Post n°255 pubblicato il 11 Novembre 2010 da blue.chips
Jaana Forse vi è un’immagine teologica della felicità, pur articolata nelle sue infinite mediazioni: una sostanza più leggera del vuoto nell’architettura del silenzio più profondo. Qui, dove la ragione si dissolve, trovi le forme dell’esistenza nascosta in una sequela di croci liquide, cristallizzate negli occhi dentro una leggerissima pioggia. V’è un tempo per nascere ed uno per morire; e vi è un abisso che ci osserva: prima, durante e dopo. Un destino fragile, una vita fragile. Ma per qualcuno la vita è ancora più fragile; ed in questa fragilità che la vita ci interroga più fortemente, quasi a manifestare che dove vi è più debolezza più forte è il diritto di conoscere la profondità della vita e la mano di chi la regge: la norma con cui deve essere considerata. R.M.Riilke scriveva: Non conoscemmo il suo capo inaudito Un giorno spiegavo cose così a Jaana, ma lei avrebbe preferito morire, poiché la sua bellezza era mutata, ritrovandosi in un corpo immobile: uno scafandro rigido e fragilissimo. La nostra vicinanza, il nostro amore, le cure, i fiori freschi di giornata, il sorriso di una bimba mentre leggeva il libro delle sue favole, tutto questo le dava speranza, fiducia, un senso nuovo e rinnovato. Ma l’abisso del dopo reclamava la sua ora, il tempo di morire…e non necessitava di spiegazioni, perché contro, a nulla è valso che i nostri cuori erano carichi d’amore e irradianti speranza. Mi sono fatto molte domande ed ho lottato nuovamente nel mio dolore; mi sono accorto che il mio dialogare logico era anche il mio gesto ultimo per non chiarire i miei limiti di verità, la mia impossibilità di dialogare, poiché ho tentato con le mie conoscenze una via d’uscita che, inesorabilmente, si risolvevano alla fine in un conformismo tautologico. Nella testa mi batteva l’arcaico motto: “ Io sono Il Signore, non avrai altro Dio fuori di me”. Era questa la voce, il richiamo, l’abisso del prima, durante e dopo la vita, che fendeva e lacerava il mio dolore, la mia necessità di dare un senso compiuto agli avvenimenti; era questa la voce che si batteva per la liquidazione dei miei ragionamenti? Ho forse avuto la pretesa di ancora possedere l’aria per respirare, mentre l’inferno bucava la mia bolla di respiro e di idiozia programmata. Piccola H. per l’occasione si era fatto comprare un abitino nero con il colletto e le maniche di pizzo bianco, ma strenuamente ha difeso il suo volere indossare sopra il suo cappottino rosso. La nostra fedele Katjia le aveva intrecciato i capelli con un nastro viola scuro come desiderava piccola H; e dello stesso nastro aveva avvolto il busto dell’orsacchiotto Bubu. Lei portava fieramente il velo bianco trapuntato di sua madre. Per tutta questa estate si è esercitata a suonare il flauto traverso, e nel frangente, sorprendendo tutti noi, desiderava suonare questo brano proprio mentre ci accingevamo a cantarlo:
La sera avrei avuto mille domande da fare a piccola H.: le avrei chiesto perché aveva scelto di venire con un cappottino rosso acceso differentemente da noi tutti vestiti di nero, come chi non ha altra umiliante alternativa di fronte alla morte; avrei chiesto perché aveva imparato e voluto suonare proprio quel brano; avrei chiesto di entrare nel cuore per sentire e vedere il suo caos calmo nel dolore di un’altra perdita d’amore. Ma sono rimasto in silenzio, perché il suo silenzio era assordante e fragilissimo. Mentre le tiravo le lenzuola fino al suo dolce viso, lei (finalmente, non più monosillabando) parla, poggiando la sua mano sul mio petto dalla parte del cuore: “papà, il cielo si sta riempiendo di persone a noi care. Dillo anche al nonno: loro stanno bene”. Sì, le ho risposto: “loro stanno bene”. Era il suo ultimo tentativo di dirmi le cose di cui avevo bisogno di ascoltare, e per lei di sciogliere quel grumo di denso silenzio che durava da troppo, dopo la cerimonia. Mi domando sempre perché una piccola bambina decide in piena autonomia di prendersi cura di noi adulti, quasi fossimo dei superstiti da una calamità senza fine. E mi sono di nuovo chiesto: è questa la bellezza dell’Essere? La gioia di vederla così rappresentata? Nonostante l’abisso, nonostante il dolore, nonostante la morte. Eppure in quel giovane e generoso cuore il segno della fragilità dell’Essere riaffiora e vacilla: appena socchiuso la porta, piccola H. singhiozzava tentanto di frenare le lacrime che di lì a poco fluivano liberatorie, come le mie che, silenziosamente, si mescolavano alle sue. Ero dietro la sua porta, e lì rimanevo: impietrito, ma sereno; perché la libertà delle sue lacrime risuonavano più di mille parole e sarebbero salite pure e cristalline fino al cielo desiderato, là dove tutto si concilia. Blue.chips P.s. una gentile blogger mi aveva scritto queste parole: “mi manca piccola H.” Solo questo. Ho avuto la sensazione che l’anima di piccola H. si fosse sparsa nel cielo come una manna per destare un senso di serenità e gioia, come una pioggia sottilissima sparsa di melodie di bellezza dell’Essere, hic et nunc. A voi tutti che mi avete scritto, nella sensazione di mia colpevolezza e dolore per non avervi scritto, va la mia richiesta di perdono. A lei invece, offro tutta la mia gratitudine e senso di appartenenza, che va molto oltre questo semplice richiamo. Grazie
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Inviato da: blue.chips
il 11/02/2009 alle 13:29