Creato da: rivedelfiume il 26/06/2006
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Vil razza dannata.....

Post n°46 pubblicato il 14 Giugno 2007 da rivedelfiume

Tra le varie amarezze di ieri, mi sono tuffato, una volta tanto, sulla tv, e mentre aggiornavo la lista dei canali satellitari, mi è entrata la famigerata “tv della famiglia”. Anche se il termine”famiglia”, visto il clima generale e chi sta dietro l’operazione mi riportava non al significato del dizionario, ma più a quello in auge nei romanzi di Mario Puzo.
Ufficialmente, è la tv della libèrta, perché l’accento finale impedisce una corretta comunicazione via web o mail (è una tv moderna, micacotica…..) Incuriosito, ho subito beccato una telefonata in diretta contro gli albanesi, talmente “ladri nel dna” da rubare persino l’orologio a Bush….. Segue l’orda di messaggi dove pare che tutti abbiano lasciato la patria solo per venire ad invadere l’Italia. Anzi, la Padania: perché, come ha detto un colto ascoltatore,”i comunisti hanno deciso di vendicarsi contro il popolo della Padania mandandoceli tutti qui, albanesi, zingari, romeni e negri”.
Difficile ricordare (o dimenticare?) “quando gli albanesi eravamo noi”.
Ma noi chi?
Certo, c’erano i siciliani ed i campani che esportavano mafia e camorra, ma NOI, ed anche tanti del sud, diciamolo, si andava per lavorare, mica per far del male.
Si sa: il più erano quelli del Sud Italia ad emigrare.
Si sa…
Nel periodo d’oro dell’emigrazione (1876-1930), secondo l’Ufficio Centrale di statistica, il 50% degli emigrati italiani provengono dalle regioni del Nord Italia, il 10.9 % di quelle centrali, il 27.9 % di quelle meridionali e il 10.6 % delle Isole. Il dato disaggregato per regioni e rapportato su ogni 1000 abitanti, vede in testa saldamente il Veneto (e Friuli), anche considerando tre distinti periodi: fino al 1880 (a), fino al 1900 (b) e fino al 1925 (c). Per altro nel periodo (a) Liguria, Lombardia, Piemonte e Toscana battono Calabria, Sicilia e Campania; nel periodo (b) Piemonte e Toscana battono Sicilia e Puglia; nel periodo (c) Piemonte e Toscana battono ancora Sicilia e Puglia; la piccola Basilicata è seconda in tutti e tre i periodi. I Nardello emigrano dalla natia Ruoti (PZ) a cavallo dei due secoli, portandosi dietro semi di peperoni del paese. Sono peperoni dolci e resistenti i cui semi, oggi, li compri su internet (intorno ai cinque dollari per 25 semi): i Jimmy Nardello’s sweet pepper. "Quelli del sud" spesso sono così morti di fame che non possono nemmeno andare via: al massimo, dopo, arriveranno a Torino. Circa diciotto milioni di italiani emigrano e vanno a fare lavoro (nero) in Francia, America, Argentina; vanno pure a costruire la Transiberiana. Ma non sono molto amati. Maurice Barrès scriveva in Francia sul suo giornale: «Il decremento della natalità e il processo di esaurimento della nostra energia (...) hanno portato all’invasione del nostro territorio da parte di elementi stranieri che s’adoprano per sottometterci». (come è quella cosa della storia che si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa….?). Quando proprio non se ne può più, il pogrom: agosto 1883; al grido di “Viva l’anarchia! Abbasso gli italiani” nelle Camargue inizia la caccia all’italiano, per lavare l’offesa perpetrata da un piemontese che ha minacciato con un coltello un francese che lo sfotteva. Nove sono i morti ufficiali, centinaia i feriti. Un bilancio certo delle vittime non è facile: molti sono “clandestini”, entrati in Francia imbarcandosi di notte su barche di fortuna; altri sono entrati dai passi alpini; altri con un “permesso turistico” per Lourdes. Sono quasi tutti lombardi, piemontesi e liguri. In America non si respira aria migliore. Il trombettiere del generale Custer, John Martin, è arrivato fino a Little Big Horn dalla provincia di Salerno. Si chiamava Giovanni Martini. Ma si è fatto chiamare John Martin. E pensare che il toscano Filippo Mazzei è attivamente partecipe nella stesura della costituzione degli Stati Uniti: ma in Louisiana è “vietato ai bimbi italiani frequentare le scuole dei bianchi”. Tre o quattro stati semplicemente non accettano italiani. Poi i pogrom: undici siciliani, accusati di assassinio di un poliziotto ma assolti, mentre sono comunque in carcere (per proteggerli?) vengono fatti a pezzi da circa 20.000 onesti cittadini di New Orleans. A Talullah (Louisiana) cinque italiani vengono linciati perché “troppo gentili con i neri”. Kalgoorlie (Australia), 1934: caccia a italiani e slavi (perché pare andassero d’accordo): 3 morti ufficiali. Sacco e Vanzetti, un pugliese ed un piemontese, vengono uccisi dopo un processo-scandalo. L’elenco potrebbe continuare.
Gli italiani non sono santi: nel 1881, ad esempio, furono compiuti in Italia 16,8 omicidi ogni 100.000 abitanti. (oggi la media è 1,34). In Sicilia nel 1881 (46,9 omicidi ogni 100.000 abitanti) e pure in Sardegna (32,5) erano cattivelli, ma non si scherza in altre regioni: 10,6 ogni 100.000 in Toscana (con una punta di 12,8 a Lucca), 12 in Emilia, 10,5 in Piemonte. In più gli italiani sono tutti drogati, di vino: nel decennio 1901-1910 si sciroppano una media di 126 litri di vino a testa (neonati compresi nel calcolo), contro i 50 di oggi. Le prostitute italiane vanno per la maggiore nei bordelli di Buenos Aires, Tunisi, Alessandria d’Egitto. Buona parte del traffico di bambini (per vari usi) si muove dalla zona di Caserta e di Campobasso, ad opera di trafficanti di Chiavari e Parma. Italiani del nord delinquono in Argentina; italiani del Sud delinquono (in una economia in decollo libero, i fortunati) negli USA. Gaetano Godino, “bambino di strada” e figlio di immigrati genovesi, è il primo serial killer del Sud America: uccide bambini, aiutato da una banda di strada di ragazzini, italiani. Non manca la violenza politica: nel 1920 l’anarchico romagnolo Mario Buda mette una bomba a Wall Street, 33 morti. Il New York Times parla di “act of war” e chiede l’invio di truppe federali. L’elenco potrebbe continuare. In due parole: gli italiani sono dei morti di fame, senza molti altre alternative che farsi il mazzo (scusate il francesismo) o fare i delinquenti. I più tranquilli si fanno il mazzo; i più aggressivi fanno i delinquenti. Quelli così così si fanno il mazzo e delinquono. Dove arrivano i “maccaroni”, però, la produzione schizza in alto: gli italiani lavorano per quattro soldi, si spaccano schiena e fondoschiena, si fanno odiare come crumiri (li ammazzano pure perché fanno i crumiri), spariscono, non muoiono semplicemente, in incidenti sul lavoro.
Parole e situazioni che si ripetono.
Si invoca la purezza della razza, della cultura, del “punto di vista”. Più si è fondamentalisti più la tragedia si colora di farsa. Adolf Hitler celebra la razza ariana, dagli Ariani, adoratori del Sole, che provengono (come tutti noi) dall’Asia, ad ondate diverse. L’ultima ondata sono gli zingari. Ariani purissimi, quindi incorrotti. Adolf sceglie la svastica come simbolo di purezza. La svastica è uno dei simboli asiatici del sole, usata peraltro da alcune sette buddiste. Alla ricerca degli “antenati” Hitler manda una spedizione in Tibet. I biondoni cercano la propria purezza fra monaci piccoletti e con gli occhi a mandorla. Ci hanno fatto pure un (bel) film vagamente new-age…..

Tre libri per allargare la mente e parlare con cognizione di causa: “L’orda – quando gli albanesi eravamo noi” di Gian Antonio Stella “Vita” di Melania Mazzucco
“Scontro di civiltà per un’ascensore a Piazza Vittorio” di Lakhous Amara
 

 
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Una sgommata e via

Post n°45 pubblicato il 26 Maggio 2007 da rivedelfiume


Stavo pensando ad un piccolo dizionario dell’automobilista moderno.
Suona bene, no?
Idee poche, ma ben confuse.Teoria poca, ma osservazione tanta: basta fermarsi qualche minuto ad un semaforo.
Se ne uscirà abbastanza abbrustoliti, ma sai che osservatorio previliegiato?

Alcune definizioni e considerazioni spicciole:



AUTOMOBILISTA: è la incarnazione di Dio sulla terra, l’essere Perfettissimo e Supremo.
In cielo, in terra, in ogni luogo: soprattutto in ogni luogo.
Nei rari cancelli che si affacciano sulle piste ciclabili, Lui c’è.
Nelle zone pedonali, quando cammini sicuro, Lui c’è.
Nell’unica confluenza da destra nel raggio di chilometri, Lui c’è.
Nella strada stretta, soprattutto se hai fretta perché perdi il treno, a fare inversione, Lui c’è.
Se sei fermo davanti ad un passo carrabile un minuto, in una strada di grande traffico, Lui appare.



BICICLETTE: qui sono come le vacche sacre in India, quelle che fanno i loro comodi lungo le strade obbligando le macchine a numeri di alta acrobazia per scansarle.
In base al dogma dell’ “IO sono, e faccio quel che mi pare”, il ciclista estense non tiene in sufficiente considerazione le differenze culturali esistenti fra automobilisti indiani e ferraresi; se per quelli asiatici le vacche che si piazzano a ruminare sulla tangenziale di Bombay rappresentano gli spiriti degli antenati, a questa latitudine i ciclisti che scorrazzano a ridosso della striscia di mezzeria della carreggiata meritano solo di essere sollecitamente aiutati a ricongiungersi agli antenati -tra cui, alcuni sicuramente perversi- di cui trattasi.



CARROZZERIA: sempre lucida, pulita, per specchiare compiutamente il proprio ego. Qualora sfregiata da segno di portiera in parcheggio a pettine, sarà equiparata, nel giudizio del suo padrone, ad uno stupro, al quale reagire con la castrazione fisica del reo.



DISCIPLINA: cos’è?



EDUCAZIONE: vedi alla voce "disciplina".



FANALI: simpatico optional a disposizione dell’utente. Accesi quando potrebbero riposare, secondo una nota legge libertaria (es. ore 13 di un ferragosto a Marina di Ragusa), spenti quando una orrida legge liberticida -la sera, ma si vede che, durante la creazione della rotazione della Volta Celeste, Dio era ostaggio della Sinistra radicale- obbligherebbe (condizionale d’obbligo) a tenerli accesi.



GAMBE, TETTE, SEDERI: non c’entrano granchè con le dinamiche del traffico, ma quando leggo che gli automobilisti inchiodano per vedere il cartellone pubblicitario con la macelleria di turno, un qualche dubbio sulla maturità complessiva lasciatemelo venire (il dubbio, sottolineo....)



PEDONI: inutile ostacolo creato esclusivamente per impedire al motore di raggiungere la massima potenza disponibile. Spesso portatori di sporte del pattume da buttare negli appositi cassonetti, non capiscono, gli imbecilli, che quando uno spende l’equivalente di un monolocale in centro storico per la propria Libertà su quattro ruote, tra loro ed i moscerini l’unica differenza è che è più difficile tirarli via se si stampano sul vetro.



VIGILI: spesso il tentativo di stabilire un contatto con loro, o quanto meno una sintonia cerebrale, sembra smentire con una certa solidità la diffusa credenza secondo cui l’uomo è una forma di vita intelligente sulla Terra.

 
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Nuovi eroi e falsi dei

Post n°44 pubblicato il 17 Aprile 2007 da rivedelfiume

"Nella vecchia Montecchìa, iaiaoh/Maso copa anca so zia, iaiaoh"
(Cori da stadio degli Ultras del Verona, maggio 1991)
___________

Montecchia di Corsara è un piccolo centro in provincia di Verona.
Veneto timorato e ricco, dopo secoli di miseria, di fame, di emigrazione, di fuga dalla terra.
In una villetta vivono Antonio Maso, 52 anni, sua moglie Maria Rosa Tessari, 48, agricoltori felici e possidenti. Hanno tre figli, Laura, Nadia e Pietro, 19enne.
La classica famiglia che ha tutto, secondo gli stereotipi e le convenzioni: la casa, la terra, "i schei", anche per il futuro.
Futuro che corre, quando in vent'anni si è passati dalla vanga ai trattori.
Ma anche Pietro corre, con questo mito del tutto il denaro e tutto il tempo per goderselo, subito.
Così convince i suoi tre migliori amici ad «un lavoretto» come detterà a verbale, per spazzar via quello che ancora intralcia il loro furente conformismo.
Il 17 aprile 1991 Pietro, insieme con Paolo Cavazza, 18 anni, Giorgio Carbognin, 18, e Damiano Burato, 17, dopo aver indossato le maschere del recente carnevale, tende ai danni dei genitori una vera e propria imboscata al rientro da una funzione religiosa.
Sono passate da poco le 23.30, si accende la luce, in quella villetta a Montecchia di Crosara, ed è il segnale che dà il via al massacro.
I coniugi Maso vengono ripetutamente colpiti con un bloccasterzo e una mazza di ferro.
Una mattanza che dura 53 minuti.
Il padre, mentre ancora rantola, è soffocato con una coperta schiacciata sul volto con un piede da Cavazza, mentre la madre, che tenta di divincolarsi, viene finita con un colpo alla testa dal figlio. 

Pietro e i suoi amici pensano, prima e durante, che ammazzare sia facile, come in un film.
Che basti un colpo,  e tutto è finito. Che domani sarà facile andare in banca e chiudere il conto corrente dei genitori prelevando tutto il denaro disponibile per far la bella vita a base di auto nuove e serate in discoteca.
Il film, un bruttissimo film, è andato diversamente.
Dopo l'aggressione mortale, i giovani infatti simulano la rapina e poi, tranquillamente, vanno in discoteca. Al ritorno a casa, Pietro finge di scoprire l'accaduto ed è lui a dare l’allarme. A portare i carabinieri sulle tracce degli autori del delitto, qualche giorno dopo, sono proprio le due sorelle di Pietro, le quali scoprono che dal conto della madre sono stati prelevati 25 milioni con un assegno recante la sua firma contraffatta. L'assegno, sosterrà l'accusa, sarebbe servito ai giovani per estinguere un debito contratto da Carbognin con una banca per comprare una Lancia Delta integrale, poi non acquistata per contrasti con i familiari.
I soldi, nel frattempo, saranno tutti spesi lo stesso, nel giro di due mesi.
Ed è stato proprio per evitare che i genitori se ne accorgano, che Pietro Maso ha deciso di ucciderli. Anzi,  il delitto è stato architettato appunto perché Maso potesse ottenere l’eredità così da mantenere quello stile di vita e di consumi che lo ha fatto emergere tra gli amici del paese. In precedenza, si scoprirà durante le indagini, ha già provato a uccidere i genitori, prima con un ordigno rudimentale fatto con due bombole di gas, poi tentando di investire mamma Rosa. Dalle indagini emergerà che Pietro aveva pensato anche di eliminare le sue due sorelle per essere l’erede di tutte le sostanze paterne.
L’episodio non sconvolge solo il paese di Montecchia, la località veneta apparentemente tranquilla e dal benessere crescente negli anni in cui si verifica il delitto, ma tutta l’Italia che non sa darsi ragione dell’accaduto.
Eppure non sarà un caso isolato. Episodi del genere si ripeteranno, non ultimo quello celebre di Erika e Omar, i due fidanzatini adolescenti che uccideranno, anni dopo, la madre e il fratellino di lei, con predeterminazione e spietatezza. Appena la stampa diffonde la notizia del crimine, esplodono le interpretazioni psicologiche, psichiatriche e sociologiche.
Come è possibile arrivare a tali livelli di violenza, a maggior ragione all’interno del nucleo familiare? Quale sistema di valori fa sprigionare questa furia omicida e che ruolo vi gioca il contesto sociale e culturale?
La
spiegazione è univoca: Pietro Maso come cartina di tornasole del degrado culturale di una regione troppo ricca di soldi e troppo povera di cultura. Elegante, lucido, geometrico come la sua Golf GTI che correva bruciando l'asfalto. Fa scalpore, durante il processo, la perizia affidata dall'accusa al professor Vittorino Andreoli. Lo psichiatra, oltre a escludere che i tre fossero incapaci di intendere e volere, punta il dito contro la società in cui il duplice delitto si inserisce: "Una società improntata all'apparenza, incapace di risolvere nuovi problemi, che tende solo a negare o nascondere" e "una società che è stata riempita di denaro, che è diventato il vero dio di questi luoghi e dove la scuola è diventata una perdita di tempo".
Maso viene condannato dai giudici di Verona, il 29 febbraio 1992, a 30 anni di reclusione; 26 anni a Carbognin e Cavazza. Tredici anni, invece, al Burato, minorenne all'epoca dei fatti. Incredibile a dirsi, insieme con la condanna  arriva addosso a Pietro una fama fatta di lettere d´amore in carcere, Masoparty nelle discoteche della provincia, i cori da stadio dei neofascisti ultras veronesi citati all'inizio; fama che, come scrive Pino Corrias "illumina proprio una certa Italia già raggelata dalla banalità perpetua del consumo e delle mode consumabili, povera di linguaggio, povera di sguardo e ricca di tutto il resto, cioè il quasi nulla in saldo che abita il Nord. Che poi riverbererà nel flusso perpetuo delle nuove televisioni commerciali accese a raccontarci di una festa benestante sempre in corso, gratuita, di superficie talmente illimitata da inglobare anche un po´ di vita vera, anzi verissima, da cui estrarre un po´ di spavento, tracce di dna e spot."
Per anni non se ne parla più, di Maso & co., se non in occasioni di altre efferatezze: ma nel febbraio scorso, Repubblica intervista Pietro che si dice "una persona diversa". "Sedici anni di carcere mi hanno cambiato. Mi ero perso, ho cercato di ritrovarmi, grazie anche alla fede", spiega. "Ai ragazzi che mi scrivono e mi raccontano che vogliono uccidere i genitori, dico di fermarsi, di ragionare, di ricucire i rapporti". "Non ho potuto salvare me stesso, almeno ci provo con gli altri. Perchè quando fra cinque anni uscirò di qui, anche queste cose, forse, mi serviranno per iniziare una nuova vita".
Adesso, l’ultimo colpo, da maestro della comunicazione, da chi sa gestire da sempre la propria immagine: l’uscita è stata seguita dalle telecamere Mediaset che hanno documentato l’evento con tanto di intervista a una parente, la zia Rosina, che da Montecchia di Crosara gli ha mandato a dire di averlo perdonato da subito: «Se tornasse non gli chiederei niente, lo abbraccerei e basta».
La pubblica ostilità a sconti sui trent’anni di carcere ai quali Maso è stato condannato risale proprio ai tempi del delitto, efferato e mai dimenticato, fino alla ribalta di questi giorni, ancora una volta girata a pietismo da un sistema televisivo del quale non si parlerà mai abbastanza male, se e quando usato ai fini giudiziari.
"Tutto narrabile in forma seriale come se davvero lo sguardo del pubblico possa penetrare la superficie del delitto, riconoscere gli indizi, pesare le emozioni, dettare la sentenza in una forma aggiornata del giudizio di dio diventato Auditel numerico. E liberandoci, con lo spettacolo del sangue altrui, dallo specchio che ci respira accanto. Nel quale pulsa il segreto che ci portiamo in perpetuo dai tempi di Eschilo e dell´Antico Testamento. Come una insonnia che non ci spieghiamo, come un cattivo pensiero che ci aspetta." (Pino Corrias)
 
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Quasi Goal

Post n°43 pubblicato il 19 Febbraio 2007 da rivedelfiume

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Un francobollo, in uscita il 15 marzo.
Una emozione, un poter dire finalmente "io c'ero".
C'ero, a sentir risuonare nel soggiorno quel distinto "Amici sportivi italiani in ascolto, qui è Nicolò Carosio che vi parla e vi saluta…
La mente va dove va, chissà...
Era proprio un secolo fa,  il tipico fruscio di sottofondo della radio in Onde Medie, lontana mille miglia dalla purezza della FM, la voce del cronista a stuzzicare la fantasia e insegnarci l’esercizio dell’immaginazione, costruendo scenari e situazioni che poi la televisione, con la cruda realtà delle immagini, ha distrutto come un ghiacciolo messo in forno.
Ero un bambino: e la domenica si aspettava davanti alla vecchia radiolona il fatidico momento in cui i soldatini tornavano nelle scatole delle loro improbabili Waterloo, le macchinine in quelle dove cessavano le sfide, i fumetti nella loro caotica montagna che era la disperazione della casalinga rivestita dalla figura gioviale di mia madre.
"Dallo studio centrale, Roberto Bortoluzzi..."
I radiocronisti entravano in cronaca per approssimazioni successive, chissà perchè la tua squadra era sempre un attimo dopo, rispetto a quando l'avresti voluta.
Ma l' Assoluto era lui, il mitico  -mai questo aggettivo fu meno sprecato- Nicolò Carosio, la prima voce del calcio, che in questo 2007 viene finalmente celebrato come si deve.
La cronaca, meglio, la storia racconta che era il 24 gennaio 1954, quando la platea dei telespettatori (allora pochi intimi, per lo più concentrati nei bar) potè ascoltare Carosio, insieme con Vittorio Veltroni (responsabile del primo telegiornale, oltre che padre dell'attuale sindaco di Roma) e Carlo Bucarelli (primo “mezzobusto” della Rai) mentre raccontava Italia-Egitto (per la cronaca, finì con "lo schiacciante successo degli azzurri per cinque marcature a uno").
Si è sempre detto che Carosio mettesse insieme le sue radiocronache indipendentemente dagli accadimenti sul prato, col risultato che le partite erano due, quella vera e quella raccontata da lui, che magari senza saperlo aveva inventato la prima cronaca virtuale.
Era lontana la televisione a scoprire le sue magagne, a mostrare impietosamente come una immaginata ed immaginaria azione d'attacco "schiacciante e martellante" si risolvesse in una "rete!" realizzata inspiegabilmente dagli avversari; ma Carosio, con il suo calcio raccontato come una battaglia alle Termopili, con o senza il “quasi goal”, rimane irraggiungibile  per chi oggi si esibisce in chiacchierate da bar, quando a massacrare lo schermo (e la logica) non basta un solo telecronista, occorre il supporto del commento tecnico (il cronista dice "C'è da soffrire" ; il commento tecnico ribadisce "se continuano a restare nella propria area, prima o poi gli avversari potrebbero segnare, e la rimonta diventerebbe difficile"), ed il collegamento a bordo campo, e quello dal sottopassaggio, e le interviste post partita che hanno, in nome della banalità assoluta, il solo scopo di bombardarci di marchi alle spalle dei due attori.
Io, a dirla tutta, preferivo la cronaca poco chiacchierata.
Per curiosità, mi sono rivisto tempo fa uno spezzone del dolorosissimo (per noi nerazzurri del tempo) Bologna-Inter, spareggio per lo scudetto 1963-1964: il telecronista dall’Olimpico, manco a dirlo, era proprio Carosio. La sensazione era quella di un difetto all'audio della registrazione, dato che Carosio si limitava a citare il nome dei giocatori, "Perani, Bulgarelli, Haller, Nielsen… rete, rete, ha segnato Nielsen": tutto qua, ma che fascino, che classe. Soprattutto pensando che adesso ogni azione di gioco viene interpretata con un accanimento degno di uno scritto di Hegel.
Carosio non era un freddo, anzi: il suo tifo per i nostri colori gli costò l’allontanamento definitivo dai microfoni. Mondiali del 1970 in Messico: durante Italia - Israele (0-0), un guardalinee etiope annulla due reti regolari all'Italia. Carosio, impulsivo come al solito, esclama: «Ma cosa vuole quel negraccio?» ed ancora "L'ineffabile negro" o, con per nulla celato disprezzo, “L’etiope”. Ne viene fuori un caso internazionale: l'ambasciata etiope pubblica una protesta ufficiale, ed i vertici della Rai (i cui successori attuali difendono con orgoglio programmi da nettezza urbana, e neppure riciclabile) lo sospendono all’istante, consegnando(ci) il resto del Mondiale alla voce "politicamente corretta" ma asettica di Nando Martellini.
E Carosio resterà sempre Carosio.
Nel novembre del 2000 gli hanno dedicato una targa nello stadio di Palermo, e l’allora sindaco Orlando lanciò pure l’idea di innalzare un monumento alla “Prima voce del calcio italiano”. Poi, nulla, fino alla commemorazione odierna. Meritatissima: perchè mentre "il cuoio" rimbalzava sul prato, lui trasformava l’evento sportivo in un evento epico.
La voce di Carosio rimarrrà per sempre nella colonna sonora degli anni belli del calcio della memoria, ed il suo personalissimo stile resterà comunque irripetibile. Del resto, con un nome così, non poteva essere diversamente. Anche un suo illustre omonimo, violinista, era solito non ripetersi: e come insegna la filosofia orientale, è impossibile bagnarsi due volte nella stessa acqua.
 
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Art.7 dove sei?

Post n°42 pubblicato il 13 Febbraio 2007 da rivedelfiume

"Nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto con il diritto naturale. Ancora dal diritto naturale, derivano altri principi che regolano il giudizio etico rispetto alla vita da rispettare dal momento del concepimento alla sua fine naturale, essendo la vita un dono gratuito di Dio del quale l'uomo non può disporre". (Papa Benedetto XVI, 12.2.2007)

"La grande maggioranza degli italiani costruisce una famiglia, ma solo un ottuso può dire che non esistono altre realtà: se ci sono diritti o doveri delle persone che non sono tutelati perché fanno parte di un'unione e non di una famiglia, servirà un intervento legislativo per rimuovere la disparità. Anche per i gay, naturalmente. Premesso che il diritto naturale e la Costituzione dicono che l'unica famiglia è quella fondata sul matrimonio, dobbiamo necessariamente prendere atto che nella nostra società ci sono forme di convivenza e di unione non assimilabili alle famiglie. Aspetto di vedere se davvero il governo presenterà questo disegno di legge. Ho molti dubbi che riesca a farlo. Anche per i gay? Naturalmente: quando parlo di persone mi riferisco a tutti". (Gianfranco Fini, L'Espresso, 27 dicembre 2006).

Questa mattina, il presidente della Cei, Camillo Ruini, ha annunciato una "nota ufficiale, una parola meditata, che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che possa essere chiarificatrice per tutti".


O bella insonnia o palpebra
di rovere striata nello strazio
della luce che mai smette di battere
in questa notte metropolitana
o mia palpebra a filo di quell'altra
o mia notte a sfida di quell'altra
o luce della mia notte
che mai cessi d'esistere -
quale mattino di sangue e di nuvole
domani il cielo svolgerà dinanzi
agli aerei laboriosi per le rotte segnate
nella metamorfosi del tempo sonoro
e quale diurno sereno seguirà
i nembi fittizi e quale quieto svolgersi
del giorno primaverile sino all'animazione
di un crepuscolo infinitamente benigno
per il suo indugio di rosa sopra la città prostrata?

(Attilio Bertolucci - Viaggio d'inverno - 1971)


 
Troppe.
Troppe le chiacchiere in un Paese ormai sfiancato dal cicaleccio pontificante e moraleggiante di guardoni, di illusionisti da baraccone, figuranti di un circo d’infima categoria.
Il potere della Chiesa ci beffa e ci mortifica ogni giorno, mettendo in mostra (e in atto) scempi di libero pensiero, contro credenti e non credenti, ridotti a sfiancati spettatori, vittime che si autoinfliggono le torture, alzando l’audience dell’idiozia.
Troppi i complici, nostri salariati che cambiano squadra nell'intervallo e giocano con la maglia sbagliata: amnesia diluita nell'acquasantiera.
La prossima pandemia forse è già cominciata e non ce ne siamo accorti.
Il contrappasso è evidente.
E la voce di Attilo Bertolucci sussurra ancora versi che stringono il petto perché, riferiti a questo nostro tempo, non ci lasciano nemmeno l’illusione che la Notte sia buio per riposare la vista dalle luci, silenzio per le orecchie stanche: simbolo di letargo ed erosione delle menti e dei corpi.
Tutto scivola lentamente, all’indietro, in un tempo che non ci appartiene.
_______________

 
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