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I vantaggi dell'unità d'Italia

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Post n°2353 pubblicato il 17 Marzo 2017 da luger2
 

Cos’hanno in comune la Sardegna del 1720 e del 1847; il Regno delle Due Sicilie del 1860-61 e il Mezzogiorno di oggi; la Germania Est del 1989 e di adesso; la Grecia e altri paesi dell’UE, Italia inclusa, sottoposti a cure da cavallo (o eutanasia...) dalla Germania; e persino l’intera Europa rispetto al resto del mondo? Sono Sud di Nord sempre più grandi; costretti in stato di minorità con sistemi che, anche quando non riconoscibili come tali nella forma, rimangono gli stessi nella sostanza, pur al procedere dei secoli e al mutare di regimi e tecnologie. Ogni volta, però, studiati come nuovi, nonostante tutto sia già stato fatto, visto, detto, e ignorato. All’origine, ufficialmente mossi dalle migliori intenzioni, c’è l’intento di distruggere qualcosa, per sostituirlo con altro, di meglio (per chi lo fa, non per chi lo subisce). Poi si scoprirà che quello (o molto di quello) che si è distrutto non meritava di esserlo e la sostituzione con qualcosa di meglio rimane un’intenzione, chissà se mai davvero esistita. Un cammino, così, viene interrotto; se pur si volesse riprenderlo, la distanza fra chi ha imposto la frenata per approfittarne, e chi è stato frenato, cresce. E continuerà a farlo, finché non intervenga una volontà (credibile e condivisa) di colmarla. La volontà di stare insieme alla pari. Con il disconoscimento di diritti già goduti e l’esclusione «dell’elemento indigeno» da «ogni partecipazione alla vita pubblica» (e dall’economia, se non in ruoli gregari), «si creava una colonia» scrive il magistrato e senatore Giuseppe Musio nel 1875, storico della sua Sardegna, prima annessa al Piemonte, poi italiana. Le stesse parole ritroveremo, come copiate, nei testi di tanti autori che si sono occupati della riduzione a colonia dell’ex Regno delle Due Sicilie; poi, nelle analisi sulla Germania Est oggi e, infine, su cosa rischia l’Europa mediterranea per l’uso spregiudicato del super-euro da parte dei tedeschi, con l’appoggio sempre meno convinto della Francia che, non potendo impedire alla Germania di fare, preferisce aiutarla a fare (i francesi si sentono vittime ricorrenti dell’imperialismo tedesco per le invasioni subite, ma dimenticano che le guerre napoleoniche fecero circa tre milioni di morti, di cui una parte rilevante tedeschi, quando l’Europa aveva 165 milioni di abitanti, scrive Guillaume Duval in Made in Germany. Le modèle allemand au-delà des mythes). L’accostamento fra le vicende storiche e attuali dell’Italia e della Germania, su questi temi, è obbligato: sono molto simili, perché figlie di un’idea di stato-nazione che ebbe la sua prima teorizzazione al mondo con il Risorgimento italiano e i suoi sviluppi (tanto da essere preso a esempio). Come ricordano gli storici, l’esaltazione del concetto di stato- nazione portò al nazionalismo e alle avventure coloniali, imperialiste; e poi, degenerando, al nazional-socialismo. Da noi cominciò nel 1720: la Sardegna fu ridotta a «una fattoria del Piemonte». E nacque la Questione sarda. L’isola subì tali spoliazioni, che ancora agli inizi degli anni Cinquanta del Novecento era «la meno coltivata e la più disboscata regione d’Italia» riferisce Sandro Ruju nel volume monografico della Storia d’Italia di Einaudi. Industria e ricca agricoltura specializzata del Regno delle Due Sicilie, circa un secolo e mezzo dopo, furono sacrificate allo sviluppo del Nord. E fu la Questione Meridionale. Nella Germania Est (in cui il paese riunificato, per infrastrutture e sussidi alla popolazione, ha comunque riversato una quantità impressionante di denaro), dopo la caduta del muro di Berlino, si è arrivati a “sperpero e distruzione di risorse senza confronti in tempo di pace”. E ora hanno la Questione orientale. Tanto che la Germania Est è oggi l’ex paese del blocco orientale con la peggiore economia, mentre era il primo. È anche l’unico degli ex satelliti dell’Unione Sovietica in cui proprio l’incontro con la più potente economia d’Europa ha comportato l’azzeramento sia del sistema produttivo che dell’intera classe dirigente (in nessuno degli altri è successo altrettanto). Il caso della Germania Est, porta a riflessioni nuove: la rappresentazione e la causa del ritardo degli altri “Sud”, a partire dal nostro Mezzogiorno, sono indicate nella carenza di infrastrutture e servizi (dai trasporti alla sanità, all’istruzione) di cui è dotato, invece, il resto del paese. Be’, questo non si può dire dei Länder (regioni) orientali tedeschi, eppure essi sono indiscutibilmente “Sud”. Significa che sbaglia chi pensa si risolva il problema solo dando ai territori svantaggiati le stesse condizioni di efficienza degli altri. È evidente che questo ci vuole, ma non basta, senza la volontà di essere pari. I “compiti a casa” assegnati dai paesi forti dell’Unione Europea ai più deboli, per fronteggiare la crisi economica, hanno aggravato i guai invece di risolverli (che fosse proprio questo il risultato voluto?): i “tagli” per risparmiare hanno frenato l’economia, acuito la crisi, ridotto lavoro, produzione ed entrate fiscali e accresciuto i costi per l’aumento della disoccupazione. Giusto il contrario di quanto ci si proponeva. E questo ha così tanto inasprito le tensioni fra paesi del Sud e del Nord che alcuni si domandano se abbia ancora senso restare nell’euro, la moneta comune, o nell’Unione. Generando la Questione europea. L’unificazione violenta delle economie, dalla Sardegna che diviene piemontese all’Europa di oggi (alle Due Sicilie, si fece pure guerra), ha creato divari che crescono con il tempo (alla vigilia dell’Unità, dopo circa 130 anni di governo sabaudo, in Sardegna, tolti possidenti e pensionati, i “senza professione” erano 330.000: più della metà della popolazione e quasi il doppio di quelli che ne avevano una: minatore, pastore, artigiano...). La cosa è ben più evidente nel caso della Germania Est e dell’Europa meridionalizzata. Si è ricorsi alla moneta unica, per rendere senza ritorno il ricongiungimento fra tedeschi dell’Ovest e dell’Est e la permanenza nell’Unione Europea di una Germania ormai troppo grande e ricca per lasciarla sola e incontrollata. Il marco occidentale fu equiparato a quello orientale, che valeva quattro volte e mezzo meno; poi si varò l’euro, specie per pressione della Francia, che nella moneta comune vedeva sparire il primato del marco sul franco (illusorio successo fotografato dal folgorante e citatissimo commento dello storico inglese Geoffrey Garrett: «Una Germania intera per Kohl, mezzo marco per Mitterrand»). L’unificazione monetaria dell’Europa precedeva quella politica per accelerarla, forzarla. Insomma, come far sposare al tuo erede la figlia del tuo socio: intanto si rafforza l’azienda; l’amore poi verrà... Dalla Sardegna al continente, dal Settecento al Duemila, si ripropongono fenomeni economici e sociali incredibilmente simili (cambiano solo le dimensioni): si crea un divario, poi se ne addossa la colpa a chi l’ha subito; si impedisce uno sviluppo autonomo, il che indebolisce capacità e volontà, sino all’apatia; l’emigrazione, lo svuotamento dei paesi; il risentimento, la protesta, donde le accuse di vittimismo; la rassegnazione e la rinuncia, sino alla denatalità: i giovani non si sposano e, se sì, non fanno figli. Nel caso del Mezzogiorno, nel 2012, per la terza volta in un secolo e mezzo, si è avuto un saldo demografico negativo: più i morti dei nati. Era già accaduto nel 1867, ma c’erano stati i massacri e i saccheggi compiuti dai “fratelli d’Italia” (conoscete la storia di Caino?) ed era ancora in corso la guerra civile contro i “briganti” che si opponevano a un esercito invasore. (Naturalmente la causa del crollo di popolazione al Sud non furono le stragi, i furti, «l’instaurazione di un vero e proprio regno del terrore», come fu denunciato in Parlamento a Londra, rammenta Paolo Mieli, in “I conti con la storia”, ma il fatto che i meridionali, incuriositi dall’arrivo di un esercito, si distrassero e trascurarono le loro donne: «Scusate, ma che state facendo?», «On va faire l’Italie». Poi, qualcuno deve aver detto: «Fate l’amore non fate la guerra». Un altro saldo demografico negativo si era avuto dopo la Prima guerra mondiale, nel 1918, ma in seguito alla spaventosa “influenza spagnola” (in realtà portata da soldati statunitensi) che fece 50 milioni di vittime nel mondo ed è ritenuta la più assassina pandemia della storia dell’umanità. Qualche domanda ci vuole, se gli stessi risultati, al Sud, li abbiamo avuti in seguito a vent’anni di Lega Nord e al modo in cui è stata fatta l’Unità (e pensare che nel secolo precedente, il Regno delle Due Sicilie aveva più che raddoppiato la popolazione in pochi anni; ma con una «crescita», scrive in “Borbonia felix” Renata De Lorenzo, docente di storia, «di tipo russo, orientale o balcanico», !?; mentre se a crescere è la popolazione del Centro-Nord, «è evidente il nesso tra demografia e vita civile». I meridionali non hanno ancora pagato il debito di gratitudine per il sopraggiunto metodo sabaudo, occidentale, massonico di controllo delle nascite. Erano abituati ad altri, più divertenti ma meno sicuri.... Quello che succede oggi nel nostro Sud accade contemporaneamente nella Germania Est, dove, con un sesto della popolazione, si concentra metà della disoccupazione (prima inesistente) di tutto il paese; la quantità di case vuote e sfitte a causa dell’emigrazione a Ovest è tale che, per fermare il crollo dei prezzi oltre limiti tollerabili, meno di dieci anni dopo la caduta del muro, si era già deciso di abbattere 350.000 abitazioni. Né mai, in tempo di pace, le nascite erano scese tanto fra i tedeschi dell’Est; ci fu qualcosa di paragonabile solo con la Prima guerra mondiale. C’è «una costante diminuzione della popolazione delle regioni dell’Est a partire dal momento dell’unificazione» ricordano gli economisti Nicola Coniglio, Francesco Prota e Gianfranco Viesti in Note sui processi di convergenza regionale in Germania e Spagna: si è passati da 1,52 figli a donna, a 0,77 nel 1994, il «livello più basso di sempre». Ed è dovuto soprattutto al fatto che a emigrare dai Länder orientali sono principalmente donne (55 per cento), giovani (dai 18 ai 29 anni), altamente qualificate. In una parola: il futuro. Sembra un bollettino di guerra: il vincitore si prende i beni, le donne, la gioventù e il futuro del vinto. E la chiamano Unità. Se guardiamo poi, non a un paese o due, ma a tutta l’Europa unita, osserviamo gli stessi fenomeni. Quando in Sardegna furono imposte analoghe politiche economiche egoiste e di rapina, si ebbero rivolte, proteste, tacitate con la violenza, gli stati d’assedio e condanne a morte di cui il Piemonte è sempre stato generoso. Risultati? Nell’isola non si è mai sopita una vena indipendentista che s’ingrossa nei periodi più aspri. Nell’ex Regno delle Due Sicilie si ebbe un’opposizione in armi, per circa dieci anni: fu schiacciata; e oggi affiorano, via via più forti e convinti, propositi autonomisti. Nella Germania Est rimpiangono addirittura il muro! Nell’Europa unita, i paesi più stressati da fragilità economica e instabilità politica e dall’aggressiva strategia mercantilista della Germania cominciano a pensare che se questo è stare insieme, forse meglio soli. E fanno conti per vedere se non convenga uscire dalla moneta comune. Il che si ritorcerebbe contro la stessa Germania: la sua economia è sbilanciata sulle esportazioni, che crollerebbero, perché i concorrenti, svalutando la propria moneta, abbatterebbero i prezzi, mentre i tedeschi, con un euro ancora più forte, non potrebbero fare altrettanto. L’egoismo, però, se è vero che alla lunga non paga, nell’immediato rende. La storia è maestra, insegna a sbagliare. Con la caduta del muro di Berlino, scomparvero, da un giorno all’altro, gli analisti politici più sofisticati e meglio pagati del pianeta: i sovietologi, capaci di elaborare teorie e previsioni complicatissime da segnali minimi, non visibili da occhio profano. Mentre, pure in conseguenza di quel crollo, hanno ripreso vigore i cultori di una delle più complesse dottrine politico-sociali, il meridionalismo, nato in Italia e ora importato nel Nord del continente, per cercare di capire la Germania Est di oggi e l’Europa di domani (c’è una circostanza dimenticata che accomuna terroni e tedeschi orientali: ai primi fu fatto pagare, dal Piemonte, con una tassa speciale, il costo dell’invasione subita; e solo sui tedeschi dell’Est restò l’obbligo di pagare all’Unione Sovietica i danni di guerra cui era stata condannata la Germania nazista, avendo quella occidentale versato quasi nulla. Vizietto teutonico: neanche dopo la Prima guerra mondiale i tedeschi pagarono i debiti e, pur ergendosi oggi a feroce guardiana del patto di stabilità dell’Unione Europea che impedisce di sforare di più del 3 per cento il bilancio nazionale, la Germania rifiutò di pagare la sanzione prevista, quando fu lei a farlo. Così, oggi, nel tentativo di capire la Germania dell’Est, i tedeschi studiano la nostra Questione meridionale. Ma, nonostante questo, è proprio da quanto hanno fatto, dopo l’unificazione, nelle loro regioni orientali, che i tedeschi (si intende dell’Ovest, pur se a capo del governo c’è una dell’Est) traggono il metodo per agire nell’Unione Europea. Essi «hanno cominciato a trasferire sull’Europa in crisi le “verità” conquistate durante la riunificazione» scrive il sociologo Ulrich Beck, docente alla London School of Economics, in Europa tedesca. La nuova geografia del potere. E quali erano queste verità? Che quelli dell’Ovest, i Wessis, erano più bravi in tutto e per aggiustare l’Est bisognava sostituire i connazionali orientali ai posti di comando, in ogni campo, e rimpiazzare tutto quello che era dell’Est con l’analogo dell’Ovest: la geografia come soluzione. E così si sta comportando la Germania con i paesi debitori, in Europa, non sostituendosi ai capi (non può, almeno per ora...), ma obbligandoli a politiche, regole, “compiti a casa”. Con lo stesso “atteggiamento imperiale” usato con la Germania Est. «In altre parole», riassume Beck, è quello «il modello della politica tedesca di crisi in Europa.» . Ovvero quello che creò la Questione sarda, poi la Questione meridionale, poi la Questione orientale tedesca; e oggi la Questione europea: ancora un Nord e un Sud, ma sempre più grandi. Detto questo, ricordiamoci pure che veniamo da un passato molto peggiore. La Sardegna fu il primo Sud, per la fusione con lo «stato peggio governato d’Italia» scrisse il filosofo e deputato Giovanni Battista Tuveri: nacque così «il primo rapporto tra Nord e Sud in uno stato dell’Italia moderna» aggiunse Franco Venturi; e quel che fu fatto all’isola fece scuola, divenne metodo: il modo dell’Italia di essere paese. La Questione meridionale fu l’estensione al Mezzogiorno continentale del sistema economico (e politica conseguente) che la dinastia sabauda aveva adottato con l’isola: la trattava come una colonia, a cui dava poco e da cui prendeva persino la dignità regale, perché mentre la Sardegna era un regno, gli altri stati sardi “di terraferma”, con essa prima confederati e poi “fusi”, erano solo un insieme di enti minori: il Principato del Piemonte, i Ducati di Savoia, d’Aosta, di Monferrato, di Genova (ex repubblica), parte di quello di Milano, il Marchesato di Saluzzo, i Feudi delle Langhe e del Canavese, la Signoria di Vercelli, i Contadi di Nizza e di Asti (riporto da Nuovi elementi di Geografia, del 1850, citato dal professor Francesco Cesare Casùla in Italia. Il grande inganno 1861-2011). Ma alla Sardegna non piace essere Sud (anche i sardi «hanno sofferto e soffrono di pregiudizi largamente accostabili a quelli di tutto il Sud» scrive il professor Antonino De Francesco, in La palla al piede), ritenendo di essere una cosa e una storia a parte: al più, assimilabile al Centro, per latitudine (ma trattasi di illusione ottica, perché Olbia è alla stessa altezza di Barletta e Cagliari a quella di Catanzaro); per percorsi comuni (con la Toscana e Pisa, in particolare, che a lungo signoreggiò in una larga fetta dell’isola); e anche ritenendosi, molti sardi, più simili al Nord, per la storia condivisa prima con la Liguria (Genova concorreva con Pisa nell’infeudarsi l’isola) e poi con il Piemonte; ma soprattutto per alcune “specificità” (parola a cui tengono molto) e comportamenti che li distinguono dal Mezzogiorno, in scelte di modernità (l’elevata percentuale di votanti favorevoli al divorzio; quella, molto alta, dei matrimoni civili; o la partecipazione ad attività di volontariato, superiore alla media italiana, molto superiore a quella del Sud). Ma pure nell’isola i sardi vedono un Sud e un Nord sia geografico che sociale, economico, specie per l’approdo del turismo ricco ed elitario, non soltanto in Costa Smeralda (a Olbia, sentendosi settentrionali rispetto ai cagliaritani, in qualche tornata elettorale alla Lega Nord hanno dato percentuali a due cifre); e la stessa diversità ravvisano fra il litorale e l’interno: il primo più evoluto, aperto, ricco, per via della maggiore facilità di contatti e scambi con il continente; il secondo più antico (e, nel desiderio e nell’attesa dei turisti, persino “arcaico”: e così glielo offrono, rifatto per forestieri e telecamere), custode severo dei costumi, dell’essere e del pensare isolano. Tanto che si dice “Sardegna italiana” di quella costiera, e “Sardegna sarda” di quella interna (più o meno la distinzione che c’era fra Romanìa e Barbarìa, quando l’occupazione romana dell’isola costrinse a rifugiarsi nelle più aspre zone lontano dal mare). Tutta insieme, però, la Sardegna è indubitabilmente Sud. Lo è stata molto prima e molto più del Mezzogiorno continentale, ma si è visto meno. E, per i dati economici pesanti, le infrastrutture scarse, il tipo di industrializzazione che (come a Taranto, a Gela, ad Augusta e altrove) usa l’isola, la svuota, la sporca e l’abbandona, dopo una breve illusione di uscita da un ritardo plurisecolare, la Sardegna rientra a pieno titolo nella Questione meridionale. Nel caso dell’isola, non ci fu bisogno di crearne le condizioni, ma solo di peggiorarle con un’economia da rapina che ne impedì una ripresa autonoma, anche quando la si tentò. Per il Sud continentale fu necessario prima conservare quel che c’era di storto e malfatto; poi spezzare le spighe alte e gonfie, perché il campo ne offrisse solo di basse e magre, per accusare il contadino di incapacità. È un sistema adottato da sempre (Erodoto racconta che lo consigliò Trasibulo, tiranno di Mileto, a Periandro, tiranno di Corinto), ma si fa fatica a riconoscerlo, perché viene nascosto dietro cattiva informazione e dettagli strillati che oscurano il totale. Mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri (vale che si parli di persone o di paesi), la responsabilità viene pubblicamente addossata ai più poveri, ovvero a chi ha meno potere per incidere su quel che accade e non governa i mezzi di comunicazione, per raccontare un’altra verità. Che ne dite, per esempio, di “i greci sono pigri” (lavorano più di duemila ore all’anno; i tedeschi meno di 1.400); o “classi dirigenti locali”, che sono “dirigenti” solo perché eseguono (guadagnandoci, si capisce) politiche e voleri di quelle centrali? La Germania Est, per dire: caduto il muro di Berlino, lo stato fratello dell’Ovest condusse l’unificazione in modo così violento ed egoista da azzerare completamente la potenza industriale dell’Est (molta era di discutibile solidità, ma in alcuni comparti era fra le prime al mondo) e la sua economia. Il presidente del Centro Europa Ricerche, Vladimiro Giacché, in Anschluss, (Annessione), ne fa un racconto dettagliato e terribile: l’unificazione si tradusse in una razzia a opera di aziende, banche, speculatori tedesco-occidentali e stranieri (alcune imprese acquisirono quelle concorrenti dell’Est, a volte molto migliori per qualità di prodotti e gestione, solo per chiuderle); città di grande tradizione industriale cessarono di esserlo in pochi mesi; milioni di posti di lavoro (poco meno di due, solo nel primo anno) andarono distrutti; la disoccupazione (abolita per norma costituzionale nella Germania orientale) è diventata la condizione adesso più diffusa. La Germania Est è oggi un paese assistito e viene paragonato al Mezzogiorno d’Italia. Cercate di immaginare cosa successe: da un giorno all’altro vengono sostituite la moneta e tutte le regole della nostra vita, della nostra comunità, il modo di produrre, chi comanda in città, nel paese, in azienda, a scuola. Chi lo fa, ci dice che è per unificare finalmente il paese; ed è vero. Ma è lui che decide come, con quale velocità, con quali norme. Nella nostra comunità ed economia arrivano a legioni gli unificatori, qualche idealista e molti affaristi: noi dobbiamo ancora capire come ci si muove nel mondo che stanno estendendo nel nostro; loro lo sanno già: è il loro mondo che estendono; non devono imparare niente. E quando c’è un dubbio, sono loro che lo risolvono: a proprio danno? I tedeschi avevano la stessa lingua, una storia comune che si era interrotta da pochi decenni, e una moneta che aveva lo stesso nome, pur se diverso valore. Ed è successo quel che è successo: l’economia dell’Est è di fatto cancellata, i tedesco-orientali hanno un livello di vita più basso di quelli occidentali, ma nemmeno quello potrebbero mantenere senza la pioggia di sussidi con cui li si mette in condizione di comprare, comprare, comprare, però senza fare. Ora immaginate la stessa cosa in Sardegna, con una dominazione spagnola che viene sostituita da quella sabauda (non avendo in comune niente: né storia, né lingua, né economia, né moneta); e, peggio ancora, nel Regno delle Due Sicilie, dove c’era uno stato autonomo, il più grande di quelli preunitari d’Italia, una società complessa, una storia ricchissima, una cultura tanto fertile e originale che ancor oggi riempie il mondo, un’economia sofisticata, già padrona delle più avanzate tecnologie del tempo. Ma, mentre le Germanie, Est e Ovest, da quando furono separate cominciarono a contare i giorni per la riunificazione, né la Sardegna né il Regno delle Due Sicilie chiedevano di essere annessi al Piemonte. Lasciate perdere le panzane che ci propinano da un secolo e mezzo sulla patriottica attesa dell’arrivo dei garibaldini e Vittorio Emanuele. Questo lo volevano i fuoriusciti napoletani a Torino, che erano il 7,6 per cento del totale, 1500, in gran parte lombardo-veneti: quindi, un centinaio di persone. E Luigi Carlo Farini (che da dittatore a Modena, per conto dei Savoia, si era impadronito dei beni del duca spodestato), da luogotenente a Napoli, scrisse che non erano più di 100 a volere l’unificazione. Come sosteneva anche Massimo D’Azeglio, che si chiedeva se fosse giusto prendere a «archibugiate» chi non voleva diventare piemontese. Per questo ci vollero tante stragi e tanti anni di guerra per “unificare” il Sud. Lo storico Emilio Gentile, in “Né stato né nazione”, a proposito delle celebrazioni della nostra Unità, rammenta che già dal primo giubileo, nel 1911, fecero «da stridente contrappunto la deprecazione dei mali non sanati e dei guasti prodotti dall’unificazione, avvenuta senza il consenso del popolo, con la condanna della Chiesa, per effetto di fortunate combinazioni esterne e non per necessaria e valida iniziativa interna». Eppure, quando il sogno coltivato dalle due Germanie pacificamente si avvera (mi trovavo lì il giorno in cui crollò il muro: li ho visti piangere, abbracciarsi, ubriachi di felicità. E di altro...), «la riunificazione rappresenta uno shock tremendo che provoca un crollo del pil», il prodotto interno lordo, delle regioni orientali, con una «riduzione complessiva superiore a un terzo» in soli due anni, scrivono Coniglio, Prota e Viesti. Be’, al Sud ci fu pure una lunga guerra; in Sardegna anni di stati d’assedio. Ma qualcuno ancora vuol dirci che se quelle economie sprofondarono e lo spirito della gente pure, fu perché “non sono come noi, signora”. Non si danno da fare. A me l’Italia va bene unita; l’Europa mi piace priva di frontiere; il mondo è più bello senza il muro di Berlino; la Cina meglio avercela concorrente commerciale che nemico nucleare. Ma le cose vanno raccontate per come sono, per come furono. Il raffronto fra quel che accadde in Sardegna con la Fusione Perfetta (in pratica, l’annessione al Piemonte), nel Regno delle Due Sicilie con la conquista da parte dei Savoia, e nella Germania Est con l’unificazione a quella Ovest, è impressionante: sistemi che si ripetono per sottrarre valore e capitali umani (costringendo i migliori all’emigrazione interna; o persino per eliminazione fisica, nel caso dell’ex Regno delle Due Sicilie); selezione della classe dirigente secondo la disponibilità ad adeguarsi al nuovo potere e servirlo, mortificando e rimuovendo chi non si adatta, con epurazioni feroci (nella Germania Est non si è arrivati alle fucilazioni, come da noi, ma qualcuno si è suicidato, altri hanno abbandonato il paese), per disabituare a decidere e dirigere e indurre all’obbedienza (grandi capi d’industria tedeschi orientali sono stati ridotti a direttori di filiali che attendono ordini da eseguire). In breve, detto con le parole di analisti tedeschi e stranieri: oggi, la Germania Est è una “colonia interna” di quella dell’Ovest, come il Mezzogiorno per l’Italia, la Sardegna per il Piemonte preunitario. Lo stesso presidente dell’Autorità cui fu affidata la liquidazione dell’economia dell’Est, la Treuhandanstalt, ammise a posteriori che «alcune imprese tedesco-occidentali si comportarono come ufficiali di un esercito coloniale». Con una differenza: l’Ovest (pur se a beneficio quasi esclusivo delle proprie imprese) ha investito nell’Est per realizzare infrastrutture, migliorare le condizioni abitative, dotare di un reddito sociale, servizi e assistenza i cittadini rimasti senza lavoro. In questo senso, la Germania ha fatto quel che in 150 anni l’Italia non ha fatto al Sud e il Piemonte e l’Italia non hanno fatto in Sardegna in tre secoli. «Un risultato sicuramente positivo nel processo di transizione della Germania orientale» avvertono Coniglio, Prota e Viesti nel loro studio «è la convergenza nella qualità della vita, nei consumi, come negli stili di vita. Inoltre, le regioni dell’Est dispongono di infrastrutture moderne, di un capitale umano di elevata qualità (in parte eredità della ex Repubblica democratica tedesca), di un sistema legale efficiente ed efficace». Dopo lo shock e il crollo per la riunificazione, il prodotto «pro capite della parte Est del paese passa dal 49 per cento del livello della Germania occidentale, nel 1991, al 67 per cento del 1996. Poiché molti dei trasferimenti provenienti dall’Ovest sono destinati a sostenere il consumo, il reddito disponibile pro capite raggiunge un livello notevolmente più alto, pari all’81-83 per cento». E questo divario fra quanto si produce e quanto si spende misura il grado di dipendenza dell’Est dall’Ovest, la sudditanza (sono io che ho in mano la qualità della tua vita... ): gli togli la possibilità (e, alla lunga, forse la capacità) di far da soli, meglio o peggio, si vedrà, gli togli quello che ha già, poi gli dai qualcosa, perché sia un buon consumatore, e deve dirti grazie. Il giorno in cui non conviene più farlo, perché c’è la crisi, perché ho ampliato i miei mercati e tu divieni meno importante (come gli ultimi vent’anni di governi italiani di rapina al Sud?), ti accuso di vivere alle mie spalle e ti tolgo quello che hai di più senza produrlo. Si tratta, secondo una descrizione del sociologo Jack Goody adattabilissima a queste vicende, di «rapporti di potere iniqui», che si trasformano «in uno scambio forzato, come in alcuni contesti coloniali o di conquista, nei quali un esercito invasore (e non sempre son necessarie le armi) prende ciò che vuole e lascia in cambio oggetti (o condizioni) dal valore irrisorio» (o molto precario). Torniamo all’essenziale: quello che crea parità è la volontà di raggiungerla e rispettarla. Il resto può persino trarre in inganno: la Germania Est è stata dotata di tutte le infrastrutture e i servizi la cui mancanza è ritenuta causa vera del ritardo nel Sud d’Italia, della Questione meridionale, eppure a 20 anni dal crollo del muro di Berlino è stato calcolato che per la vera “convergenza” (il termine con cui si dice che Est e Ovest saranno davvero alla pari) ce ne vorranno almeno altri 30. Ma la stima è considerata troppo ottimistica, perché secondo altre ricerche ci vorrà un secolo; mentre per la più importante rivista economica della Germania, l’edizione tedesca del «Financial Times», se non cambieranno le condizioni, bisognerà aspettare 320 anni! (La Sardegna passò sotto le cure di Torino e poi di Roma 290 anni fa.). Ma tu guarda quanto sono diventati “pigri” i tedeschi dell’Est e incapaci le loro “classi dirigenti coloniali”…. Pardon: “locali”......
PINO APRILE

 
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DONN’ALBINA, DONNA ROMITA E DONNA REGINA

Post n°2352 pubblicato il 21 Febbraio 2016 da luger2
 

C’è una leggenda, magistralmente raccontata da Matilde Serao nel suo libro Leggende napoletane, che echeggia ancora nei giardini dei conventi partenopei. Le protagoniste sono tre sorelle: Donn’Albina, Donna Romita e Donna Regina, figlie del barone Toraldo, nobile del Sedile del Nilo. La leggenda narra che alla morte precoce della loro madre, Donna Gaetana Scauro, il barone ottenne la possibilità dal re Roberto d’Angiò che la figlia maggiore, Donna Regina, potesse sposarsi conservando così il nome di famiglia che altrimenti sarebbe andato perduto. Il barone nel 1320 morì lasciando sole le tre figlie. Donna Regina aveva 19 anni ed era di straordinaria bellezza: capelli lunghi e bruni come gli occhi, bellissime labbra anche se poco inclini al sorriso, ed una personalità inflessibile con un forte senso del dovere. Era lei la capofamiglia, la “conservatrice” del “nobil sangue” e dell’onore. Donn’Albina, la secondogenita, veniva chiamata così per la bianchezza del suo bel volto. Era una fanciulla amabile, sempre gentile e sorridente, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Era lei che si occupava della distribuzione delle elemosine ai poveri e che portava alla sorella maggiore le suppliche di chiunque chiedesse una grazia o un aiuto. Donna Romita, la minore, era una fanciulla sempre irrequieta con un carattere che mutava spesso dalla più ardente vivacità alla totale indifferenza. Si isolava soprattutto quando le capitava di pensare a sua madre, cui avevano detto che rassomigliasse. La fanciulla era esile con capelli biondo scuro corti e ricci, il viso scuro, gli occhi verde smeraldo e le labbra sottili. Nel palazzo in cui vivevano le tre sorelle tutto scorreva tranquillo nel rispetto delle regole, fino a quando il re Roberto d’Angiò scrisse a Donna Regina per comunicare di averle destinato in sposo don Filippo Capece, cavaliere della corte napoletana. Un giorno, mentre Donna Regina teneva in mano un libro di preghiere senza però leggerlo, le si avvicinò supplichevole Donn’Albina per parlarle della sua preoccupazione per la sorella minore. «Donna Romita mi pare ammalata - le confidò -. . Donna Regina, divenuta badessa, di tanto in tanto, si affacciava alla finestra di una sua cella e gettava uno sguardo nel vicino palazzo Toraldo, oggi Museo d'Arte Contemporanea Donna Regina (MADRE), ove le sembrava di sentir risuonare il vocio allegro dell’unico giorno in cui aveva conosciuto l’amore. Non molto lontano, Donna Albina e Donna Romita, nei loro rispettivi conventi, pregavano passeggiando nei silenziosi chiostri, ma il loro pensiero era rivolto al bel Filippo. In omaggio a questa storia d’amore molto triste, troviamo a Napoli tre luoghi con i nomi delle tre sorelle: Via Donnalbina in prossimità di Piazza Matteotti, Via Donnaromita e Largo Donnaregina adiacenti al Duomo.

 
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A N A L O G I E

Post n°2351 pubblicato il 27 Gennaio 2016 da luger2
 

“Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce” (Fenestrelle)
"Arbeit macht frei " Il lavoro rende liberi (Auschwitz)

 
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INDAGO' INASCOLTATO SULLA "TERRA DEI FUOCHI"

Per l'essersi prodigato, nell'ambito della lotta alle ecomafie, con straordinario senso del dovere ed eccezionale professionalità nell'attività investigativa per l'individuazione, nel territorio campano, di siti inquinati da rifiuti tossici illecitamente smaltiti. L'abnegazione e l'incessante impegno profuso, per molti anni, nello svolgimento delle indagini gli causavano una grave patologia che ne determinava prematuramente la morte. Mirabile esempio di spirito di servizio e di elette virtù civiche, spinti fino all'estremo sacrificio.

Questa la motivazione per la medaglia d'oro alla memoria al Sostituto Commissariodella Polizia di Stato Roberto Mancini per l'impegno nelle indagini sulla terradei fuochi. La decisione arriva grazie anche alla grande visibilità ottenutadalla petizione lanciata dall’amico Fiore Santimone su Change.org nella qualesi chiedeva, appunto, di non dimenticare la sua famiglia e onorare il lavorosvolto dall’agente. Sono state 75mila le firme raccolte dall’aperturadella petizione, a novembre 2013, e, 14 mesi dopo, è arrivato ilriconoscimento, oltre a una medaglia d’argento alla memoria consegnata dal Capodella Polizia. Il 30 aprile scorso si spense Roberto Mancini. Unpoliziotto che sacrificò la propria vita facendo il suo dovere fino infondo pur conoscendone i rischi. Indagò per anni sui rifiuti tossicisparsi tra la Campania e il Lazio poi si è ammalò di cancro. Un sacrificio chelo Stato ha quantificato in poche migliaia di euro!  Roberto Mancini si era ammalato di tumore perché pertrent’anni, (questo è il tempo che ha dedicato all’indagine), ha respirato l’ariamalsana delle discariche abusive sparse in mezza Italia dal clan dei casalesi.Le stesse discariche abusive che ancora oggi inquinano quello che mangiamo ebeviamo: quelle che sono state scoperte e in parte bonificate hanno infatticontaminato la terra che occupavano per chissà quanti anni. Oggi la chiamano “Terra dei Fuochi” quell’area campanadove sono stati riversati i rifiuti tossici che Mancini già aveva individuatonegli anni ’90 e che provoca più morti, tutti per cancro, di una guerra civile;“Triangolo della morte” quello che comprende i comuni di Acerra, Nola eMarigliano. Roberto Mancini si ammalò perché, come consulentedella Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti della Camera, fecenumerosi sopralluoghi nelle discariche abusive e venne a contatto per anni coni rifiuti radioattivi. Questo fu anche il motivo, più che legittimo, dirichiedere alla Camera un risarcimento. Ma laCamera dei deputati rigettò la richiesta di indennizzo di Mancini: “Dal puntodi vista amministrativo, il sig Mancini, al fine di poter collaborare per laCommissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti è stato inquadratodal 16 aprile 1998 al 28 maggio 2011 nell’Ispettorato della Polizia presso laCamera dei deputati senza che sia stato stabilito alcun rapporto a titolooneroso con la Commissione…” ergo non c’era stato alcun rapporto di lavoro eMancini non doveva avere nulla. Oggi la medaglia d'oro!

 

Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo. (Paolo Borsellino)

 
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L'UNITA' CHE SI FECE CON 10 ANNI di GUERRA CIVILE !

Post n°2349 pubblicato il 29 Aprile 2015 da luger2
 

Una guerra civile feroce durata dieci anni (1860-1870) contro degli occupanti che parlavano francese o il dialetto piemontese e che arrivarono nel Sud, con modi di pensare lontanissimi tali da essere incomprensibili. Terra e libertà aveva promesso Garibaldi per i contadini del Sud senza il cui concorso la folle impresa dei Mille sarebbe naufragata in un bagno di sangue, laggiù in Sicilia. I primi editti del generalissimo abolirono l’imposta del macinato, soppressero il dazio, stabilirono le prime divisioni delle terre demaniali, e ripristinarono degli usi civici usurpati. Fu un momento che illuse le attese e le speranze di un futuro migliore per le classi subalterne del Sud. Ma presto le cose cambiarono mostrando il loro vero volto: con il massacro di Bronte, e la repressione di Bixio, con l’uccisione dei rivoltosi contro le prepotenze secolari dei latifondisti e lo scenario divenne più chiaro. “Occorre che tutto cambi, affinché nulla cambi” disse il protagonista de “Il Gattopardo”. La scelta era stata fatta, in difesa della proprietà e dell’ordine sociale nelle campagne e fu quasi una guerra. Dopo il crollo improvviso della dinastia borbonica, il nuovo Stato unitario dei Savoia si trovò a dover fronteggiare un movimento di rivolta che sfociò nella lotta armata, che venne represso con una durezza eccezionale, esagerata ed indiscriminata, forma violenta di una lotta di classe, che colpiva la classe più vilipesa e sfruttata della società meridionale, quella dei “cafoni” che a loro volta insorgevano contro l’oppressione e la miseria. Il volto del nuovo Stato si presentò con la circoscrizione obbligatoria, con lo stato d’assedio, i tribunali militari, le fucilazioni sommarie per i briganti, il domicilio coatto; il Mezzogiorno divenne un problema di ordine pubblico, trattato come la terra di conquista del Piemonte. Il generale Pinelli aveva già applicato nell’aquilano la fucilazione a chi avesse “con parole o con denaro o con altri mezzi eccitato i villici ad insorgere,” e “a coloro che con parole, od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del re, o la bandiera Nazionale”. Scrive Denis Mack Smith, storico liberale inglese nelle sua famosa Storia d’Italia: “I contadini trovati in possesso di armi erano fucilati sul posto e i soldati fatti prigionieri erano a volte legati a un albero e arsi vivi; altri erano crocifissi e mutilati. La legge della giungla trionfava e i soldati erano spinti per rappresaglia ad analoghi eccessi. Non veniva dato quartiere, ma al terrore si rispondeva con il terrore.
Degli uomini erano fucilati per dei semplici sospetti, intere famiglie punite per le azioni di uno dei loro membri, villaggi saccheggiati e incendiati per aver dato rifugio a dei banditi.” La repressione terroristica dell’esercito verso i “cafoni”, (“la più grande canaglia dell’ultimo ceto” li definì il generale Solaroli, aiutante di campo di Vittorio Emanuele) toccò punte di inaudita ferocia con l’eccidio di Casalduni e Pontelandolfo nel beneventano, con metodi così sanguinari che il professor Francesco Barra in “Il brigantaggio in Campania” parla di “un autentico e orrendo pogrom”. Le cifre di questa guerra civile ancora oggi fanno rabbrividire. Il numero dei caduti fu superiore a quello dei caduti di tutte le altre guerre del Risorgimento messe insieme. Secondo le stime del Molfese risulta che i guerriglieri nel quinquennio 1861-1865 caduti in combattimento o fucilati furono 5.212, il totale di “briganti posti fuori combattimento” di 13.853.
Molti di quelli che saranno poi i più temuti capobriganti, Carmine Donatelli Crocco, lo Zapata italiano, parteciparono al processo di unificazione per poi ritrovarsi dall’altra parte della barricata, tra le fila della reazione sanfedista e legittimista, prendendo in prestito la coccarda rossa e le bandiere bianche dei Borbone. Li definirono con il marchio infamante di BRIGANTI. Nel 1865, in Basilicata, in Puglia e in Calabria il grande brigantaggio a cavallo, al comando di Crocco, Borjès, Ninco-Nanco, Coppa, Tortora, Sacchitiello che minacciava le fondamenta stesse del nuovo Stato unitario, veniva sconfitto con la cattura, la resa e l’uccisione dei capi, con il sistema della “terra bruciata”. Una resistenza disperata e senza prospettive, repressa con leggi violente (la “legge Pica fece della repressione più rigorosa non una misura eccezionale, ma la regola sanzionata dal diritto”) e con una mobilitazione di uomini e mezzi mai vista prima che raggiunse l’acme nel 1863 quando furono concentrati nel Sud 120.000 soldati, quasi la metà dell’intero esercito. Lo stratega della sconfitta del brigantaggio in Basilicata e nel Beneventano fu il generale Emilio Pallavicini di Priola che si servì della collaborazione di uno dei luogotenenti più fidati di Crocco nel Melfese, Giuseppe Caruso di Atella, il primo “pentito” d’Italia. Caruso si era costituito nel settembre del 1863; in cambio della libertà divenne una guida dell’esercito; profondo conoscitore dei luoghi e dei nascondigli più segreti, consentì di scovare e distruggere molte bande armate e minacciò di catturare lo stesso Crocco. Grazie alla raccomandazione del Pallavicini per i servizi resi venne poi assunto come brigadiere delle guardie forestali di Monticchio. Il contributo fondamentale del traditore Giuseppe Caruso, una sorta di Pat Garrett, è stato volutamente sottovalutato dalla storiografia di parte liberale. L’ex vaccaro dei Fortunato fu anche l’artefice della distruzione avvenuta nel 1867 nel bosco di Bucito, in Basilicata, di una delle bande più agguerrite del picentino, quella di Luigi Cerino di Gauro che operava per lo più nel vasto massiccio montuoso dei Picentini e degli Alburni. Per l’uccisione di Cerino, a Caruso il governo assegnò una pensione di 100 lire al mese, somma rilevante per quegli anni. Nel Picentino, fra queste montagne a cavallo di due province, nelle folte ed impervie boscaglie e nelle grotte naturali, alla macchia operarono una costellazione di piccole-medie bande appiedate, che raramente superavano i 20 componenti, guidate da abili e spietati capi, estremamente mobili, conoscitori perfetti dei luoghi e di ogni più impenetrabile recesso, capaci di lunghe e durissime marce, di giorno e di notte, d’inverno o d‘estate. Una vita senza respiro. Appesa ad un filo. Erano pastori, contadini, braccianti, carbonai analfabeti, renitenti alla leva o disertori, sbandati del disciolto esercito borbonico, semplici avventurieri alla ricerca di bottini e di vendette personali contro i “galantuomini”. Compirono numerosi ricatti e sequestri di persona, vendette contro i proprietari terrieri, le autorità municipali e i membri delle guardie nazionali. Una fitta rete di appoggi, di complicità e connivenze, nelle montagne e nei paesi, li teneva al riparo dalle perlustrazioni delle truppe. La cosiddetta “polizia dei briganti” impressionò anche i membri della commissione d’inchiesta presieduta dal Massari. Nel 1870 il brigantaggio, poteva dirsi completamente sconfitto. Antonino Maratea (Ciardullo) capobrigante di Campagna era stato fucilato nella piazza principale del suo paese il 1 dicembre 1865, insieme al ferocissimo ladro e assassino Carmine Amendola di Giffoni, detto il Pestatore. Prima di lui era stato ucciso nel bosco di Persano il 24 novembre 1864 Gaetano Tranchella di Serre. La banda Scarapecchia era stata decimata e dispersa nei pressi del fiume Sele, quella del terribile Francesco Cianci (Cicco Ciancio) di Montella nel novembre del 1866 a Calavello nel comune di Lioni. A Castiglione del Genovesi il 28 maggio del 1869 venne ucciso, in uno scontro con la guardia nazionale di Castiglione e San Cipriano Picentino, Andrea Ferrigno, uno dei più noti capo banda del picentino. Il montellese Ferdinando Pica perse la vita in un duello rusticano sui monti di Solofra per mano del compaesano Alfonso Carbone. L’intera banda Carbone si costituì a Montella il 5 settembre 1869. Poi fu la volta di Manfra, Gatto, Marcantuono, Parra e Boffa mentre il cadavere putrefatto di Nicola Marino era stato identificato sul monte Bulgheria, nel territorio di Torre Orsaia. Il brigantaggio non aveva però ancora chiuso la sua pagina di storia. Si protrasse addirittura fino al 1873 quando fu ucciso a Flumeri (Av) l’ultimo protagonista dell’epopea del brigantaggio, il celebre capo-banda Gaetano Manzo di Acerno. La vita avventurosa e fuorilegge di Manzo è notissima dopo le descrizioni particolareggiate che hanno fornito le sue stesse vittime. Umile pastore di Acerno, sperduto paese del salernitano al confine con l’avellinese, Manzo renitente alla leva, si aggregò dapprima alla banda di Ciardullo per poi formare una propria banda autonoma, forte di quindici briganti, il cui nucleo centrale era costituito da suoi compaesani di Acerno. Per trovare i complici e i manutengoli e catturare la banda Manzo si utilizzavano senza scrupolo anche sistemi illegali. Un solo esempio per tutti: un certo Salvatore Caputo fu arrestato dai Carabinieri mentre si trovava nelle campagne di Prepezzano “in altitudine sospetta”. Proprio così: ”altitudine sospetta” è scritto nel rapporto datato 7 luglio 1872 e firmato dal Maggiore Enrico De Rogatis. Negli anni ’70 malgrado il vento sia cambiato e il brigantaggio sta scrivendo gli ultimi cruenti episodi di un movimento in estinzione, le tre o quattro piccole bande che ancora sopravvivono nell’area dei picentini possono ancora fruire del sostegno dell’ambiente contadino e bracciantile. Il fenomeno del “manutengolismo” così diffuso durante il brigantaggio post-unitario nasceva dalla miseria e rappresentava l’unico mezzo per cambiare la propria vita di “dannati della terra” e combattere i soprusi, gli inganni, lo sfruttamento condividendo “la mortale avventura del brigantaggio. E‘ interessante per inquadrare gli ultimi anni del brigantaggio riportare ciò che scrive il Molfese.” Contrariamente all’opinione dei pochi scrittori sul brigantaggio post-unitario che hanno trattato anche dei fatti svoltisi dopo il 1864, e che tutti indistintamente ne hanno considerato la fase finale affrettatamente e con superficialità, coinvolgendo il brigantaggio di quel periodo in un solo giudizio negativo che lo raffigura come una manifestazione di criminalità comune in continuo declino, l’esame del lungo periodo che va dalla sconfitta del grande brigantaggio fino alla fine ufficialmente riconosciuta del brigantaggio meridionale (1870), riserva non poche sorprese a chi voglia approfondire meglio le cose. Intanto, in quegli anni seguita ad essere evidente il carattere <policentrico> del brigantaggio, che persiste ostinato nell’Abruzzo chietino, nell’Abruzzo aquilano e in Terra di Lavoro, nel Salernitano, nel Lagonegrese, e infine in Calabria, senza collegamenti apprezzabili tra le varie aree. In questi diversi centri il brigantaggio conserva ancora a lungo la virulenza dei primi anni e specialmente in Abruzzo e in Terra di Lavoro si può parlare di un grosso brigantaggio, condotto, cioè, da molte bande formate di numerosi elementi che non si limitano a praticare soltanto i ricatti e le distruzioni di proprietà a danno della borghesia agraria, ma affrontano incessantemente le forze repressive. Nelle regioni che ufficialmente si considerano <pacificate> (Puglia, Molise, Beneventano, Basilicata, Irpinia), la sicurezza pubblica nelle campagne e lungo le vie di comunicazione lascia sempre a desiderare. Riappaiono continuamente piccole bande a compiere rapine e ricatti. Il fuoco sembra covare sotto le ceneri. Interessanti risultano anche le annotazioni sul nuovo, dinamico metodo della <persecuzione incessante> inaugurato dal generale Pallavicini nel Beneventano che come era stato designato, dopo la defenestrazione del Conte di San Elena, per distruggere la banda Manzo installando il suo quartier generale nel comune di Montecorvino Rovella. “Pallavicini ricercava sempre la chiave del successo oltre che nell’azione militare, in due altri fattori: la collaborazione delle municipalità e delle guardie nazionali (che gli altri comandanti militari difficilmente sollecitavano o sapevano guadagnarsi), e la persecuzione dei manutengoli condotta con ogni espediente,anche a rischio di provocare conflitti con l’autorità giudiziaria. Questo metodo era divenuto sempre più efficace quanto più era andata crescendo la forza delle autorità statali con il conseguente isolamento dei briganti”. Il capo banda Tortora esclamò al suo processo:“ I Ladri sono i galantuomini delle città, e primi i concittadini miei, ed uccidendoli non fò loro che la giustizia che meritano; se tutti i cafoni conoscessero il loro meglio non si avrebbe a restare in vita per uno”.
"I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente,i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio". (Carlo Levi, da "Cristo si è fermato a Eboli")

foto di UN Popolo Distrutto.
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I DELUSI DELL'UNITA'

Post n°2348 pubblicato il 10 Aprile 2015 da luger2
 
Foto di luger2

All'indomani dell'unità, molte delle aspettative generate dalla spedizione dei mille furono deluse dallo stato unitario appena formatosi. Nelle Due Sicilie i contadini e gli strati più poveri della popolazione, dopo aver inizialmente creduto che con Garibaldi le condizioni di vita sarebbero migliorate, si ritrovarono, invece, ad affrontare maggiori tasse e la coscrizione (servizio di leva) obbligatoria, con una conseguente diminuzione delle braccia in grado di sostenere una famiglia.«Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile all’interno e umiliata all’estero e in preda alla parte peggiore della nazione».Ne I Malavoglia di Giovanni Verga appare chiara la disillusione, seguita da una cocente delusione, della popolazione di fronte alla nuova Italia unita, attraverso i racconti della lunga coscrizione del giovane 'Ntoni, la morte del giovane Luca nella battaglia di Lissa e le nuove tasse. La cocente delusione di chi sperava che l'unità d'Italia avrebbe cambiato le sorti del Sud è ben raccontata anche nel romanzo di Anna Banti, "Noi credevamo". Nel meridione continentale questo malcontento popolare sfociò nel movimento di resistenza definito brigantaggio.Così scriveva in proposito Verdi il 16 giugno 1867 :“Cosa faranno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie! Ci vuol altro che mettere delle imposte sul sale e sul macinato e rendere ancora più misera la condizione dei poveri. Quando i contadini non potranno più lavorare ed i padroni dei fondi non potranno, per troppe imposte, far lavorare, allora moriremo tutti di fame. Cosa singolare! Quando l’Italia era divisa in piccoli Stati, le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che siamo tutti uniti, siamo rovinati”"Lo stesso Garibaldi nel 1868 scrisse in una lettera ad Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.»Delusi furono anche molti liberali che avevano riposto nell'unità d'Italia la realizzazione delle loro ambizioni, ma che si ritrovarono in una situazione politica sostanzialmente immutata; mentre il risveglio economico, garantito dalle politiche fiscali di Ferdinando II e dalle floridissime condizioni del regno borbonico, cessò di colpo. Il patriota Luigi Settembrini, mentre era rettore all'università di Napoli, disse agli studenti: «Colpa di Ferdinando II ! Se avesse fatto impiccare me e gli altri come me, non si sarebbe venuto a questo!». Rimase rammaricato anche Ferdinando Petruccelli della Gattina, che nella sua opera I moribondi del Palazzo Carignano (1862), espresse la sua amarezza nei confronti della negligenza della nuova classe politica. Anche il clero rimase deluso, sia per la perdita di Umbria e Marche da parte dello Stato pontificio, sia per il frequente esproprio di beni ecclesiastici, la soppressione degli Ordini Religiosi e la chiusura di numerosi istituti di utilità sociale. Quindi sono gli stessi eroi del risorgimento ad essere delusi del risorgimento! 

 
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Re "Franceschiello" ed il suo esercito: una storia di calunnie!

Post n°2347 pubblicato il 01 Aprile 2015 da luger2
 

«Hai fatt’ à fine è ll'esercito è Franceschiello»: modo di dire napoletano per indicare un completo insuccesso. Ma nel verticale crollo borbonico del 1860 fu, al contrario, proprio l'esercito l'unico elemento del regime allora caduto a salvare l'onore della dinastia e del Paese, con un notevole esempio di valor militare e di fedeltà morale e politica. Ingiusto, dunque quel modo di dire. L' esercito di Franceschiello, ossia di Francesco II di Borbone, ultimo sovrano del Mezzogiorno, meritava e merita rispetto. Era stato sì mal comandato in Sicilia, ma si era battuto bene, mantenendo anche inespugnata la cittadella di Messina. Garibaldi giunse poi a Napoli senza colpo ferire, mentre l'intero personale borbonico, politico e amministrativo, «si squagliava». Nello scontro decisivo che Francesco II decise di affrontare sul Volturno, l'esercito combatté con grande impegno, anche se, pur superiore di numero, non riuscì a prevalere sui 20.000 uomini di Garibaldi. Coi suoi fedeli Francesco II si chiuse nella fortezza di Gaeta, dove il sopraggiunto esercito inviato da Cavour, al comando del generale Cialdini, lo assediò. Cavour diede il colpo di grazia all'ultima resistenza borbonica allargando i confini piemontesi e prendendo in mano la situazione, temendo eventuali colpi di testa di Garibaldi (un attacco a Roma con conseguente intervento francese e ritorno in forze dell' Austria nella penisola, o un'azione conforme alle sue note idee repubblicane, minacciose per l'unità sotto i Savoia). Ma Garibaldi poi nei fatti non ebbe simili intenzioni. Con l'arrivo di Cialdini la partita era chiusa. La resistenza di Gaeta, mirava a suscitare una reazione europea all'espansione dei Savoia, reazione che non vi fu ed anche la possibilità che si potesse ripetere il miracolo del 1799, quando l'appoggio popolare consentì in pochi mesi a Ferdinando IV, bisnonno di Francesco II, di recuperrare il Regno. La resistenza di Gaeta fu accanita, animata anche dalla bella e balda regina Maria Sofia di Baviera, e durò per un bel pò, ma a metà febbraio si dovette capitolare. Il Re e la Regina si rifugiarono a Roma. La cittadella di Messina si arrese il 12 marzo. A resistere rimase solo Civitella. Non vi era un grosso contingente. Il comandante, il maggiore Luigi Ascione, aveva ai suoi ordini all'incirca 500 uomini di varie armi e corpi, con 21 cannoni, 2 obici, 2 mortai e una colubrina in bronzo. Le forze degli assedianti, al comando del generale Ferdinando Pinelli, erano superiori e con armi migliori, fra cui cannoni rigati, di vario calibro, e 2 obici da montagna. La resistenza di Civitella assunse rilievo, specie dopo la caduta di Gaeta, ancor più di quella di Messina, anche per i suoi echi internazionali, che però non furono, altro che di simpatia. Pinelli adottò misure durissime anche contro la popolazione civile, per cui nel gennaio 1861 venne sostituito con il generale Luigi Mezzacapo, un ex ufficiale borbonico, passato a quello sabaudo quando Ferdinando II di Borbone si era ritirato dalla coalizione antiaustriaca degli Stati italiani nel 1848. Con lui l' assedio si fece più energico, sostenuto dal fuoco dei nuovi potenti cannoni a tiro rapido, e da forze armate crescenti, che giunsero a oltre 3.500 uomini. Si fece un continuo bombardamento più che un'azione di assedio manovrata: alla fine, furono 7.800 i proiettili caduti sulla fortezza per circa 6.500 chilogrammi di esplosivo. Anzi, furono invece gli assediati a condurre un' azione militare di qualche rilievo, fomentando atti di guerriglia nei paesi vicini e cercando di opporsi, dove si poteva, al plebiscito per l'unità italiana il 21 febbraio. Si riuscì pure a tenere qualche rapporto con Gaeta, d'onde giunsero lodi e incoraggiamenti, mentre il capitano Giuseppe Giovine, già capo della gendarmeria, fu promosso colonnello e sopravanzò l' Ascione, promosso solo a tenente colonnello. Intanto, la caduta di Gaeta e, il 13 marzo, quella della cittadella di Messina toglievano sempre più ragione a quella resistenza. Anche da parte del decaduto Francesco II giunse, tramite il generale Giovan Battista Della Rocca, l'invito agli assediati a deporre le armi, ma nella fortezza non tutti lo accolsero, sicché il campo dei difensori si rivelò meno compatto di come parrebbe. Lo stesso Giovine propendeva per la resa. In effetti, la difesa di Gaeta e di Messina erano state opera di forze armate regolari ed erano state tenute sul piano strettamente militare. A Civitella la guarnigione operò insieme a molti civili e in rapporto con bande e legittimisti delle zone contigue. La guarnigione di Civitella operò in collegamento con bande e legittimisti: preludio al brigantaggio. In questo senso la resistenza di Civitella è più importante, in quanto preluse a ciò che nel Mezzogiorno accadde nei seguenti dieci anni di guerra contro il brigantaggio e il borbonismo superstite, in un connubio non sempre chiaro, ma indubbio, fra loro. Finalmente, l' Ascione poté, però, stipulare la resa e il 20 marzo i bersaglieri entrarono in Civitella. Quel che seguì non fu un modello di comportamento liberale. Alcuni dei resistenti furono giustiziati, altri furono incarcerati ed ebbero varie sorti. La storica fortezza di Civitella, che risaliva al 1574, fu minata e fatta in gran parte crollare, danneggiando anche le mura angioine della città. Intanto, il Regno d' Italia, proclamato tre giorni prima della resa di Civitella, muoveva i suoi primi difficilissimi passi. Nel 1866 vi fu la sua prima prova bellica, in alleanza con la Prussia, con la sfortunata guerra contro l' Austria. Se il legittimismo borbonico avesse avuto consistenza e vigore, questo sarebbe stato il momento della verità. In quei frangenti la nuova Italia molto difficilmente avrebbe potuto resistere a una grande insurrezione o a una guerra civile in atto all'interno. Non accadde nulla di simile. Il miracolo del 1799 non si ripeté.
Ma su Francesco II di Borbone si sono dette molte falsità a causa della cancellazione della memoria e della demonizzazione del passato applicate scientificamente dopo l’unificazione d’Italia. Le informazioni sono scarse e di solito denigratorie: era giovane; incapace; probabilmente succube di un padre, Ferdinando II, dalla personalità ingombrante; impreparato al comando; indeciso; imbelle. Persino sul piano personale, la propaganda ha infierito, accusandolo di non essere all’altezza anche nei rapporti più intimi con la moglie, essendo cattolico e di delicata spiritualità e, dunque, certamente un credulone superstizioso. Ma la realtà fu ben diversa, e per giungere a questa conclusione basta pensare alla vita di Francesco II dopo la fine del Regno delle Due Sicilie. Ridotto in povertà, avendo lasciato il Regno senza portare con sé neppure il patrimonio di famiglia; dignitoso ed umile sempre; consapevole del senso della storia e del ruolo svolto come Re e come uomo, di fronte alla Provvidenza. Francesco II è il riferimento per chi voglia ritrovare le tracce di un’identità culturale sepolta sotto più di 154 anni di menzogne e ideologie, ma ancora viva e in attesa di essere portata alla luce. La storia italiana ci ha abituati i a conoscerlo come “Franceschiello”, un epiteto dispregiativo per sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato: l’ultimo Re delle Due Sicilie era stato capace, in meno di un anno, di perdere regno e ricchezze, combattendo dalla parte sbagliata. Perché è sempre sbagliato stare dalla parte di chi perde, quando la storia la scrivono i vincitori. E Francesco, pur consapevole della fine imminente, non si era voluto piegare a nessun compromesso. Perciò aveva perso. Non aveva cercato facili alleanze: avrebbe potuto salvare almeno se stesso, conservare le fortune personali, ereditate dagli avi o, persino, usare quelle ricchezze (che nessun altro Stato italiano poteva vantare di possedere in tale quantità) per corrompere quanti, nell’ora più difficile del Regno, preferirono abdicare alla propria dignità, barattando la patria napoletana con l’oro piemontese e massonico. Fu un sovrano che amò sinceramente il suo popolo, nacque a Napoli, 16 gennaio 1836 e in esilio il 27 dicembre 1894 (a soli 58 anni) l’ultimo sovrano delle Due Sicilie si congedò dalla scena del mondo in punta di piedi, con lo stesso stile sobrio e dignitoso con cui aveva vissuto. Nel suo testamento scrisse: “Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”. La Discussione di Napoli, nel riportarne la notizia, commentava: “Con l’anima serena dell’uomo giusto, con gli occhi estaticamente rivolti alla visione di quel sereno cielo che lo vide nascere, è morto il Re adorato, alle porte dell’Italia, in un modesto albergo, situato in una regione non sua...”. Matilde Serao, in un articolo apparso su Il Mattino del 29 dicembre, scrisse: “Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone”. Ad Arco di Trento, l’ultimo discendente di una delle monarchie più potenti d’Europa aveva vissuto gli ultimi anni della sua breve vita, in perfetta umiltà e dignitoso anonimato. Fu l’ultimo Re, disse l’Italia intera; ed il cordoglio per la morte prematura di un sovrano tanto nobile, leale e generoso, fu sincero, quanto tardivo fù il riconoscimento del suo alto profilo morale. Francesco II non abdicò mai al ruolo che la Provvidenza gli aveva assegnato: morì da Re, assolvendo fino alla fine il suo compito, con coraggio e dignità. 
E’ stato un sovrano che ha anteposto ai suoi interessi personali l’amore per il suo popolo.
La sua breve ma intensa vita di soldato e di re, appare un continuo e cosciente conformarsi all’unico modello di regalità che la sua profonda religiosità cristiana poteva proporgli di imitare. Il Re Francesco II si sentiva, ed era, parte del suo popolo, che amò fino alla fine della sua vita, ben oltre la perdita del trono e la fine del Regno. È lecito dubitare dell’amore dei sovrani per i loro popoli quando vi siano interessi materiali da salvaguardare, quando c’è ancora la speranza di recuperare un trono perduto; ma Francesco già da tempo non nutriva più di queste speranze e, specialmente dopo la definitiva partenza da Roma, aveva pure rinunciato a vedersi restituiti i suoi beni. Eppure, non aveva mai cessato di amare i napoletani. E i napoletani non cessarono mai di amarlo. Non, certamente, i generali che lo avevano tradito; non quegli aristocratici la cui bramosia di ricchezze e di potere si era lasciata stuzzicare dalle astute lusinghe degli avversari (eppure, anche a costoro seppe perdonare); ma il popolo, il suo popolo, lo amava davvero perché si sentiva profondamente amato da lui: “sposato”, abbracciato. Suo padre, Ferdinando II, aveva regnato per oltre trent’anni, trasformando il Regno delle Due Sicilie in uno degli Stati più ricchi e potenti d’Europa. Era un’eredità pesante, che Francesco dovette assumersi inaspettatamente e che si trovò a gestire da solo, quando stava per avere inizio la fase più difficile della storia del Sud. Gli avvenimenti, che si susseguirono in maniera travolgente, precipitarono la dinastia e mutarono la storia del popolo. La storiografia ufficiale, quando si è occupata della sua figura, lo ha fatto descrivendolo come un uomo scialbo, impacciato, dalle spalle strette e gli occhi tristi, l’espressione tra il timido ed il corrucciato; insomma, il ritratto perfetto dell’antieroe. 
Ed anche nella storiografia più recente, il re soldato, che combatte sugli spalti di Gaeta, appare quasi trascinato, più che dalla sua convinzione personale, dall’entusiasmo incosciente e, talvolta, imprudente, della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, riconosciuta “eroina di Gaeta”. Restano poco noti, invece, il suo ricchissimo epistolario, il suo diario privato, le memorie di chi visse accanto a lui gli ultimi istanti della sua vita. Da essi emerge una figura di re il cui profilo morale, umano, intellettuale e cristiano è altissimo e rigoroso: un ritratto assolutamente stridente con quello ufficiale consegnatoci dalla storia che, persino nel nomignolo con cui lo identifica, “Franceschiello”, ha voluto imprimere nella memoria collettiva l’immagine del perdente, del non Re, rappresentandone una regalità in negativo, in cui non trovano spazio concetti come “potere” e “trionfo” e non c’è posto neanche per la competizione richiesta dai modelli considerati vincenti.
Troppo spesso la storia esalta come eroi personaggi mediocri, il cui merito è quello di essere saliti in tempo sul carro del vincitore o di avere agito con cinico egoismo e per puro calcolo materiale o rinnegando valori morali e princìpi religiosi in nome di presunti ideali. La vicenda garibaldina e l’intera operazione con la quale fu realizzata l’unificazione italiana necessitano a tutt’ oggi di una rilettura che ne chiarisca, una volta per tutte, natura e contenuti. Non è più possibile, di fronte all’evidenza documentale, continuare ad accettare la vulgata ufficialmente imposta nei manuali scolastici, attraverso i quali si dovevano “fare gli Italiani”. Troppe contraddizioni balzano in evidenza, troppe smentite dei fatti così come ci sono stati raccontati, troppi elementi di un’altra storia ci rivelano una verità diversa da quella conosciuta finora, che è doveroso portare alla luce e diffondere. È quella storia, che oggi non è più possibile accettare supinamente, che ci ha consegnato la figura di un “Franceschiello” codardo, pavido, inetto: il ritratto caricaturale di un Re.
Il 5 settembre 1860, in procinto di partire per Gaeta, volendo risparmiare alla capitale atroci combattimenti (l’entrata di Garibaldi in città era imminente), pronunciava parole gravi, denunciando al cospetto dell’Europa, che rimase sorda alle evidenti violazioni del diritto internazionale ai danni dei popoli delle due Sicilie: 
“una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, nonostante che io fossi in pace con tutte le Potenze Europee”.
Il Re denunciava, con una chiarezza e lucidità che pochi, in quel momento, mostrarono di avere, i disegni della setta rivoluzionaria che stava impadronendosi dei suoi Stati, ma che presto avrebbe minacciato l’intera Europa; scriveva ai rappresentanti delle potenze europee di come il Piemonte, che “sconfessava” pubblicamente l’azione garibaldina, segretamente, invece, la incoraggiava e la sosteneva. E paventava il pericolo che la violazione delle norme più elementari del diritto internazionale, che ora stava danneggiando il suo Regno, avrebbe finito per imporre il principio di autolegittimazione dei governi, spianando la strada a regimi basati sulla forza e sulla violenza, anziché sul consenso dei popoli. Fu fin troppo facile profeta: totalitarismi e massacri avrebbero trasformato l’Europa del secolo successivo in un immenso teatro di violenza e di guerre. Nessuno sembrava, in quel momento, rendersene conto quanto lui: “questa guerra spezza ogni fede ed ogni giustizia ed arriva fino a violare le leggi militari che nobilitano la vita ed il mestiere di soldato ... L’Europa non può riconoscere il blocco decretato da un potere illegittimo ... L’azione di Garibaldi è quella di un pirata. Accettandola, l’Europa civile tollererebbe la pirateria nel Mediterraneo... Ma l’Europa stava a guardare. Francesco II, invece, combatteva contro questo nuovo modo di fare la guerra: sul Volturno, a Gaeta, sul fronte della diplomazia. Combatteva e protestava instancabilmente, pur nella crescente consapevolezza di non poter salvare se non l’onore; combatteva a fianco dei suoi soldati, per il popolo che aveva “sposato” e che non lo abbandonava, perché “fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandi e solenni; ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso quale si addice al discendente di tanti Monarchi”.
Lucidamente consapevole della sconfitta, non fece nulla per sottrarsi al suo dovere di Re, raccomandando ai suoi popoli “la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini” anche quando l’esito gli fu fatale. Lasciando Napoli, Francesco II non portò nulla con sé. Il 12 settembre, appena una settimana dopo la sua partenza verso Gaeta (il Regno delle Due Sicilie era, dunque, ancora uno Stato legittimo riconosciuto dalle potenze europee), i suoi beni venivano dichiarati da Garibaldi “beni nazionali”; e quando, succeduto Vittorio Emanuele, si discusse se rendere a Francesco i suoi beni privati, una tale eventualità fu condizionata alla sua partenza da Roma, dov’era ospite del Papa. Lo si voleva allontanare il più possibile da Napoli, perché la sua sola prossimità al Regno era sufficiente a tenere alto il morale di chi combatteva per l’indipendenza della patria. Francesco non accettò: non poteva consentire alcuna strumentalizzazione della sua persona facendone ricadere su di lui la responsabilità dei massacri, che l’esercito piemontese stava attuando nel tentativo di piegare la resistenza dei napoletani. Perché di “Napolitani” si trattava - come sottolineava con forza il Re - e non di “briganti” ed “assassini”, come invece li dipingeva la propaganda; napoletani come lui, e, come lui, “disgraziati che difendono in una lotta ineguale l’indipendenza della loro patria ed i diritti della loro legittima dinastia”. Di quei “briganti”, ad ogni modo, se tale era la loro identità, lui, il Re, si reputava onorato di esserne il primo. Ed avendo, d’altra parte, perduto un trono, che gli importava di perdere le ricchezze? “Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me: ed ai miei occhi il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza”: queste le parole con le quali respinse il “consiglio” di Napoleone III di allontanarsi da Roma. Non riebbe più i suoi beni, che furono distribuiti, in barba a Statuti e proteste, ai “martiri” dell’unità d’Italia. Francesco, Re - Sposo dei suoi popoli, invece non cessò mai di preoccuparsi delle loro necessità, nella buona come nella cattiva sorte: l’11 gennaio 1862 riusciva ad inviare la somma di 800 scudi all’Arcivescovo di Napoli Riardo Sforza, per venire in soccorso della popolazione di Torre del Greco, colpita dal terremoto. “Tutte le lagrime dei miei sudditi – scriveva in quell’occasione – ricadono sopra il mio cuore, e non mi sovviene della mia povertà che allora soltanto che, in simili circostanze, m’impedisce di fare tutto quel bene, al quale mi sento per natura trasportato... Sovrano esiliato, non posso slanciarmi in mezzo a’miei figli per alleviarne i mali. La potenza del Re delle Due Sicilie è paralizzata, e le sue risorse son quelle di un sovrano decaduto che non ha trasportato seco, lungi dal suolo ove riposano i suoi antenati, che l’imperituro amore per la patria assente. Ma comunque grande sia la mia catastrofe e meschine le mie risorse, io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli miei”. Anche sugli spalti di Gaeta, quando tutto era ormai perduto, questo Re non aveva avuto altro pensiero che quello di consolare i suoi popoli nelle sventure comuni. Sempre fiducioso nella Provvidenza, le sue parole non furono mai di cupa rassegnazione, ma sempre vibranti di passione interamente napoletana: “Ho combattuto non già per me, ma per onore del nostro nome... io sono napolitano; nato in mezzo a voi non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le mie”.
Orgoglioso della sua “napoletanità” e dell’appartenenza ad una dinastia che, da oltre cento anni, regnava pacificamente su quei territori, ai quali aveva restituito indipendenza ed autonomia, Francesco rivendicava la legittimità del trono: “non mi ci sono installato dopo avere spogliato gli orfanelli del loro patrimonio, né la Chiesa dei suoi beni; né forza straniera mi ha messo in possesso della più bella parte d’Italia. Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità...” Pace, concordia, prosperità: erano questi i beni che voleva per i suoi popoli. Perfettamente a conoscenza di tradimenti e cospirazioni, aveva voluto evitare spargimenti di sangue: questa sua scelta, che ostinatamente difendeva, gli aveva procurato – egli mostrava di esserne profondamente consapevole – accuse di inettitudine e debolezza. Ma preferiva queste accuse ai trionfi degli avversari, ottenuti con il sangue e la violenza. Cinismo, tradimenti e spergiuri sembravano sempre più fare parte dei moderni codici militari, ma a Francesco continuavano ad essere cari gli antichi codici della cavalleria, che riposavano sulla sacralità del giuramento, sulla fedeltà alla parola data, specie se parola di Re. Per questo non aveva potuto credere che il re del Piemonte “che protestava di disapprovare l’invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima per il vero interesse dell’Italia”, avrebbe violato tutti i trattati e calpestate le leggi, invadendo il regno delle Due Sicilie senza neanche una dichiarazione di guerra. Ma alla tracotanza del nemico si poteva rispondere solo rimanendo uniti nella concordia, intorno al trono dei propri antenati, superando antiche divisioni (il discorso riguardava specialmente i siciliani): “il passato non sia mai un pretesto di vendetta, ma un avvertimento salutare per l’avvenire”. Occorreva avere fiducia, ancora una volta, nella Provvidenza divina ed accettarne, comunque, i disegni, profondi ed imperscrutabili; ma nessuno – e specialmente il Re – poteva sottrarsi al proprio dovere: “Difensore dell’indipendenza della patria, resto a combattere qui per non abbandonare un deposito così caro e così santo. Se ne ritornerà l’autorità ed il potere nelle mie mani, me ne servirò per proteggere tutti i miei diritti, rispettare tutte le proprietà, salvaguardare le persone ed i beni dei sudditi miei contro ogni oppressione e depredamento. Se poi la Provvidenza nei suoi profondi disegni decreta che l’ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò con la coscienza senza rimproveri e con una risoluzione immutabile, ed attendendo l’ora della giustizia, farò i voti più ferventi per la prosperità della mia patria e per la felicità di questi popoli che formano la più grande e la più cara parte della mia famiglia”. L’esilio vissuto negli ultimi anni ad Arco, senza più speranza di recuperare trono ed averi personali, non cancellò la validità di questo “patto”: bastava essere napoletano per essere ricevuto da lui e furono tanti coloro che ebbero modo di incontrarlo. A tutti chiedeva notizie della sua Napoli, senza che mai alcuna parola di biasimo per i nuovi regnanti e governanti uscisse dalla sua bocca. Così come non voleva che si parlasse delle sue passate vicende, della sua vita di Re: le considerava un sogno del passato, che ormai si era dissolto. Aveva conservato il titolo di Duca di Castro, ma tutti ad Arco lo conoscevano come “il signor Fabiani”. Fu solo dopo la sua morte che gli abitanti della cittadina trentina scoprirono la vera identità di quel gentiluomo che, tutte le mattine, sedeva al bar a fare colazione ed a leggere i giornali, dopo avere ascoltato la Messa, ed ogni sera, puntuale, si recava per la recita del Santo Rosario presso la Chiesa della Collegiata. Francesco II lascia nella storia un nome, che le iniquità e le calunnie non possono oscurare i doveri di sovrano, che egli seppe compiere cristianamente, i doveri di soldato valoroso nell’eroica difesa di Gaeta, i suoi proclami e le note diplomatiche indirizzate ai monarchi di Europa durante i tristi momenti della sua caduta, dimostrano ai posteri tutto il suo valore ed indicano un modello di regalità che non evoca immagini di potenza e di gloria ed invita, piuttosto, a riflettere sulla nobiltà della politica: concetto, oggi, purtroppo, estraneo alla nostra esperienza, perché caduto progressivamente in desuetudine, ma che dovremmo sforzarci di recuperare.

 
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L'ultimo proclama (1860)

Post n°2346 pubblicato il 27 Marzo 2015 da luger2
 

Si riporta di seguito il Proclama di Sua Maestà il Re Francesco II, dato a Napoli il 6 settembre 1860, come pubblicato sotto il numero 149 dalla Collezione delle leggi e de' decreti reali del Regno delle Due Sicilie (con l'avvertenza ivi riportata che, non essendo all'epoca presente l'originale nella Segreteria di Stato, esso fu ripreso dal "Giornale costituzionale del Regno"), ultimo proclama ufficiale duosiciliano, cui farà seguito soltanto, nella stessa data, l'Atto di protesta del medesimo sovrano.


Fra i doveri prescritti a' Re, quelli de' giorni di sventura sono i più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti Monarchi. A tale uopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di questa metropoli, da cui debbo ora allontanarmi con dolore. Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le Potenze Europee. I mutati Ordini governativi, la mia adesione a' grandi principii nazionali ed italiani, non valsero ad allontarla; che anzi la necessità di difendere la integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti che ho sempre deplorati. Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilità, sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l'età presente e la futura. Il Corpo diplomatico residente presso la mia Persona seppe fin dal principio di questa inaudita invasione da quali sentimenti era compreso l'animo mio per tutti i miei popoli, e per questa illustre città, cioè garentirla dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni di arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo. Questa parola, è giunta ormai l'ora di compierla. La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte dello Esercito, trasportandomi là dove la difesa de' miei dritti mi chiama. L'altra parte di esso resta per contribuire, in concorso con l'onorevole Guardia Nazionale, alla inviolabilità ed incolumità della capitale, che come un palladio sacro raccomando allo zelo del Ministero. E chieggo all'onore ed al civismo del Sindaco di Napoli e del Comandante della stessa Guardia cittadina risparmiare a questa Patria carissima gli orrori de' disordini interni ed i disastri della guerra vicina; a quale uopo concedo a questi ultimi tutte le necessarie e più estese facoltà. Discendente da una Dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade continentali, dopo averle salvate dagli orrori di un lungo Governo viceregnale, i miei affetti sono qua. Io sono Napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio a' miei amatissimi popoli, a' miei compatriotti. Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità de' doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia Corona non diventi face [fiamma, n.d.R.] di turbolenze. Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in breve fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al Trono de' miei Maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici.

 
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Il Demanio e gli Usi Civici.

Post n°2345 pubblicato il 23 Marzo 2015 da luger2
 

Il diritto napoletano introdusse una netta distinzione nella "publica civitatum" (proprietà pubblica). Furono chiamati "patrimoniali" i beni che la Pubblica Amministrazione possedeva come propria dotazione (immobili, navi da guerra, ambasciate ecc); "demaniali" i beni pubblici, disponibili all'uso immediato della collettività nazionale (boschi, strade, fiumi, ecc). Il termine "demanium", di derivazione medioevale (indicava i beni posseduti dal nobile, in quanto tale, per esprimere lo splendore della sua dignità), nella giurisprudenza napoletana (sviluppatasi fin dal XVI secolo), venne quindi a significare "terra libera". Furono detti demani universali quelli statali/comunali, la cui proprietà e l'uso appartenevano a ogni singolo cittadino; demani feudali quelli derivanti dalle proprietà conferite alla nobiltà per l'esercizio delle proprie funzioni. L'istituto degli "Usi Civici" del Regno delle Due Sicilie, garantiva il libero uso per tutti i cittadini delle terre del demanio per piantare, coltivare, pascolare greggi, far legna nei boschi.
La giurisprudenza degli Usi Civici è tutta propria del Diritto Napoletano ed è ritenuto una gloria del diritto italiano, per il suo carattere liberale, che la differenziava di gran lunga da quelle di Francia e Germania. A seguito dell'invasione napoleonica, insediatosi sul trono Gioacchino Murat, fu promulgata il 2 agosto 1806 la legge per abolire la feudalità, ma non gli usi civici: le popolazioni conservarono tutti i diritti. Il 20 settembre 1836 Ferdinando II di Borbone, riconfermò gli Usi Civici con una "Prammatica" in cui si affermava:                                               "... Doversi presumere usurpato in danno del demanio comunale tutto quel territorio che non si trovasse compreso nel titolo d’infeudazione;"  [si doveva cioè considerare occupato abusivamente dai feudatari (e/o dai municipi) tutto il terreno non espressamente patrimoniale); "di doversi considerare come libera ogni terra posseduta dai privati o dai Comuni, finché non si fosse dal feudatario giustificata una servitù costituita con pubblici istrumenti; (si noti che è il feudatario, nobile o municipio, a dover dimostrare la proprietà della terra e non il colono o chi la coltivava gratuitamente per se). "di doversi consolidare la proprietà dell'erbe e quella della semina, compensando l'ex feudatario mediante un canone redimibile ove apparisse aver egli riserbato il pascolo in suo favore. (Anche quest’altro passaggio è significativo: nel caso si fosse dimostrato che il colono coltivava terre non libere il "feudatario" non poteva scacciare coloro che le avevano coltivate impossessandosi del raccolto e delle "erbe" ma poteva solo pretendere il pagamento d’un affitto.
La legge, in tal modo, salvaguardava il lavoro dei contadini e impediva che venissero privati, d’un botto, dei mezzi di sussistenza. Nel Diritto Napoletano la salvaguardia dei diritti dei più deboli era un principio ispiratore); "di doversi considerare come inamovibili quei coloni che per un decennio avessero coltivate le terre feudali, ecclesiastiche o comunali, e come assoluti proprietari delle terre coloniche sulle quali è loro accordata la pienezza del dominio e della proprietà senza poter essere mai tenuti a una doppia prestazione..." (cioè i coloni che per un decennio avessero coltivato terreni patrimoniali di feudatari, enti religiosi o municipi non potevano essere rimossi, scacciati o costretti a prestazioni servili e dovevano esserne considerati come legittimi proprietari).

 Nel 1860 giunsero i piemontesi e la "festa" finì: i terreni demaniali furono venduti ai privati, per rastrellare il risparmio del Sud e trasferirlo altrove.
Si crearono nel contempo improduttivi latifondi. Terre, boschi, pascoli e frutteti finirono in mano ai liberali borghesi non "compromessi" con i Borbone. Migliaia di famiglie finirono, dall'oggi al domani, alla fame, senza più alcun sostentamento. Iniziò la più grande diaspora della storia italiana: quella meridionale, che ha costituito, e continua a costituire, una risorsa enorme per le casse erariali italiane e una fonte di manodopera a basso prezzo per il nord. Perciò è sempre fomentata. Ma questa è un'altra storia!

 
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L'ostilità inglese destabilizzò il Regno di Napoli.

Post n°2344 pubblicato il 19 Marzo 2015 da luger2
 

Fin da quando salì al trono nel novembre del 1830, Ferdinando II concepì la presenza del Regno delle Due Sicilie sullo scacchiere europeo come quella di un'entità politica in crescita. Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli notava che, nelle intenzioni di Ferdinando II, il regno doveva essere un organismo politico «nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé». Così, proseguiva Croce, il figlio di Francesco I «guardingo e abile si avvicinò alla Francia, si liberò della tutela dell'Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso l'Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell'Impero». Ma l'Inghilterra riteneva che l'aver difeso i Borbone ai tempi di Acton e di Napoleone le desse i titoli per poter ottenere una totale subalternità da parte di Ferdinando II. E dava segni di fastidio per quel «contegno non servile» di cui parlava Croce.
Fu così che Ferdinando II nel 1834 firmò (inconsapevolmente) la condanna a morte del suo regno. Quell'anno, 1834, nel pieno della «prima guerra carlista» (1833-1840), Ferdinando rifiutò di schierarsi a favore di Isabella II contro Carlo Maria Isidro di Borbone-Spagna nel conflitto per la successione a Ferdinando VII sul trono iberico. Dalla parte di Isabella, figlia di Ferdinando VII, e contro don Carlos, fratello del re scomparso, erano scese in campo Francia e Inghilterra, che considerarono quello del regime borbonico alla stregua di un vero e proprio atto di insubordinazione. Londra ci vide, anzi, qualcosa di più: il desiderio del Regno delle Due Sicilie di elevarsi, affrancandosi da antiche subalternità, al rango di medio-grande potenza. E da quel momento iniziò a tramare per destabilizzarlo. La storia di questa trama è adesso raccontata da un importante libro di Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee (1830-1861).
Già nelle pagine della premessa a questo volume (che rende omaggio, con un'esplicita dedica, a Giuseppe Galasso e al suo Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale, edito da Utet), Di Rienzo si rende conto del fatto che la pietas per il destino del regno borbonico lo espone al rischio di trasformare il suo racconto in quella che Benedetto Croce definì «storia affettuosa», simile alle «biografie che si tessono di persone care e venerate». O anche a quelle che sempre Croce definiva le «storie che piangono le sventure del popolo al quale si appartiene». Un rischio, scrive Di Rienzo, «forse tale da portare acqua al mulino di quell'Anti Risorgimento vecchio e nuovo» che - e qui cita il Giorgio Napolitano di Una e indivisibile - «con fuorvianti clamori e semplicismi continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l'Unità poco oltre il limite di un Regno dell'Alta Italia di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell'Italia unita, che rispondeva all'ideale del movimento nazionale (come Cavour ben comprese e come ci ha insegnato Rosario Romeo)». Però, prosegue Di Rienzo, a «chi ha scelto la professione di storico», non si può chiedere di «non ricordare che l'unione politica del Sud al resto d'Italia avvenne senza il consenso ma anzi contro la volontà della maggioranza delle popolazioni meridionali». E non lo si può esortare a «passare sotto silenzio come quell'unione, che per vari decenni successivi al 1861 non fu davvero mai "unità", sia stata, in primo luogo, il risultato di un complesso e non trasparente intrigo internazionale in cui la Potenza preponderante sullo scacchiere mediterraneo contribuì a porre fine, una volta per tutte, alle velleità di autonomia del più grande "Piccolo Stato" della Penisola, giustificando una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea». Parole molto forti: quella dell'Inghilterra nei confronti del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata «una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea». 
Da lungo tempo il Regno Unito non aveva nascosto un grande interesse per la Sicilia. Giovanni Aceto nel volume De la Sicile et de ses rapports avec l'Angleterre (1827) scriveva: «Quest'isola non rappresenta per l'Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni politiche e militari che l'Inghilterra intende intraprendere nell'Italia e nel Mediterraneo». Un segnale al Regno di Napoli fu mandato nell'estate del 1831, quando fanti inglesi sbarcati dalla corvetta «Rapid» proveniente da Malta, condotta dal tenente di vascello Charles Henry Swinburne, occuparono l'isola Ferdinandea, un lembo di terra di circa quattro chilometri quadrati emerso dal mare tra Sciacca e Pantelleria, che si sarebbe nuovamente inabissato nel dicembre di quello stesso anno (la storia è stata ben raccontata da Salvatore Mazzarella in Dell'isola Ferdinandea e di altre cose , pubblicato da Sellerio, e in L'isola che se ne andò di Filippo D'Arpa, edito da Mursia). Un gesto del tutto sproporzionato data l'assoluta irrilevanza dell'isolotto. Ma che voleva essere un segno inequivocabile nei confronti di un'isola ben più importante, la Sicilia. Sicilia da cui l'Inghilterra importava vino, olio d'oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto zolfo usato per la preparazione della soda artificiale, dell'acido solforico e della polvere da sparo. Zolfo che fu all'origine di un contenzioso dal quale uscirono ulteriormente deteriorati i rapporti anglo-napoletani: ne venne fuori quella che Ernesto Pontieri - nei saggi raccolti in Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento (Esi) - ha definito una «politica di rancori, di insidie, di mal celata avversione verso uno Stato (il regno borbonico) che non senza ragione conservava rispetto all'Inghilterra immutata la sua diffidenza».
Ai tempi della rivoluzione del 1848, quando, il 13 aprile, il General Parlamento di Palermo, dopo aver dichiarato la decadenza della dinastia borbonica, aveva deliberato «di chiamare un principe italiano sul trono, una volta promulgata la Costituzione», confidando nelle assicurazioni del plenipotenziario inglese Henry Gilbert Elliot Murray Kynynmound Minto, il ministro degli Esteri britannico Henry John Temple, visconte di Palmerston, si impegnò a garantire l'indipendenza del nuovo regno se la scelta del popolo siciliano avesse favorito la candidatura di un membro di Casa Savoia in alternativa a quella del secondogenito di Ferdinando II o del giovanissimo figlio del Granduca di Toscana, avanzata dalla Francia.
Fu Carlo Alberto che, dopo la sconfitta di Custoza (27 luglio), decise di risparmiarsi il conflitto con il Regno di Napoli, ciò che consentì a Ferdinando II di rompere gli indugi e ordinare alla sua armata guidata dal principe di Satriano, Carlo Filangieri, di varcare lo stretto, bombardare Messina e marciare trionfalmente alla riconquista di Palermo. All'epoca l'Inghilterra era ormai in una posizione di ostilità dichiarata e il 15 settembre 1849 inviò al nuovo capo del governo napoletano, Giustino Fortunato, una nota nella quale si sosteneva che «la rivoluzione siciliana era stata provocata dal malcontento generale, antico, radicato, causato dagli abusi del governo borbonico e dalla violazione dell'antica Costituzione siciliana, ripristinata e aggiornata dal patto politico del 1812, promulgato sotto gli auspici della Gran Bretagna, che, anche se provvisoriamente sospeso, non era stato mai considerato abolito dal consorzio europeo». La nota aggiungeva, minacciosamente, che «qualora Ferdinando II avesse violato i termini della capitolazione e perseverato nella sua politica di oppressione, il Regno Unito non avrebbe assistito passivamente a una nuova crisi tra il governo di Napoli e il popolo siciliano».
In Inghilterra divenne un caso molto dibattuto quello di Carlo Poerio, ministro dell'Istruzione nel governo costituzionale napoletano del 1848, che nel '49 fu arrestato, processato e condannato a 24 anni di carcere duro (ne avrebbe scontati 10, per poi riparare in Piemonte dove gli sarebbe stato riconosciuto un rango politico di primo piano). Fu in questo clima che nel Regno Unito furono rese pubbliche le due lettere di William Ewart Gladstone a lord Aberdeen, che volevano essere un rapporto sulle carceri borboniche e sul trattamento dei prigionieri nel quale il regime di Ferdinando II veniva definito alla stregua di una «negazione di Dio». Un testo caratterizzato da una certa enfasi e non poche esagerazioni.
È in questo momento storico che Ferdinando II decise di dare una seconda prova di carattere - la prima era stata quella di cui all'inizio della «guerra carlista» - che gli sarebbe costata cara. Nel gennaio del 1855 si chiamò fuori dalla guerra di Crimea, nella quale, invece, Cavour si era schierato, a fianco di Francia e Inghilterra, contro la Russia. Nell'estate di quell'anno, scrive Di Rienzo, «convinto che l'offensiva dei coalizzati si sarebbe infranta sulle fortezze di Sebastopoli, il governo borbonico promulgava il divieto di concedere il passaporto ai sudditi siciliani per evitare che questi si potessero arruolare nella Legione anglo-italiana, composta da fuoriusciti politici della Penisola, ed emanava nuove disposizioni sanitarie, giustificate dall'epidemia di colera sviluppatasi in Crimea, che imponevano una quarantena di quindici giorni a tutto il naviglio proveniente dall'Impero ottomano».
Palmerston, divenuto primo ministro, nella seduta della Camera dei Comuni del 7 agosto accusava il regime borbonico di essersi schierato con la Russia, anzi di esserne diventato un vassallo. A suo avviso «nonostante la distanza geografica che separava i due Stati, l'influenza russa su Napoli era progressivamente cresciuta fino a divenire predominante». Secondo Palmerston, «il regno borbonico aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all'Inghilterra vietando l'esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare». Questa «palese violazione del diritto internazionale» appariva tanto più grave in quanto «perpetrata da un governo che si era macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea». E qui il riferimento alle già citate lettere di Gladstone era quasi esplicito.
Palmerston fece di più: utilizzò fondi riservati del Tesoro britannico per finanziare una spedizione per liberare Luigi Settembrini, autore nel 1847 della Protesta del popolo delle Due Sicilie, Silvio Spaventa e Filippo Agresti, condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell'ergastolo dell'isolotto di Santo Stefano. L'operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento, «ma», scrive Di Rienzo, «anche quel tentativo dimostrò, comunque, quale fosse il rispetto di Londra per la sovranità dello Stato borbonico e come la ferma volontà dimostrata da Ferdinando II di rivendicare l'autonomia del suo regno nelle grandi scelte di politica estera fosse prossima a ricevere un'esemplare punizione». Punizione «che i governi alleati avrebbero giustificato, servendosi di motivazioni completamente strumentali, tutte concentrate sulla critica della politica interna delle Due Sicilie, nell'impossibilità di usarne altre motivate da reali giustificazioni giuridiche attinenti la violazione del diritto internazionale».
Di qui un crescendo di manifestazioni di ostilità da parte dell'Inghilterra (ma anche, sia pure in minor misura, della Francia) nei confronti del Regno di Napoli. Palmerston pretende dalla corte di Caserta il licenziamento del direttore di polizia Orazio Mazza, accusato di aver offeso durante una rappresentazione teatrale («un episodio trascurabile», lo definisce Di Rienzo), il segretario della legazione inglese George Fagan. Il Times suggerisce addirittura di inviare a Napoli, a mo' di «spedizione punitiva», navi britanniche che avrebbero dovuto ottenere «gli stessi risultati delle missioni intimidatorie guidate dal commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra il 1853 e il 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun Ieyoshi Tokugawa». Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, termina l'articolo del Times, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l'esistenza di «un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia». Immediatamente il ministero degli Esteri inglese fa eco a quell'editoriale, diramando una nota in cui si afferma che «il governo di sua maestà non poteva non tener conto dei sentimenti dell'opinione pubblica e dei circoli politici britannici perfettamente rispecchiati dalla stampa londinese». Solo la regina Vittoria riesce ad evitare che si passi dalle parole ai fatti. E risponde al governo con queste parole: «La regina, dopo aver esaminato la documentazione da voi allegata, ha espresso la più decisa contrarietà a una dimostrazione navale (che per essere efficace dovrebbe contemplare la possibilità di un'apertura delle ostilità) indirizzata ad ottenere dei cambiamenti nel regime politico delle Due Sicilie». In ogni caso prudentemente Ferdinando II decide di congedare Mazza.
Trascorre un po' di tempo e si verifica un nuovo incidente. L'ambasciatore a Londra di Ferdinando II, Antonio La Grua, principe di Carini, informa «di aver rintuzzato con tagliente ironia le provocazioni di Palmerston il quale durante un ricevimento ufficiale gli aveva chiesto notizie di Carlo Poerio». Alle rimostranze del primo ministro britannico, il quale lo invitava a considerare che la detenzione di Poerio «non era materia di scherzo ma costituiva un affare serio e grave di cui il vostro governo conoscerà tra breve l'importanza», il diplomatico napoletano si vantava di aver ribattuto di non arrivare a capire «perché la sedicente magistratura d'Europa s'intestardisca a occuparsi delle nostre faccende e si dia pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi senza avvertire il bisogno di tastare il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi dell'ottima salute nostra».
Qualche anno dopo il ministro degli Esteri inglese, James Howard Harris (lord Malmesbury) si fermò a riflettere nelle sue memorie sul «caso Poerio» e sulle sue conseguenze. Palmerston e Gladstone, a suo avviso, avevano «commesso l'errore di mettere in discussione i diritti sovrani di uno Stato dispotico senza considerare che anche un regime assoluto possedeva le identiche prerogative di una repubblica o della stessa Inghilterra di difendersi contro gli avversari che lo volevano rovesciare con la violenza». Certo il regime borbonico era afflitto dalla «lentezza della giustizia». «Ma le torture alle quali Poerio si dice sia stato sottoposto», prosegue Malmesbury, «furono, a mio parere, inventate di sana pianta... Nessun individuo, trattato in maniera tanto disumana, avrebbe potuto ristabilirsi così rapidamente in soli tre mesi e apparirmi in così florida salute come Poerio che, quando mi fu presentato, nel 1859, alla Camera dei Lords dal conte di Shaftesbury, venne da me scambiato per un giovane pari reduce da una salubre villeggiatura». «Giusto o sbagliato che fosse», concludeva Malmesbury, «Ferdinando II, soprannominato "re bomba", aveva una tale cattiva reputazione che tutto era lecito contro di lui, però, se si esclude questo sentimento largamente diffuso nell'opinione pubblica britannica, una spedizione armata diretta contro il suo regno costituiva una misura assolutamente illegittima».
È un fatto che in quegli anni il Regno di Napoli fu sottoposto ad una sorta di apartheid internazionale. Che parve attenuarsi solo verso la fine del 1856, quando esplosero moti a Palermo, a Cefalù, e, l'8 dicembre, si ebbe un tentativo (fallito) di regicidio contro Ferdinando II compiuto da Agesilao Milano. Il re cercò di approfittarne e di «risolvere» il problema dei detenuti politici avviando trattative per stipulare una convenzione con l'Argentina, al fine di stabilire sul Rio de la Plata «una colonia di sudditi napoletani, già condannati o in attesa di giudizio per delitti politici, che in quelle terre sarebbero stati confinati in commutazione della pena da espiare nella madrepatria». Ma Palmerston si affrettò a dichiarare ai Comuni che «l'invio dei detenuti in Argentina non poteva costituire un passo soddisfacente per riallacciare le normali relazioni diplomatiche con Napoli, perché le carceri napoletane, una volta svuotate, sarebbero state immediatamente riempite con nuove vittime della tirannia dei Borbone».
Quindi (28 giugno 1857) fu la volta della sfortunata spedizione a Sapri di Carlo Pisacane: un tentativo insurrezionale che - per l'ostilità dell'esercito ma anche del popolo - fallì e fu represso con durezza. Dell'equipaggio del piroscafo a vapore «Cagliari» di Pisacane facevano parte due macchinisti inglesi, tratti in arresto dalla gendarmeria napoletana. L'Inghilterra si mosse immediatamente per reclamare non solo la loro liberazione, ma addirittura un adeguato indennizzo economico che li risarcisse dell'«ingiusta detenzione».
Nel gennaio del 1859 Ferdinando II concede l'esilio perpetuo a circa novanta prigionieri (tra i quali Poerio). Inasprisce, però, le pene per i futuri arrestati. Così l'Inghilterra continua a tener viva la tensione con il regime borbonico e Londra sarà in prima fila a sostenere, nel 1860, l'impresa dei Mille. «Il Regno Unito», scrisse Malmesbury nelle sue memorie, «si sentiva autorizzato a servirsi della spada e dell'intuito del grande bucaniere Giuseppe Garibaldi contro i suoi nemici, come nel passato aveva utilizzato Drake e Raleigh, che gli spagnoli giustamente chiamarono pirati». Per di più nel mese di giugno tornarono al governo Palmerston e Gladstone, i più implacabili nemici della dinastia napoletana. Da quel momento l'aiuto inglese a Garibaldi fu decisivo.
Questa, del supporto britannico alla «liberazione del Mezzogiorno», è un'ipotesi che, scrive Di Rienzo, «la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza, e che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filo borbonica». Eppure c'è una gran mole di documenti che «mostrano almeno la plausibilità di questa interpretazione».
C'è la documentazione dell'aiuto inglese al viaggio e all'impresa di Garibaldi in Sicilia. Ma ci sono anche le prove della consapevolezza inglese dell'alleanza tra la malavita napoletana e gli insorti, evidenze che già si intravedevano nella Storia della camorra di Francesco Barbagallo edita da Laterza. Il 31 luglio 1860, il diplomatico inglese Henry George Elliot informa il Foreign Office «che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani rimasti fedeli alla dinastia borbonica, per presidiare il porto in modo da facilitare uno sbarco delle truppe piemontesi e per controllare le vie di accesso a Napoli al fine di rendere possibile l'ingresso dei volontari di Garibaldi». Allo stesso modo Londra sapeva quasi tutto dell'attività di quel Liborio Romano che assoldò quei malavitosi «liberali» di cui ha recentemente scritto Nico Perrone in L'inventore del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli.

In seguito alcuni uomini politici inglesi usarono parole di condanna per quel che era accaduto in quegli anni. Soprattutto dopo la «liberazione del Mezzogiorno». In Parlamento, il deputato conservatore Pope Hennessy aveva definito il tutto un «dirty affair» (sporco affare) e aveva denunciato «la furiosa repressione dell'armata sarda che si era macchiata di crimini contro l'umanità ben più efferati di quelli che l'opinione pubblica europea aveva imputato a Ferdinando II e al suo sventurato erede». Nella stessa sede George Cavendish-Bentinck aveva messo in evidenza quale errore fosse stato per il Regno Unito provocare quel grande incendio nell'Italia del Sud, in violazione di tutte le leggi internazionali. E uno dei più stretti collaboratori di Disraeli, Henry Lennox, aveva detto esplicitamente che sostituire il «dispotismo di un Borbone» con lo «pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele» era stato un grande sbaglio. Anche perché così «il Regno Unito aveva prostituito la sua politica estera appoggiando un'impresa illegittima e scellerata che aveva portato all'instaurazione di un vero e proprio regno del terrore».

Fu per queste vie, conclude Di Rienzo rievocando il successivo sprezzante diniego britannico alla richiesta italiana di istituire una colonia penale in un isolotto prospiciente la baia di Gaya, nel sultanato del Brunei, che l'Italia unita ereditò «quella stessa debolezza geopolitica che aveva accelerato, se non addirittura provocato, la fine del Regno delle Due Sicilie». Un destino che si sarebbe riflesso sul nostro Paese fino ai giorni nostri, «nel segno», è la conclusione di Eugenio Di Rienzo, «di un passato destinato a non passare».
Paolo Mieli

 
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IL FOTOGRAFO DEI BRIGANTI

Post n°2343 pubblicato il 19 Marzo 2015 da luger2
 
Foto di luger2

Il casertano Russi, fotografo di professione, servì l’esercito dal 1864 al 1870. Gli fu chiesto di riprendere i briganti nelle pose più svariate, ma anche di preparare bei ritratti di soldati e guardie nazionali. Bisognava far sapere fuori dalle zone infestate dalle bande che i ribelli erano rozzi criminali, violenti e crudeli. Che i soldati erano laggiù al servizio della civiltà, per assicurare il progresso e la vita delle persone per bene. Quale mezzo migliore della fotografia? Russi viene agevolato in ogni modo nel suo lavoro: mezzi di trasporto, segnalazioni in anteprima di imminenti arresti e fucilazioni. Documentò per tre volte i successi delle truppe di Pallavicini contro le bande Ciccone, Guerra, Fuoco e Giordano. Il generale che sconfisse definitivamente il brigantaggio utilizzava ogni moderno strumento per vincere la sua guerra. Anche le armi della propaganda. Era consapevole che la fotografia possedeva una sua forza deterrente e poteva valorizzare in maniera ineguagliata l’azione repressiva dei militari. (…)Russi, così come gli altri fotografi che lavoravano su incarico di prefetti e comandi militari, poteva riprendere non solo i briganti morti, ma anche quelli imprigionati in attesa di giudizio. Il loro lavoro, che doveva fissare la verità ufficiale di quella guerra, venne anche utilizzato per studi antropologici sulla natura e l’intelligenza di quei ribelli del Sud. Molte considerazioni «scientifiche» sulle tare ereditarie dei briganti, sulla loro predestinazione fisica alla crudeltà utilizzarono anche quelle immagini fotografiche riprese sul campo. Lo psichiatra Cesare Lombroso, insieme con il sociologo Alfredo Niceforo, scrisse a più riprese che «la ragione dell’inferiorità meridionale risiedeva in una costituzionale e irreparabile inferiorità razziale». [Nota nel testo originale: Pedio, Perché briganti]

[Gigi Di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia]

 
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Veronica, 27 anni, altra vittima della Terra dei Fuochi.

Post n°2342 pubblicato il 24 Novembre 2014 da luger2
 

GIUGLIANO - Aveva appena 27 anni, Veronica Carandente, giuglianese residente a piazza Trivio. A toglierle la vita un tumore che l’aveva costretta a due anni di agonia. Le esequie si sono tenute oggi nella chiesa di Santa Sofia, in piazza Matteotti. “Aveva voglia di vivere – ha dichiarato il prete durante la celebrazione del funerale – mi aveva confidato che se fosse sopravvissuta a questo male, sarebbe andata in Africa ad aiutare chi ha bisogno”.

Disperazione tra i familiari. Il padre di Veronica è un fabbro, la madre casalinga. Oltre ai genitori, lascia tre sorelle e un fratello. Veronica aveva scritto per loro una lettera per prepararli a questo triste giorno. Lei era impiegata in una fabbrica. Sconcerto anche tra gli amici, che quanto alle cause della tragedia non hanno dubbi: Veronica è morta per la Terra dei Fuochi, perché “a 27 anni è impossibile morire così”. Tantissimi gli attestati di cordoglio e di affetto anche sul profilo Facebook di Veronica.

“Dolcissima Veronica, – scrive Francesca –  resterai sempre nel mio cuore…e ricorderò sempre con amore quei giorni in cui mi aiutavi a riprendermi, in ospedale, nonostante la tua sofferenza. Io avevo bisogno di aiuto, ma mi sentivo piccola piccola di fronte alla forza con cui tu affrontavi la tua malattia e combattevi Ti voglio bene. Ora sei libera da ogni sofferenza, tra gli angeli…mi sento fortunata ad averti conosciuto” .”Ogni giorno venivo da te a salutarti… . scrive invece Manuela – e i tuoi occhi erano felici ogni volta che mi vedevi. Anche stamattina… Come tutte le mattina… Sono venuta da te a farti un ultimo saluto.”

veronica

“Non si può morire così giovani!” Chi pagherà per tutto questo dolore arrecato alle nostre popolazioni solo per gli sporchi interessi di pochi!

 
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Sant'Agata de' Goti: sui fusti la scritta 'Genklene'

Post n°2341 pubblicato il 12 Novembre 2014 da luger2
 

La nota ufficiale del Comando provinciale di Benevento della 'Forestale' a confermare quelle che sono le ormai drammatiche verità santagatesi. La terra saticulana è stata 'saziata' per anni di veleni "Grazie all’utilizzo del geomagnetometro gestito dal CFS e messo a disposizione dall’I.N.G.V - esordisce il comunicato - è stato possibile conferire concretizzazione alle informazioni confidenziali recepite dagli investigatori nelle prime fasi delle indagini, ove venivano raccolti diversi elementi che facessero ipotizzare il reiterato tombamento di rifiuti in precise aree del Sannio. Nel Comune di Sant'Agata de' Goti sono stati eseguiti puntuali sondaggi geologici in diversi terreni, molti dei quali coltivati con vasti frutteti e campi di erba medica.
 Infatti all'interno di un pescheto e di un meleto, le operazioni di scavo hanno riesumato numerosi fusti (molto probabilmente tossici) da 100 e 200 litri, sepolti a partire da una profondità di 3 metri circa e fino a 10 metri, molti dei quali seriamente danneggiati, con conseguente fuoriuscita dei materiali in essi contenuti. Su alcuni fusti è stato possibile (nonostatnte il decorso del tempo) leggere alcune etichettature; in particolare alcuni di essi recavano la scritta "Genklene", ovvero la denominazione piu conosciuta del "Tricloroetano", sostanza altamente nociva per l’ambiente e per la salute umana, utilizzato come solvente industriale e costituente la base di produzione di colle, inchiostri e D.D.T. Il Tricloroetano è stato bandito dal commercio nel 1996 con il protocollo di Montreal, in quanto ritenuto uno dei maggiori responsabili del buco dell’ozono. Ovviamente tali ipotesi dovranno trovare conferma nei campionamenti ed esiti analitici esiguiti in campo dal personale Arpac. Gli scavi sono stati effettuati fino ad una profondità di 40 mt, attraverso l’impiego di una trivella geologica fornita dal Comune di Sant’Agata de' Goti. In alcuni punti ed in particolare nella stessa area in cui sono stati rinvenuti i fusti tossici, la perforazione geologica ha permesso di intercettare a 25 metri una inequivocabile falda acquifera di risalita; pertanto anche in merito si resta in attesa di conoscere gli esiti dei campionamenti. Appare opportuno precisare - prosegue la Forestale - che le operazioni di rinvenimento di rifiuti tombati, sono state eseguite anche grazie alla fattiva collaborazione delle locali Stazioni forestali, dei comuni interessati alle aree sottoposte a sequestro (i quali hanno fornito la strumentazione tecnica per l’esecuzione dei sondaggi), dei tecnici dell’Arpac sino alla preziosa collaborazione fornita dal personale dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Le attività proseguiranno - la conclusione - ancora nei giorni successivi, al fine di far emergere in tutta la loro drammaticità ulteriori episodi di scempio ambientale, avverso i quali troppo spesso oramai il Corpo Forestale dello Stato è chiamato a contrastare, mediante l’impiego di conclamata esperienza in materia e la messa in campo di sofisticate e moderne attività info-investigative". Si ricorda come la velenosa gamma di rifiuti comprenda anche pezzi di carrozzeria, con tanto di oli esausti quale contorno, risultanze edilizie, materiale sanitario e rifiuti urbani.Chissa quali complicità sono sotto a quest'altri cumuli di monnezza!!
Sant'Agata de' Goti, proseguono gli scavi della Forestale: sotto il frutteto sepolti numerosi bidoni tossici

 
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SPEGNIAMO I FUOCHI DEL VELENO!

Post n°2340 pubblicato il 23 Ottobre 2014 da luger2
 

              Dopo le nuove promesse di risanamento del nostro territorio arrivate a seguito delle mobilitazioni dell’anno scorso, oggi, nella cosiddetta “terra dei fuochi” l'avvelenamento da roghi tossici ancora continua. Se non sono capaci di fermare i roghi quale credibilità possono avere nel parlare di bonifiche? Se la politica e le istituzioni non rispondono ai nostri appelli allora siamo noi a doverci mobilitare, in caso contrario è inutile lamentarsi!
Da anni i roghi tossici avvengono in modo sistematico, quotidiano, alla luce del sole e principalmente durante la notte. Tali pratiche illegali e dannose perpetrate per smaltire rifiuti pericolosi, tossici e nocivi o per recuperare da essi metalli da rivendere al mercato nero, si verificano intensamente nel territorio giuglianese, ma anche nelle periferie di numerosi altri Comuni della regione con maggiore frequenza tra le province di Napoli e Caserta. Sul blog di video-denuncia www.laterradeifuochi.it sono pubblicate migliaia di foto e video che giorno per giorno documentano lo scempio ambientale a cui tutti assistiamo inermi nella palese inadempienza delle Istituzioni preposte. Le conseguenze di questa pratica criminale incidono sulla qualità dell’ambiente e della salute di ognuno di noi. Ogni giorno, infatti, migliaia di famiglie respirano esalazioni che col tempo possono compromettere seriamente la loro salute, in particolare quella dei più piccoli. Questi fumi tossici mettono a rischio non solo la Salute Pubblica, ma anche l'Economia locale e l'Immagine di un'intera regione e con essa di tutto il Paese. Per dire basta ancora una volta a tutto questo Sabato 25 Ottobre a Napoli in Piazza Dante alle ore 16, per riportare fortemente il tema al centro del dibattito pubblico.
Per non dimenticare. Per continuare a impegnarci a fare ciascuno la propria parte. Tutta la cittadinanza è invitata a partecipare. 
#RoghiTossici continuano. Uniamoci per Spegnerli!  

                   


 
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“Pagavamo tutti, mai avuto un controllo”

Post n°2339 pubblicato il 25 Settembre 2014 da luger2
 

Quando aprimmo la cisterna il liquido bruciava ogni cosa, al contatto le plastiche friggevano. Abbiamo scaricato milioni di tonnellate di rifiuti tossici ovunque possibile. Non ho mai messo un telo di protezione, non ho mai avuto un controllo, pagavamo e vincevamo sempre noi”. Un racconto freddo, tanto chirurgico quanto inquietante. Poche parole: la fotografia del disastro di una terra. A parlare al Fatto Quotidiano è il pentito Gaetano Vassallo, ministro dei rifiuti del clan dei Casalesi, protagonista di quei traffici illeciti che, per anni, hanno trasformato aree della Campania in pattumiera del Paese. C’è un primo equivoco da chiarire e Vassallo aiuta a farlo: “Quando è arrivato il commissariato di governo per gestire l’emergenza rifiuti, nel 1994, la musica non è cambiata”. E ricorda: “Venne a parlarmi il boss Feliciano Mallardo e mi disse: ‘Cumpariè dobbiamo fare i lavori presso la discarica di Giugliano, volete lavorare?’; io rifiutai e scelsero un’altra ditta del clan”. Di imprenditoria criminale in imprenditoria criminale, una linea di continuità anche quando lo Stato si commissaria per escludere la camorra dal ciclo. Da metà anni 80 al 2005, vent’anni di veleni tossici disseminati ovunque e di gestione criminale del ciclo dei rifiuti urbani e industriali. Il ventre della terra ha digerito ogni cosa: fanghi industriali, ceneri degli inceneritori, residui farmaceutici, acidi, calce spenta, scarti di bonifica, veleni a milioni di tonnellate. In due decenni un fiume di pattume si è riversato nel cuore fertile della terra campana. Ma questa è la storia criminale di un ex agente dello Stato, ritrovatosi imprenditore in una terra senza legge, in un settore senza controllo, dove i soldi tracimavano a valle. Dal nulla diventato referente dell’imprenditoria affaristica per abbattere i costi di smaltimento degli scarti industriali del nord produttivo. Vassallo, con le sue dichiarazioni, consegnate ai pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Giovanni Conzo, Maria Cristina Ribera, Alessandro Milita – il pool coordinato dall’aggiunto Giuseppe Borrelli – descrive l’inferno, le coperture politiche, i rapporti con la massoneria di una cricca di imprenditori al soldo della camorra. Sei in: Il Fatto Quotidiano > Mafie > Rifiuti tossici...Rifiuti tossici, il pentito Vassallo: “Pagavamo tutti, mai avuto un controllo”"Quando aprimmo la cisterna il liquido bruciava ogni cosa, al contatto le plastiche friggevano". Così inizia il racconto del "ministro" della monnezza per i Casalesi. Il grande accusatore dell'ex viceministro Cosentino ricorda gli incontri con Craxi, accusa grandi imprese pubbliche come Enel e Italsider. E rivela una trattativa con gli 007 per arrestare Iovine e Zagaria. Andata a vuotodi Nello Trocchia | 23 settembre 2014Commenti (357)rifiuti tossiciPiù informazioni su: Casalesi, Gaetano Vassallo, Rifiuti Tossici.EmailQuando aprimmo la cisterna il liquido bruciava ogni cosa, al contatto le plastiche friggevano. Abbiamo scaricato milioni di tonnellate di rifiuti tossici ovunque possibile. Non ho mai messo un telo di protezione, non ho mai avuto un controllo, pagavamo e vincevamo sempre noi”. Un racconto freddo, tanto chirurgico quanto inquietante. Poche parole: la fotografia del disastro di una terra. A parlare al Fatto Quotidiano è il pentito Gaetano Vassallo, ministro dei rifiuti del clan dei Casalesi, protagonista di quei traffici illeciti che, per anni, hanno trasformato aree della Campania in pattumiera del Paese. C’è un primo equivoco da chiarire e Vassallo aiuta a farlo: “Quando è arrivato il commissariato di governo per gestire l’emergenza rifiuti, nel 1994, la musica non è cambiata”. E ricorda: “Venne a parlarmi il boss Feliciano Mallardo e mi disse: ‘Cumpariè dobbiamo fare i lavori presso la discarica di Giugliano, volete lavorare?’; io rifiutai e scelsero un’altra ditta del clan”. Di imprenditoria criminale in imprenditoria criminale, una linea di continuità anche quando lo Stato si commissaria per escludere la camorra dal ciclo. Da metà anni 80 al 2005, vent’anni di veleni tossici disseminati ovunque e di gestione criminale del ciclo dei rifiuti urbani e industriali. Il ventre della terra ha digerito ogni cosa: fanghi industriali, ceneri degli inceneritori, residui farmaceutici, acidi, calce spenta, scarti di bonifica, veleni a milioni di tonnellate. In due decenni un fiume di pattume si è riversato nel cuore fertile della terra campana. Ma questa è la storia criminale di un ex agente dello Stato, ritrovatosi imprenditore in una terra senza legge, in un settore senza controllo, dove i soldi tracimavano a valle. Dal nulla diventato referente dell’imprenditoria affaristica per abbattere i costi di smaltimento degli scarti industriali del nord produttivo. Vassallo, con le sue dichiarazioni, consegnate ai pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Giovanni Conzo, Maria Cristina Ribera, Alessandro Milita – il pool coordinato dall’aggiunto Giuseppe Borrelli – descrive l’inferno, le coperture politiche, i rapporti con la massoneria di una cricca di imprenditori al soldo della camorra.Vassallo è il grande accusatore di Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario all’Economia di Forza Italia, finito sotto processo per camorra, e di Luigi Cesaro, deputato di Forza Italia, destinatario di una misura cautelare, annullata dal Riesame. Incontriamo il pentito in carcere, accompagnato dall’avvocato Sabina Esposito. Il collaboratore sta scontando una condanna per l’affare Ce4, il consorzio di bacino che aveva come braccio imprenditoriale i fratelli Orsi, legati ai Casalesi, e referente politico Nicola Cosentino. E la politica piaceva tanto anche a Vassallo. “Io negli anni ottanta ero del partito socialista, facevo le riunioni con Giulio Di Donato, organizzavamo le campagne elettorali. Io, quando potevo finanziavo il Psi. Come imprenditore vicino al partito ho fatto anche incontri a Roma alla presenza di Bettino Craxi. Furono gli anni in cui conobbi Luigi Cesaro, Giggino ‘a purpetta. Eravamo della stessa corrente”. Finito il sogno socialista, Vassallo cambia bandiera: “Passo a Forza Italia, sono stato anche iscritto al partito, ho fatto tessere, sostenuto campagne elettorali, ma noi facevamo affari con tutti, destra e sinistra”. I partiti a Vassallo son sempre piaciuti, perché questa storia è anche e soprattutto la fotografia di un intreccio tra clan, impresa, professioni e mondo politico. Ma è un racconto che inizia da lontano. Vassallo si è deciso a parlare dopo aver ascoltato ex collaboratori e altre figure, raccontare questa storia per sentito dire infarcita di strafalcioni e false piste. “Io ho visto tutta la schifezza che abbiamo sputato nella terra. Una volta scaricammo fanghi, liquidi che erano scarti di lavorazione di un’industria farmaceutica. Poco dopo i ratti si sono estinti, sono spariti”. Immagini dall’orrore. Un’organizzazione criminale che ha risolto la crisi rifiuti toscana prima, della provincia di Roma poi e offerto soluzioni economiche alle imprese del nord, agli impianti che dovevano smaltire. Il capitalismo aveva trovato nell’imprenditoria di camorra lo sbocco per ridurre i costi di smaltimento del pattume industriale. A prezzo della salute di un popolo, in un’area quella di Giugliano, in provincia di Napoli, dove una perizia consegnata alla Procura, fissa per il 2064 la morte di ogni forma di vita. “Mi vergogno, avrei dovuto pentirmi prima”. Lo fa nell’aprile del 2008. “Avevo paura. Quando il killer Giuseppe Setola è uscito su Castel Volturno ha cominciato a fare i morti. Un componente del clan mi disse che non era controllabile. Così mi sono pentito. Non ce la facevo più. Ho cambiato vita, allo Stato ho consegnato tutte le mie ricchezze”. In quell’anno Setola e il suo gruppo di fuoco hanno ammazzato anche Michele Orsi, imprenditore che aveva iniziato a fare dichiarazioni ai pubblici ministeri, ma non era un pentito. “Sergio e Michele Orsi erano legati al clan. Prima dell’ omicidio di Michele avevo detto agli inquirenti che sia Sergio che Michele erano stati designati perché non avevano mantenuto gli accordi con la camorra. Il clan gli aveva fatto la cartella (aveva stabilito di doverli ammazzare, ndr). Dovevano morire e il clan mantiene gli impegni. Gli Orsi avevano tanti amici, funzionari, imprenditori, erano in rapporti anche con un magistrato”. Vassallo ricorda l’inizio di questo horror di distruzione, morte e terra stuprata. “Ha iniziato mio padre, non sapeva neanche scrivere. Le carte le compilavano gli amici sul comune. Teneva la cava di pozzolana, rimanevano grosse buche. Un conoscente gli ha suggerito di buttarci i rifiuti. In quel periodo io facevo l’agente di polizia penitenziaria, l’ausiliare, mi sono congedato nel 1980, l’anno della strage di Bologna. Tornai a casa”. “Dopo due anni fondai la prima società. Fino ad allora, abbiamo gestito appalti con gli enti pubblici per svariati milioni al mese senza partita iva, senza ditta, senza niente”. Le discariche, non solo la sua, venivano gestite così: “Non abbiamo mai messo un telo di protezione, il percolato finiva in falda, non c’era neanche una vasca di raccolta, bruciavamo i rifiuti per liberare spazio, facevamo quello che volevamo”. Il percolato, liquido inquinante, risultato della decomposizione dei rifiuti organici, inquina le falde, stupra la carne viva della terra. “Presto cominciammo anche con gli speciali, la Regione mi autorizzò allo smaltimento anche di quelli”. È l’inizio dell’eldorado quando la consorteria criminale scopre il business dei rifiuti dal nord, prima quelli dei Comuni, poi quelli industriali. La discarica di Vassallo, a Giugliano, Comune in provincia di Napoli,si trasforma in un girone dell’inferno così come gli altri buchi, nei dintorni, sotto l’egida assoluta dei clan. E i controlli? “Ci davano tutte le autorizzazioni di cui avevamo bisogno, chi doveva controllare era a nostro libro paga”. “In provincia le autorizzazioni le dava l’assessore Raffaele Perrone Capano dei liberali (arrestato nel 1993, condannato in primo grado, poi assolto per falso e prescritto per corruzione e abuso d’ufficio, dal 2001 è stato reintegrato come professore alla Federico II). Ci dava indicazioni che non rispettavamo mai. Io davo i soldi a Perrone Capano, i contributi per il suo partito. A volte li davo a lui, altre volte al suo autista”. “Io sono stato l’imprenditore dei rifiuti per conto di Francesco Bidognetti”. Gaetano Vassallo era il ministro dei rifiuti dei Casalesi, il responsabile degli scarichi tossici agli ordini di Bidognetti, Cicciotto ’e mezzanotte, il capo assoluto del clan, oggi rinchiuso al 41 bis. L’ex agente, diventato imprenditore, conosce la camorra in quegli anni di gloria. “La faccia della camorra l’ho conosciuta con Santo Flagiello, che faceva la latitanza a casa mia. Poi il primo incontro con il boss Francesco Bidognetti. Mi disse: ‘Tu mi rappresenti in questo affare’”. La struttura organizzativa era molto semplice. “C’erano le società commerciali che si occupavano dell’intermediazione e del trasporto tutte controllate da Gaetano Cerci, camorrista, nipote del boss Francesco Bidognetti, che aveva la società Ecologia 89. Poi c’erano tre imprenditori, io, Luca Avolio e Cipriano Chianese che avevamo le discariche”. I colletti bianchi dei Casalesi, proprio Gaetano Cerci è stato nuovamente arrestato qualche giorno fa con l’accusa di estorsione. Vassallo continua: “Utilizzavamo le certificazioni che avevamo, anche se le discariche erano esaurite. I rifiuti ufficialmente venivamo smaltiti nei nostri impianti, ma finivano nei campi, sotto la Nola-Villa Literno, nei terreni incolti, in altre cave. Tutto senza controllo”. La rete era estesa. Vassallo ricorda un’altra presenza costante in questo affare: la massoneria. “Gaetano Cerci andava a casa di Licio Gelli, mi spiegò che Gelli era un procacciatore di imprenditori del nord che potevano inviarci i rifiuti”. Nel 2006 la procura di Napoli chiese addirittura l’arresto di Licio Gelli, il gip Umberto Antico negò la misura. I pm scrivevano: “I rapporti preferenziali tra Gaetano Cerci e Licio Gelli appaiono poi assolutamente certi, essendo riferiti da Schiavone, De Simone, la Torre, Quadrano, Di Dona, sia de relato che per scienza diretta”. Ora arrivarono anche le parole di Vassallo, ma Gelli da quella indagine ne è uscito pulito. Un altro che conta era Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore, sotto processo per disastro ambientale e collusione con i clan. Chianese, nel 1994, si candidò con Forza Italia, ma non fu eletto. “Chianese è stato l’ideatore dell’organizzazione. Aveva conoscenze importanti, era amico di un generale dei carabinieri. A Chianese lo stato ha preso solo una parte dei beni, molti soldi li ha macchiati (nascosti, ndr)”. Il sistema rodato era soldi in cambio dell’appalto. A Vassallo chiediamo se negli anni di rapporto con i politici, tra mazzette e collusioni, ne ha mai trovato uno che si è opposto. “No, non ho visto nessuno opporsi”. E dal nord produttivo, dalle aziende del Paese arrivava di tutto. “Abbiamo scaricato le ceneri degli inceneritori del nord, gli scarti dell’Italsider di Taranto, la calce spenta dell’Enel di Brindisi e di Napoli, i fanghi industriali, gli scarti tossici proveniente dalla bonifica dell’Acna di Cengio, gli acidi, tonnellate di rifiuti dalle aziende del settentrione. Di certo posso dire: non abbiamo scaricato i rifiuti nucleari”. E cita le aziende come “i Bruscino che trasportavano gli scarti di lavorazione dell’Enel, la ditta Perna Ecologia”, un lungo elenco di aziende che hanno scaricato veleni per anni. Le imprese produttrici non si preoccupavano di dove andava, a prezzo stracciato, il loro pattume tossico. Contattavano gli intermediari, i trasportatori, e i carichi partivano. Quando gli chiedi l’ammontare dei rifiuti scaricati, Vassallo allarga le braccia e scuote la testa. Il principio ispiratore era uno soltanto: non si rischiavano niente in un Paese, l’Italia, dove a distanza di anni la maggior parte dei processi per delitti contro l’ambiente finisce in prescrizione. Basso rischio e palate di soldi. Vassallo spiega: “Io solo per il trasporto dei rifiuti dalla Toscana, andavo a prendere 700 milioni di lire al mese. In Campania guadagnavo 10 miliardi di lire ogni anno solo per l’affare dei rifiuti solidi urbani, raccolti nei comuni dell’hinterland”. Poi c’era il traffico dei rifiuti tossici, occultati sotto quelli domestici. “Un pozzo senza fine. Guadagnavo 5 milioni di lire a carico, al clan davo 10 lire al kg, ma li fottevo sul peso e sugli arrivi. Ogni giorno arrivavano anche 30 camion. Una cosa come 150 milioni di lire ogni santo giorno. Si iniziava a scaricare alle 4 del mattino, c’era una fila di camion dalla discarica fino alla strada”. Fotteva i clan Vassallo e, quando occorreva, usava le buche di Stato grazie a buoni amici. Vassallo ricorda quello che poteva diventare lo spartiacque, il momento di cesura di questo orrendo spartito criminale: il 1993. “Fummo arrestati tutti nell’inchiesta Adelphi proprio per i traffici di rifiuti . Io fui prosciolto, ma ero colpevole. Se fosse andato diversamente quel processo, la Campania si sarebbe risparmiata altri 15 anni di veleni”. E ricorda un particolare. “Venne un magistrato per chiedermi di collaborare. Il nostro accusatore era Nunzio Perrella, un boss di Napoli che si era pentito. Io ci pensai, ma poi in carcere ebbi un colloquio con mio padre”. E il padre gli portò i saluti dei Casalesi. “Mi disse che lo aveva avvicinato Francesco Bidognetti per rassicurarlo sulla copertura economica”. Tutto ricominciò. Dopo gli arresti arrivò lo Stato. “Noi ci dedicammo solo ai traffici di rifiuti industriali. Nel 1994 la gestione dei rifiuti solidi urbani viene affidata al commissariato di governo. Aveva l’obiettivo di avviare un ciclo di gestione ed estromettere la camorra dal pattume”. Non cambiò nulla, l’imprenditoria dei clan era l’unica a lavorare. “Il commissariato mi ha dato un paio di milioni di euro, loro ci lasciarono una parte della cava, dovevamo fare la messa in sicurezza, ma noi facevamo finta e continuavamo a scaricare”. Il business era redditizio. “Arrivavano le motrici con i fanghi che fintamente venivano trattati negli impianti di compostaggio dei fratelli Roma. Facemmo un macello, li abbiamo scaricati nei terreni dei contadini . A Lusciano, a Villa Literno, a Parete, a Casal di Principe. Poi dopo aver scaricato passavamo con il trattore per muovere la terra”. Con l’arrivo del commissariato, la camorra raddoppia. In particolare Vassallo ricorda: “Giuseppe Carandente Tartaglia, era emanazione, prima dei Mallardo e poi del boss Michele Zagaria. Me lo disse Raffaele ’o puffo, il figlio di Francesco Bidognetti. L’azienda di Carandente Tartaglia ha lavorato prima in sub-appalto per il consorzio Napoli 1 e dopo per Fibe (la società del gruppo Impregilo che aveva vinto l’appalto per la gestione dei rifiuti in Campania, ndr). Carandente Tartaglia si vantava di avere un rapporto da anni anche con un ingegnere importante di Fibe, al quale garantiva la copertura della camorra, ma non ricordo il nome”. Nel 2008 quelle sigle societarie, già operative nel ’95, realizzeranno la discarica di Chiaiano per conto del commissariato di governo. Sul ruolo nell’emergenza rifiuti di Antonio Iovine e Michele Zagaria, per 15 anni latitanti, e poi catturati, Vassallo non ha dubbi. “I terreni dove sono stoccate le balle di rifiuti (dalla Fibe grazie a un’ordinanza commissariale, ndr), sono di soggetti legati al boss Zagaria”. In questo cammino criminale, Vassallo è sempre stato in prima linea, prima come protagonista della mattanza ambientale, poi offrendo il supporto quando necessario ai fratelli Orsi nell’affare Ce4. Era nella cabina di regia con i boss di primo ordine. Così gli chiediamo di eventuali rapporti di Zagaria e Iovine con pezzi dello Stato. E lui racconta un particolare inedito che apre interrogativi. “Ho incontrato agenti dei servizi segreti nel periodo 2006-2007. Mi hanno contattato perché volevano arrestare Iovine e Zagaria. Un mio amico carabiniere di Roma venne da me insieme a due persone che presentò come agenti dei servizi. Ci sono stati tre incontri, due in un albergo e un altro all’uscita autostradale di Cassino. Potevo incontrare Iovine, ’o ninno, e Zagaria in qualsiasi momento. Li conoscevo, io ero imprenditore del clan. Il patto era di fargli arrestare i due latitanti in cambio di mezzo milione di euro, 200 mila euro per Iovine, 300 mila per Zagaria. Io chiesi anche la garanzia della libertà per me, ma non accettarono. L’accordo saltò”. Iovine, oggi collaboratore di giustizia, viene arrestato nel 2010, dopo 14 anni di latitanza, e Zagaria nel 2011, dopo 16 anni. Il racconto del pentito pone una domanda: si potevano arrestare prima? Gaetano Vassallo aspetta di uscire dal carcere per tornare alla sua nuova vita: dipendente di un supermercato. Mentre si alza ripensa alla mattanza ambientale. “Non si può fare niente. Io parlo dell’area dove smaltivamo io e Chianese. È impossibile bonificare”. È una peste, un inferno senza fine.

Da Il Fatto Quotidiano del 23 settembre 2014

 
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Fuga dal Sud, in dieci anni persi oltre 400 mila abitanti

Post n°2338 pubblicato il 31 Agosto 2014 da luger2
 

Un calo demografico che preoccupa: in dieci anni gliabitanti dei Comuni del Sud sono diminuiti di 420mila unità. E dal Mezzogiornosi fugge per la mancanza di lavoro. È quanto evidenzia la Svimez sulla base didati Istat, e contenuti nel numero monografico della Rivista economica delMezzogiorno, presentato a Napoli.  Al Centro-Nord, dati alla mano, nello stesso periodo la popolazione è cresciutadel 6,8% e la Svimez lancia la necessità di predisporre un piano di primo intervento e rigenerazione urbana come driver di sviluppo. In base ai dati SVIMEZ, il 64% dei cittadini meridionali, oltre due su tre, che nel 2011 hanno lasciato il Mezzogiorno per una regione del Centro-Nord aveva un titolo di studio medio-alto, diploma o laurea. Il Sud continua quindia sostenere i costi del suo capitale umano qualificato ma a impoverirsi esportandolo in senso univoco, cioè senza ritorno. E le rimesse di un tempo chei lavoratori meridionali al Nord mandavano a Sud oggi non ci sono più, anzi:pare che viaggino nella direzione opposta. Visto che la crescita prevista per il 2014 non presenta segnali incoraggianti, attendiamo dal nuovo Governo misure decisamente robuste per tamponare questa deriva”. È quanto ha affermato il Presidente della Svimez Adriano Giannola nella sua relazione al convegno internazionale “La nuova emigrazione italiana” che si è svolto all’Università Ca’ Foscari di Venezia. “Di fronte agli ultimi dati ISTAT di un’ulteriore perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in Italia dall’anno scorso, ha continuato il presidente, la crisi sembra alimentare le diseguaglianze territoriali, come dimostrano i dati SVIMEZ sulla povertà. Dividendo 100 famiglie meridionali in cinque classi da 20 l’una dalle più ricche alle più povere, emerge che il 62% delle famiglie meridionali, cioè due su tre, appartengono alle classi più povere.

In questo quadro, dal punto di vista demografico, si conferma con sempre maggiore evidenza come il Mezzogiorno abbia perso il tradizionale ruolo di bacino di crescita dell’Italia. Anzi: da qui ai prossimi 50 anni stimiamo di perdere ancora 4,2 milioni di abitanti rispetto all’incremento di 4,5 milioni al Centro-Nord: nonostante il positivo incremento degli immigrati la tendenza che si prospetta è un anziano ogni tre abitanti, e una sostanziale parità tra le persone in età lavorativa e quelle troppo anziane o troppo giovani per farlo, con conseguenti problemi di welfare e di sostenibilità del sistema

Nel 2013 il tasso di occupazione del Mezzogiorno si è fermato al 42% contro il 63% del Centro-Nord; a livello di aree urbane, la provincia di Milano arriva al 66,5%, Torino al 62%, Roma al 59%; al Sud invece Bari supera la media meridionale con il 45%, mentre Palermo e Napoli si attestano rispettivamente al 37% e al 36%. Ancora più bassa l’occupazione femminile: se a Milano sono occupate due donne su tre, con un tasso dioccupazione del 61%, a Napoli e a Palermo i numeri si invertono: solo una su quattro e’ occupata, pari al 25% (media Mezzogiorno 30%). Penalizzati anche i giovani: se nel 2013 gli under 34 occupati al Centro-Nord sono il 48%, a Bari sono il 32%, a Palermo il 23% e a Napoli soltanto il 22%. Impressionanti anche i numeri della disoccupazione: i giovani under 34 disoccupati sono a Bari il 33%, a Palermo il 38% e a Napoli addirittura il 44%.  ”In dieci anni, in base ai dati disponibili dall’ultimo censimento – ha detto Riccardo Padovani, direttore di Svimez - i Comuni del Mezzogiorno con popolazione superiore a 150mila abitanti hanno perso oltre 420mila abitanti, pari a un crollo quasi del 13%, Napoli ha perso 42mila abitanti, Palermo 29mila; nello stesso periodo i comuni del Centro-Nord sono cresciutidi oltre 530mila unità, con un incremento del 6,8%”.  Per questo secondo la Svimez è urgente un”piano strategico nazionale e meridionale di primo intervento” che punti sullarigenerazione urbana per trasformare il degrado a cui stanno andando incontro le città meridionali in un’opportunità di sviluppo e di ripresa della crescita. Per Francesco Tuccillo, presidente dell’Acen, Associazione costruttori edili di Napoli, ”per rendere la città più moderna e competitiva è necessario puntare sulla riqualificazione urbana di vaste aree del nostro territorio”. ”In questo senso, mentre la filosofia del Piano Regolatore Generale sembra andare incontro alle esigenze di rigenerazionee della riqualificazione della città – ha concluso – le norme attuative da una partee la troppa la burocrazia dall’altro, ne frenano la completa realizzazione”.

 
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Bankitalia certifica il saccheggio post-unitario delle industrie meridionali

Post n°2337 pubblicato il 28 Agosto 2014 da luger2
 

“Abbiamo sempre avuto ragione”, penseranno i meridionalisti. Il Mezzogiorno d’Italia è stato fortemente danneggiato e depauperato delle sue ricchezze a causa delle vicende storiche legate all’Unità d’Italia. A sostenerlo persone qualificate, professori, che certificano carte alla mano quanto per decenni gran parte del Sud ha ribadito con forza. Uno studio pubblicato nel 2010 da Bankitalia – non una sprovveduta insomma – a firma di Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli docenti di Economia all’Università di Tor Vergata, certifica la condizione di inferiorità in cui è piombato il Meridione dopo il 1861. Dati, numeri, statistiche che confermano quanto sia andato a rilento il processo di industrializzazione da Roma in giù, inversamente proporzionale a quanto registratosi al Nord. Per farlo, i ricercatori romani hanno analizzato gli anni 1871, 1881, 1901 e 1911. Comparando la produzione industriale provincia per provincia nelle 5 diverse date post unitarie, è emerso che “l’arretratezza industriale del Sud, evidente già all’inizio della prima guerra mondiale non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria – si legge nel documento – ma dall’esame disaggregato di 69 province si rafforza le principali ipotesi revisioniste suggerite dai dati regionali”. Perché? Beh, nel 1871 il tasso d’industrializzazione del Piemonte era dell’1.13%, in Lombardia del 1,37% e in Campania si attestava all’ 1.01% ( più o meno omogenee alle altre Regioni meridionali ) nonostante il già avviato processo di ‘distruzione’ dell’opificio di Petrarsa e di Mongiana in Calabria. Quarant’anni dopo, nel 1911, i numeri del Sud Italia registrano un drammatico e clamoroso segno meno. Mentre l’indice di industrializzazione del Piemonte salì all’1.30% quello della Campania era sceso a 0.93%, con Napoli all’1.32%. La Lombardia era arrivata all’1.67%, la Liguria all’1.62%, mentre la Sicilia era crollata allo 0.65%, la Puglia allo 0.62%, la Calabria allo 0.58%, la Basilicata allo 0.51%. Insomma, altro che nostalgia e fanatici del regno. L’Italia unificata ha portato solo fame e carestia al Sud, dando vita alla questione meridionale che, altrimenti, non sarebbe mai esistita. Basta far parlare i numeri per credere.                      tratto da www.retenews24.it/

 
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Allarme tumori nel Parco del Vesuvio Dati choc: «Malati in 2 famiglie su 3»

Post n°2336 pubblicato il 14 Giugno 2014 da luger2
 

 Due famiglie su tre nella parte alta di Ercolano hanno, o hanno avuto, congiunti colpiti da gravi patologie: in prevalenza, leucemia e tumori dell’apparato respiratorio. È il dato sconcertante dell’indagine realizzata dal Gruppo Salute Ambiente Vesuvio, coordinata dal professore Gerardo Ciannella, direttore dell’Unità di Medicina Preventiva dell’ospedale Monaldi    e docente di Tisiologia e Medicina del Lavoro.
Negli anni ’80 e ’90, le cave della zona di SanVito sono state utilizzate – più o meno legalmente – come discarica. Oltre ai compattatori della Nettezza Urbana, in molti all’epoca denunciarono la presenza di camion con targhe provenienti anche dal Nord Italia, che sversavano rifiuti speciali. A fine 2013, furono somministrati a 314 famiglie della zona di SanVito, in pieno Parco Nazionale del Vesuvio, dei questionari in cui segnalare la presenza di malattie importanti tra i componenti della famiglia. Il quadro che emerge è tutt’altro che rassicurante: in 203 casi su 314 sono state segnalate gravi patologie. Per la precisione 50 casi di leucemia, 62 neoplasie respiratorie (di cui solo 28 a carico di fumatori), 27 dell’apparato digerente,23 urinarie, 17 cerebrali, 14 mammarie, 4 casi di Sla e 6 tumori che hanno colpito altri apparati.
Considerato che nella zona risiedono poco più di 5mila abitanti, e che i questionari hanno raggiunto 1100 persone, l’indagine ha coinvolto il 20% della popolazione: «Il dato non è esaustivo, ma significativo:più della metà del territorio è ammalato – commenta il professore Ciannella -.In un campione del genere, la concentrazione di leucemie e neoplasie è preoccupante: in 62 famiglie sulle 314 interpellate, sono stati registrati casi di mesotelioma, un tumore incurabile dell’apparato respiratorio correlato all’esposizione all’amianto. Si tratta di persone non sottoposte a rischi professionali, ma che hanno inconsapevolmente respirato le fibrille provocate dalla rottura o dalla combustione delle lastre di ethernit».
I dati di San Vito, verranno resi noti nei prossimi mesi in una pubblicazione scientifica curata da Ciannella. Che intanto lancia l’allarme: «Occorre monitorare immediatamente e in maniera meticolosa acqua, aria e terreni – dice il direttore della Medicina di Prevenzione del Monaldi -. Ci sono tumori che non si possono curare, ma si possono prevenire eliminandone le cause, ed è quello che qui va fatto subito».
La ricerca di Ciannella ad Ercolano venne richiesta tre anni fa, quando don Marco Ricci e padre Giorgio Pisano sirecarono dal professore per esporre la situazione di San Vito: «Non ho mai celebrato tanti funerali di bambini come quando ero in questa zona – ammette don Marco, parroco del Sacro Cuore dal 1999 al 2010 -. Capimmo che non poteva essere normale e ci rivolgemmo al Monaldi. Ora che abbiamo anche la certezza dei dati scientifici, diventa ancora più urgente che i politici di ogni livello si assumano la responsabilità di bonificare questa zona. Non è il problema di un quartiere, ma di un’intera città: San Vito è Ercolano, mangiamo le stesse cose, beviamo la stessa acqua e respiriamo la stessa aria, quindi è giunto il momento che tutti aprano gli occhi su questa vicenda».

 
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QUANDO LA LEGGE CONTRO LA CORRUZIONE LA FACEVANO I RETROGRADI BORBONE NEL LONTANO 1832!

Post n°2335 pubblicato il 11 Giugno 2014 da luger2
 

"Dopo lo scandalo veneziano, il governo intende reagire affidando già nel consiglio dei ministri nuovi poteri al commissario anticorruzione, Raffaele Cantone - Sul piano normativo, l'Esecutivo sta valutando un nuovo ddl anticorruzione da presentare in Senato: sarà approvato dal consiglio dei ministri per la metà del mese, si parla del 13 giugno 2014."

(N° 1163.) Decreto che vieta agli impiegati delle regie amministrazioni d' accettar sotto qualsivoglia pretesto retribuzioni da’ particolari nello adempimento nello adempimento dei proprj doveri.

Napoli, 4 Ottobre 1832.

FERDINANDO II. PER LA GRAZIA DI DIO RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, DI GERUSALEMME ec. DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO ec. ec.
GRAN PRINCIPE EREDITARIO DI TOSCANA ec. ec. ec.

Avendo avuto con nostro sensibile rincrescimento
occasion di conoscere che in diverse officine delle
amministrazioni regie taluni impiegati subalterni che
ne fanno parte si permettono esigere delle regalie
da coloro che in esse si recano per propri affari, o
vengono pe’ rispttivi rami eletti ad impieghi, o promossi; 
E volendo che si tolga questo indecoroso abuso
che, gravitando sul Pubblico, degrada nel tempo
stesso l’opinione di coloro che hanno l’onor di ser-
vire nelle regie officine; 
Sulla proposizione del nostro Consigliere Ministo
di Stato Presidente del consiglio de Ministri;
- Abbiamo risoluto di decretare, e decretiamo
quanto segue;
- Art. 1. È espressamente vietato ad impiegato di                 qualunque ramo delle nostre regie amministrazioni di‘          accettare sotto qualsivoglia pretesto la
minima" retribuzione da' particolarì, su per disbrigo
di affari, sia per maneggi diretti ad ottenene inipieghi 
o promozioni, sia per tutt' altro di tal natura.
2. I contravventori saranno puniti colla sospensione                         di soldo e d’ impiego per le prime mancanze
nelle dette materie, e colla destituzione ne’ casi di‘
recidiva.

 
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SOTTO IL SEGNO DEI BORBONE: STORIA DI UN GRANDE REGNO DI MARIA LOMBARDO.

Post n°2334 pubblicato il 28 Maggio 2014 da luger2
 

Atteso con impazienza da molti lettori, è uscito con i tipi della Casa Editrice Bonfirraro di Barrafranca il primo lavoro in chiave storica di Maria Lombardo. Giovane Storica e Giornalista che  dopo anni di ricerche sul campo con questo lavoro scritto in 110 pagine, si discosta pienamente dalla Storiografia ufficiale. Laureata col massimo dei voti all'Università degli Studi di Messina non è la prima volta che si cimenta nelle ricerche Napolitane, già scrittrice di una tesi di laurea che discorreva di Regno di Napoli nel '700. Fresca di laurea inizia numerosissime collaborazioni con blog e siti storici in cui tutt'ora scrive avendo all'attivo più di 200 articoli, e oltre 10 presenze a convegni e tavole di studi.

                                          Lottando accanitamente per difendere le proprie tesi pone al lettore con questo libro tutte le nozioni corredate di note e accurata bibliografia sulla “Questio” Due Sicilie. In 5 capitoli racconta la storia  del Reame Duosiciliano dal 1816 data in cui l'antico Re Borbone viene Restaurato col nome di Ferdinando I, fino alla caduta  del “Bel Reame” avvenuta nel 1861 dopo una ultra millenaria storia di Unità. Passando a rassegna così le figure dei vari Sovrani che attraverso lotte di potere e Sovrani Illuminati incarnati nelle figura di Ferdinando II seppero concedere al paese grande risonanza.      Non a caso nel corso della lettura dell'opera è possibile leggere dei rigogliosi frutti che specialmente l'amato Ferdinando II seppe donare alla Nazione sia nella tecnologia che nell'ars medica, in cui le Due Sicilie seppero fare scuola agli staterelli sul suolo Italico. Palese e chiara la frase dell'autrice che dedica un capitolo intero all'ars medica ed alla scienza sotto i Borbone la stessa dice: ”I Borbone governarono in un periodo relativamente fecondo per le conoscenze medico-scientifiche: infatti dall’empirismo e dalla osservazione Cotugnana si transitò alle soglie della modernità per la medicina come professione, che per convenzione è fissata agli inizi dell’Ottocento.” Di nutrito interesse risulta ancora nel corso della lettura la conditio economica e politica della Calabria Borbonica, nel quale è possibile studiare la conformazione economica delle Calabrie. Le descrizioni che l'autrice fa dei vari opifici Calabresi danno uno spaccato diverso dalle tradizionali fonti. L'attività siderurgica fiore all'occhiello tra cui degni di nota l'Opificio di Mongiana, l'Opificio di Stilo, la Ferdinandea ed infine la Razzona ubicata nelle Serre Catanzaresi ed appartenuta a Don Carlo Filangeri (imprenditore e noto militare Napoletano). E' possibile citare ancora l'arte dei tessuti cotone in Calabria Citra e seta in quella Ultra, saponifici, pastifici, piccole aziende artigianale enormi scuole di ferraioli nel comprensorio di Serra San Bruno lavoravano circa 100 ferraioli. Saline e industria conciaria proprio nel Monteleonese, ancora, pesca che risultò fiorente a Pizzo e Bagnara e moltissime altre realtà tutte citate e ben studiate dall'autrice. Non mancano le citazioni dell'autrice all'ars medica calabrese ancora poco conosciuta passando a rassegna la figura di Domenico Tarsitani: ”La Calabria Borbonica inoltre si distinse sul piano della medicinacon la figura di Domenico Tarsitani. Egli nacque a Cittanova provincia di Reggio Calabria, cittadina che si trova quasi ai piedi dell’Aspromonte, il 18 agosto 1817 a pochi anni di distanza del ritorno del legittimo Re sul trono delle Due Sicilie” una brillante carriera tra Napoli e la Sorbona che gli conferirono la scoperta del forcipe a doppio perno, utilizzato in ostetricia. Non poteva mancare il periodo cruciale per il Reame delle Due Sicilie il Brigantaggio e le aspre “lotte” intrise di nefandezze e caricate dalla legge Pica che videro in circa 10 anni versare fiumi di sangue meridionale.

 Paolo Barbalace.

 
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