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I vantaggi dell'unità d'Italia

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Messaggi di Maggio 2014

SOTTO IL SEGNO DEI BORBONE: STORIA DI UN GRANDE REGNO DI MARIA LOMBARDO.

Post n°2334 pubblicato il 28 Maggio 2014 da luger2
 

Atteso con impazienza da molti lettori, è uscito con i tipi della Casa Editrice Bonfirraro di Barrafranca il primo lavoro in chiave storica di Maria Lombardo. Giovane Storica e Giornalista che  dopo anni di ricerche sul campo con questo lavoro scritto in 110 pagine, si discosta pienamente dalla Storiografia ufficiale. Laureata col massimo dei voti all'Università degli Studi di Messina non è la prima volta che si cimenta nelle ricerche Napolitane, già scrittrice di una tesi di laurea che discorreva di Regno di Napoli nel '700. Fresca di laurea inizia numerosissime collaborazioni con blog e siti storici in cui tutt'ora scrive avendo all'attivo più di 200 articoli, e oltre 10 presenze a convegni e tavole di studi.

                                          Lottando accanitamente per difendere le proprie tesi pone al lettore con questo libro tutte le nozioni corredate di note e accurata bibliografia sulla “Questio” Due Sicilie. In 5 capitoli racconta la storia  del Reame Duosiciliano dal 1816 data in cui l'antico Re Borbone viene Restaurato col nome di Ferdinando I, fino alla caduta  del “Bel Reame” avvenuta nel 1861 dopo una ultra millenaria storia di Unità. Passando a rassegna così le figure dei vari Sovrani che attraverso lotte di potere e Sovrani Illuminati incarnati nelle figura di Ferdinando II seppero concedere al paese grande risonanza.      Non a caso nel corso della lettura dell'opera è possibile leggere dei rigogliosi frutti che specialmente l'amato Ferdinando II seppe donare alla Nazione sia nella tecnologia che nell'ars medica, in cui le Due Sicilie seppero fare scuola agli staterelli sul suolo Italico. Palese e chiara la frase dell'autrice che dedica un capitolo intero all'ars medica ed alla scienza sotto i Borbone la stessa dice: ”I Borbone governarono in un periodo relativamente fecondo per le conoscenze medico-scientifiche: infatti dall’empirismo e dalla osservazione Cotugnana si transitò alle soglie della modernità per la medicina come professione, che per convenzione è fissata agli inizi dell’Ottocento.” Di nutrito interesse risulta ancora nel corso della lettura la conditio economica e politica della Calabria Borbonica, nel quale è possibile studiare la conformazione economica delle Calabrie. Le descrizioni che l'autrice fa dei vari opifici Calabresi danno uno spaccato diverso dalle tradizionali fonti. L'attività siderurgica fiore all'occhiello tra cui degni di nota l'Opificio di Mongiana, l'Opificio di Stilo, la Ferdinandea ed infine la Razzona ubicata nelle Serre Catanzaresi ed appartenuta a Don Carlo Filangeri (imprenditore e noto militare Napoletano). E' possibile citare ancora l'arte dei tessuti cotone in Calabria Citra e seta in quella Ultra, saponifici, pastifici, piccole aziende artigianale enormi scuole di ferraioli nel comprensorio di Serra San Bruno lavoravano circa 100 ferraioli. Saline e industria conciaria proprio nel Monteleonese, ancora, pesca che risultò fiorente a Pizzo e Bagnara e moltissime altre realtà tutte citate e ben studiate dall'autrice. Non mancano le citazioni dell'autrice all'ars medica calabrese ancora poco conosciuta passando a rassegna la figura di Domenico Tarsitani: ”La Calabria Borbonica inoltre si distinse sul piano della medicinacon la figura di Domenico Tarsitani. Egli nacque a Cittanova provincia di Reggio Calabria, cittadina che si trova quasi ai piedi dell’Aspromonte, il 18 agosto 1817 a pochi anni di distanza del ritorno del legittimo Re sul trono delle Due Sicilie” una brillante carriera tra Napoli e la Sorbona che gli conferirono la scoperta del forcipe a doppio perno, utilizzato in ostetricia. Non poteva mancare il periodo cruciale per il Reame delle Due Sicilie il Brigantaggio e le aspre “lotte” intrise di nefandezze e caricate dalla legge Pica che videro in circa 10 anni versare fiumi di sangue meridionale.

 Paolo Barbalace.

 
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Smascherato lo Stato taliano come Stato criminale!

Post n°2333 pubblicato il 23 Maggio 2014 da luger2
 

Già una ventina d’anni fa lo Stato italiano era stato messo al corrente in dettaglio che era in atto un massiccio inquinamento criminale delle terre meridionali fino allora mondialmente invidiate per la loro salubrità e fertilità.

Inquinamento realizzato scaricandovi e seppellendovi sistematicamente rifiuti tossici di ogni genere in enorme quantità provenienti da Nord Italia, Germania, Austria ed altri paesi d’ Europa

E chi aveva provveduto a mettere al corrente in dettaglio della faccenda  lo Stato italiano e le sue più importanti “autorità” ?

Proprio dei capi della vituperata camorra !

Costoro infatti in un primo tempo avevano collaborato a “sistemare” quei rifiuti nelle loro zone, poiché ciò apportava loro lauti introiti finanziari

In seguito però, resisi conto di che genere erano quei rifiuti e dei danni atroci che arrecavano a quelle terre e ai loro abitanti, alcuni di questi capi avevano ritenuto di “pentirsi”, dettagliando allo Stato (attraverso i suoi più specifici rappresentanti : magistrati, commissioni antimafia e così via)  i  luoghi, i contenuti, gli autori e le provenienze di quei rifiuti mortali.

A questo punto lo Stato italiano aveva il dovere assoluto di intervenire immediatamente per porre fine a quello scempio, avendone tutte le necessarie informazioni nonché tutti i mezzi (magistratura, polizia, carabinieri, esercito e così via).

E invece che fece? Semplicemente nulla, per cui quell’invasione di rifiuti tossici poté continuare indisturbata ed anzi aumentare in modo esponenziale, essendo pienamente coperta da questo Stato criminale cosiddetto italiano.

E non c’è da sorprendersi poiché questo Stato vi era in realtà strettamente implicato, avendola esso stesso freddamente e “lucidamente” architettato, rientrando in pieno nella linea criminale atta a distruggere sistematicamente il Sud e la sua popolazione che questo Stato perpetra fin dalla cosiddetta “unità”, cioè da ben 152 anni…

E le conseguenze sono state triplicazione de  tumori fra la popolazione, aumento di malformazioni genetiche nei neonati, distruzione di terreni particolarmente fertili, territori già rinomati per la loro salubrità resi invivibili…

Sennonché stavolta la faccenda, data la sua particolare atrocità, è scoppiata fra le mani, a questo Stato…

Poiché proprio quegli stessi capi della camorra che a suo tempo lo avevano invano messo al corrente affinché intervenisse in urgenza, hanno deciso recentemente di denunciare la faccenda pubblicamente e in dettaglio… addirittura per televisione.

Quelle dichiarazioni davvero interessanti…

Si tratta in particolare di Carmine Schiavone, il quale ha fatto dichiarazioni non poco interessanti… Per esempio:

“Ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si ribellava… quando hanno iniziato ad avvelenare dei territori interi scaricando rifiuti tossici…

 “Scorie, fanghi termonucleari… a Casale, Castelvolturno, Santa Maria la Fossa, Grazzanise, in tutta la zona… ammazzando i bambini prima che nascessero, o anche se nascevano erano condannati

 Diedi alle commissioni antimafia tutti i documenti… indicai perfino le targhe dei camion che scaricavano le scorie, le società che li mandavano…

“Speravo che qualcosa si muovesse… che si facesse giustizia…

 “Ma non c’era una giustizia in Italia.. non c’è un politico che sappia vedere queste cose.

“Ministri, magistrati, carabinieri hanno permesso questo… polizia, carabinieri, guardie di finanza “non vedevano” quel che succedeva apertamente davanti ai loro occhi…

“Ho cercato di impedire tutto questo… ma le  istituzioni ci hanno abbandonato”.

Ed a questo intervento di Schiavone ne è seguito uno di Gaetano Vassallo, altro capo camorrista che ha aggiunto altri dettagli.

Dichiarazioni di Schiavone e Vassallo che nessuna “autorità” italiana è stata in grado di smentire, poiché evidentemente ben documentate, sicché hanno suscitato nel Sud una massiccia reazione popolare contro questa atroce situazione.

Una manipolazione sfrontata

E allora che ha fatto lo Stato cosiddetto italiano ?

Ha cercato disperatamente di sviare l’attenzione dal proprio comportamento criminoso, tentando di scaricare ogni responsabilità proprio sulla camorra benché fossero stati quei suoi capi a denunciargli in tempo – Schiavone ben 20 anni fa ! – quegli scempi,  spingendolo invano ad intervenire…

E così si deve assistere a massicce campagne mediatiche contro la camorra, additata come causa di quella strage, evitando con cura di dire che in realtà la causa fondamentale era proprio lo Stato italiano col suo sistematico e  “lucido” comportamento criminale.

Un un prete, Maurizio Patriciello, a Caivano si è messo alla testa della gente indignata che protesta massicciamente per le strade, ma alla fine non ha saputo far altro che cercare di convincer quella gente a implorare l’intervento proprio di quello Stato che ha causato il disastro!

E in questa manipolazione si è cercato di coinvolgere perfino la nazionale di calcio italiana, facendole effettuare un allenamento a Quarto, cittadina nei presso di Napoli, in un campo sportivo che era stato sequestrato alla camorra, tentando di presentare ciò come un’azione simbolica della nazionale contro la camorra…

Sennonché gli organizzatori di questa farsa si sono ritrovati con una brusca messa a punto del campione Mario Ballotelli il quale, avendo evidentemente capito tutto, ha tenuto a dichiarare che lui andava a quell’allenamento per giocare al calcio e non certo a fare il simbolo anti-camorra…

Denunciare internazionalmente questo Stato criminale italiano da cui il Sud è urgente si distacchi

Ebbene, stando così le cose, diventa imperativo ed urgente che questo Stato italiano sia denunciato urbi et orbi (presso tutte le istanze internazionali e tutti i governi europei e in genere occidentali) come Stato criminale, sicché per i territori meridionali non c’è che esigere di distaccarsene con urgenza.

Tanto più che questo scempio non è che l’estremo, definitivo atto di un disastro che questo Stato perpetra ai danni del Sud da ben 152 anni, cioè precisamente dall’atto di quella cosiddetta “unita” che gli storici hanno ormai smascherato come un autentico crimine contro l’umanità, perpetrato contro un popolo che da tremila anni ha contribuito all’80 % all’evoluzione della civiltà.

Denuncia internazionale che sta mettendo a punto un gruppo operativo che fa capo a Stefano Surace, il giornalista d’inchieste e maestro di Arti Marziali di rinomanza mondiale, celebre per le sue battaglie “impossibili” ma sempre vincenti, nonché presidente del Partito Secessionista dell’Italia Meridionale.

Affare da seguire…

Tratto da http://www.sfogliando.it/category/politica/

 
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PIETRARSA LA STRAGE DEGLI OPERAI DIMENTICATA

Post n°2332 pubblicato il 01 Maggio 2014 da luger2
 

Questo è un altro primo maggio. Una pagina rimossa della nostra storia nazionale. È la storia di quattro operai uccisi da baionette e spari di bersaglieri, la storia di una protesta, di molto precedente agli scioperi degli anni successivi al Nord. Una storia in un’Italia unita ancora in fasce. È la storia di Pietrarsa e dei primi operai morti nel nostro Paese durante una manifestazione. Fu 150 anni fa: il 6 agosto del 1863. Si dice Pietrarsa e si ricorda un grande stabilimento, voluto da Ferdinando II di Borbone nel 1830. L’area è tra Portici, San Giorgio a Cremano e il quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio. Era regno delle Due Sicilie, protezionismo doganale, attività industriali estranee a logiche di mercato e concorrenza selvaggia. Pietrarsa, azienda di Stato, fu voluta dal re «perché del braccio straniero a fabbricare le macchine, mosse dal vapore il Regno delle Due Sicilie più non abbisognasse». 
Nel 1843, lo stabilimento produceva locomotive e riparava materiale ferroviario. Quando, nel 1845, a Napoli arrivò in visita lo zar Nicola I di Russia, visitò lo stabilimento e chiese una pianta per realizzare una fabbrica simile a Kronstadt. Nel 1847, gli operai erano 500. Lavoro sicuro, in monopolio e per lo Stato. Una struttura modello, con officina per le locomotive, grandi gru, fonderia, reparto lavorazione caldaie, fucineria, magazzini, biblioteca. 
Fu il 1853 l’anno di maggiore sviluppo del primo nucleo industriale d’Italia: 44 anni prima della Breda e 57 anni prima della Fiat. Al lavoro, 700 operai. Poi, l’Italia divenne unita. Pietrarsa poteva diventare occasione di sviluppo per le regioni meridionali, ma le scelte furono diverse. Il governo Rattazzi doveva prendere le prime decisioni di politica industriale del nuovo regno. Nella siderurgia, oltre Pietrarsa il nuovo regno aveva l’Ansaldo a Genova: quale conservare come industria di Stato? La scelta fu affidata ad una relazione, che doveva preparare l’ingegnere 44enne, originario di Nizza, Sebastiano Grandis. 
Direttore del sistema ferroviario piemontese, aveva gestito il trasferimento delle truppe sui treni nella seconda guerra d’indipendenza. La sua relazione fu consegnata il 15 luglio del 1861, quattro mesi dopo l’unificazione. L’ingegnere, che sarà poi ricordato per il progetto del traforo del Frejus, concluse che i due impianti erano della stessa importanza, con Pietrarsa più ricco di macchinari e di ampi fabbricati. La scelta, però, cadde sull’Ansaldo perché ritenuto impianto «più flessibile per futuri ampliamenti». Condizione ritenuta fondamentale per potenziare il sistema ferroviario italiano. Una scelta politica che, per risparmi di costi, avrebbe comunque favorito gli investimenti ferroviari nel centro-nord. 
L’impianto di Pietrarsa veniva definito costoso e con personale eccessivo. Fu la condanna inesorabile per le ambizioni di Pietrarsa. Lo Stato italiano decise una veloce dismissione. E conveniente per il privato che si accaparrò tutto il blocco per un canone di appena 46mila lire annue: Jacopo Bozza. Per risparmiare, chiuse la scuola d’arte per la formazione degli operai, aumentò le ore di lavoro e licenziò. Il nuovo proprietario, speculatore con saldi legami politici, si impegnò a mantenere almeno 800 operai dei 1050 di un anno prima. Fu accolto da lettere anonime, tensioni. I lavoratori temevano di perdere il posto. Sui muri, comparvero i primi manifesti di protesta: «Muovetevi, artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria». Era l’estate del 1863, quando Bozza annunciò che non avrebbe potuto mantenere i suoi impegni. Chi restava a casa, almeno nei primi tempi, avrebbe potuto ricevere metà dello stipendio «pel conto del governo». Una forma rudimentale di cassa integrazione. Il 31 luglio, gli operai in servizio erano 458, minacciati da licenziamenti e pagati con ritardo. Una situazione di continua tensione e conflittualità dagli effetti imprevedibili, in uno stabilimento privo di prospettive future. C’entravano anche le scelte di politica industriale fatte dal governo con la preferenza data all’Ansaldo. Il 6 agosto la situazione precipitò. Alle due del pomeriggio, il capo contabile dell’azienda, tale Zimmermann, chiese al delegato di polizia di Portici l’invio di almeno sei agenti, per controllare gli operai in sciopero per ottenere lo stipendio. La risposta erano stati altri 60 licenziamenti. 
Al primo allarme, ne seguì un secondo, più drammatico: «Non bastano sei uomini, occorre un battaglione di truppa regolare». Al suono convenuto di una campana, tutti gli operai, di ogni officina dello stabilimento, si erano riuniti nel gran piazzale dell’opificio. Zimmermann sottolineò: «In atteggiamento minaccioso». La polizia non bastava ad evitare il pericolo di incidenti, furono allertati i bersaglieri. Il maggiore Biancardi inviò una mezza compagnia, al comando del capitano Martinelli e del sottotenente Cornazzoni. 
Dovevano circondare l’opificio, ma ai cancelli trovarono gli operai. I rapporti ufficiali parlarono di minacce, insulti ai bersaglieri. La reazione fu assai violenta: una carica alla baionetta e poi spari alla schiena sui fuggitivi. Il bilancio finale fu di quattro morti: Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri. I feriti, ricoverati all’ospedale Pellegrini di Napoli, furono invece dieci: Aniello De Luca, Giuseppe Caliberti, Domenico Citara, Leopoldo Alti, Alfonso Miranda, Salvatore Calamazzo, Mariano Castiglione, Antonio Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti.
Tutto riportato nei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, fondo Questura. Ci fu qualcuno che non riuscì a nascondere l’imbarazzo per l’accaduto: il questore Nicola Amore, futuro sindaco di Napoli. Scrisse di «fatali e irresistibili circostanze». Per ridimensionare l’accaduto, gli incidenti vennero attribuiti a «provocatori» e «mestatori borbonici». Gli operai, erano tempi ancora non maturi per un movimento sindacale e anarchico organizzato, vissero una condizione d’isolamento. Due mesi dopo, ne vennero licenziati altri 262. Si cercò di raccogliere denaro per le vedove dei morti, ma con scarso successo. Ecco, fu quella la prima protesta dinanzi ad una fabbrica nell’Italia unita. Quelli i primi morti. Solo 26 anni dopo, si arrivò a celebrare il primo maggio per decisione della Seconda internazionale. L’occasione era stata la protesta, nel 1886, dinanzi alla fabbrica McCormick di Chicago. Sarebbe bello che, nei tanti concerti di oggi a ricordo delle lotte operaie e a difesa del lavoro, si citassero anche i morti di Pietrarsa. Uomini di Resina e San Giorgio a Cremano senza ricordo nazionale. 
Quasi fosse una vicenda minore, da rimuovere e dimenticare. Forse, c’è di mezzo la vergogna di uno Stato che, già dall’inizio, mostrava ambiguità e miopie nelle politiche industriali al Sud. Già, perché oltre i morti di 153 anni fa, c’è un epilogo successivo: la lenta agonia di Pietrarsa. Nel 1875, gli operai erano ridotti a 100, due anni dopo lo stabilimento fu affidato in fitto per 20 anni alla Società nazionale per le industrie meccaniche. Fino al 1885, vennero realizzate 110 locomotive, 845 carri, 280 vetture ferroviarie, caldaie e vapore e altro materiale ed eseguite 77 riparazioni. Dopo il suicidio di 44 anni prima, nel 1905 lo Stato si riprese la gestione diretta di Pietrarsa. Per assenza di investimenti e abbandono, la chiusura definitiva fu decisa 70 anni dopo.

di Gigi Di Fiore                        

 
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