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granturco: ottime cose che ci sono pervenute dai paesi dell'odierno Messico, e che non hanno nulla a che fare con gli Indiani o coi Turchi. Eppure, per molti lettori, tutt'altro che incolti in generale, è probabile che i capi­toli sulla civiltà mesopotamica, dove il Diluvio diviene un avvenimento tangibile, e quelli sulle civiltà degli Aztechi (non Atzechi !) e dei Maya, rappresentino delle novità.

RANUCCIO BIANCHI BANDINELLI Professore di archeologia all'Università di Firenze

 

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