CSMinforma

Notiziario tra il serio, il faceto e pure l'ameno sulla salute mentale, la solidarietà e relativi dintorni e contorni nel territorio del Sulcis-Iglesiente (Sardegna, Italy) e, talvolta, pure Oltre.

 

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periodico di approfondimento sulle tematiche della salute mentale che prende spunto dagli argomenti del dibattito quotidiano al Centro di Salute Mentale di Carbonia.

In questo numero:

Il prendersi cura
(di Antonio Cesare Gerini)

"Corpo in azione" nella psicoterapia con il bambino
(di Magda Di Renzo)

Un modello per le dipendenze
(di Alessandro Floris et al.)
Le polarità
(di Simona Corrò)
Il gruppo Solidarietà ...
(di Ylenia Corrias)
La famiglia e la sua storia 
(di Carla Corona)
Un modello concettuale per la gestione del rischio nel nursing
(di Antonello Cuccuru)
Digitale: il futuro della radiologia
(di Carlo Saba)

 

METODOLOGIA


“IL PRENDERSI CURA”
nel lavoro del Centro Salute Mentale di Carbonia

Spesso quando si discute degli interventi svolti in favore delle persone con disturbo mentale si enumerano tali interventi, mettendoli in fila e indicandone la quantità. Si fanno tante visite psichiatrico–psicologiche, tanti interventi socio-sanitari, tanti riabilitativi o sulla famiglia e così via. Sembra che procedere in questo modo sia necessario per dimostrare l’efficacia del servizio stesso.
Qui però, in questa riflessione, non si procederà a enumerare gli interventi svolti dal CSM di Carbonia, ma si cercherà di mettere in evidenza il metodo che sta alla base degli interventi stessi.
Il “prendersi cura” è il primo momento di tale azione. “Il prendersi cura” è lo specifico del nostro lavoro. L’altro polo, cioè le modalità “teatro”, "fattoria", "laboratori", "gruppi di auto aiuto" etc, sono l’oggetto tecnico dell’intervento. La parola “cura” del “prendersi cura” non va confusa con la parola che in medicina e scienze affini usano indicare concetti simili. Ad esempio non va confusa con la parola “terapia”. La terapia è solo una delle modalità del “prendersi cura”, una modalità al fianco delle altre. Una modalità che richiama ad un intervento medico (farmaco-terapia) o psicologico (psicoterapia) o sociale (socioterapia), ma che non esaurisce mai il “prendersi cura”. Il “prendersi cura” di cui qui vogliamo parlare si coniuga con le parole “ascolto”, “condivisione”, “attenzione”, in una parola “relazione”.
All’interno del nostro lavoro nella salute mentale il “prendersi cura” è alla base di ogni altra modalità di intervento: accoglienza, volontariato, lavoro nella fattoria, inserimento lavorativo nel sociale, assistenza all’abitare, ecc.
E’ opportuno fare un passo avanti per comprendere: “chi” si prende cura di “chi”?Forse possiamo sostituire la parola “Chi” con la parola “Qualcuno”. Allora potremmo dire che “qualcuno si prende cura di qualcuno”. Entrambi i “qualcuno” del “prendersi in cura” sono delle “soggettività personali”, sono delle persone. La “soggettività personale” è composta dai due termini “soggettività” e “personale”. C’è evidentemente un accento posto sul mondo soggettivo interiore e sulla contemporanea capacità di relazione del soggetto, attraverso il suo interno sentire, col mondo esterno, col mondo degli altri e il mondo delle cose. Possiamo, senza ulteriormente approfondire, chiamare persona questa “soggettività personale”. 
Dunque:“una persona si prende cura di una persona”.La persona che pratica la psicoterapia è sempre molto di più della sua tecnica psicoterapica, come c’è sempre di più nella persona rispetto alla sua depressione, soprattutto se la depressione si declina col verbo avere (qualcuno ha la depressione). Se la depressione si declina col verbo essere, cioè è depressa, allora è depressa la persona e la depressione è personale quindi ogni depressione è diversa da un’altra in quanto ogni essere personale è irripetibile.

(l'articolo intero a cura di A.C. Gerini lo trovi al messaggio n. 111)

 

A PROPOSITO DI FOLLIA

“Deistituzionalizzare la malattia era ed è la legge 180,
deistituzionalizzare la follia è il nostro quotidiano prospettico compito.”
(Franco Rotelli)

Perché la malattia è un dis-valore?
E’ sempre più chiaro che la malattia altro non è che l’ istituzionalizzazione della follia e quest' ultima, probabilmente, altro non è che la forma parossistica dell’istituzionalizzazione dei conflitti. Come non vedere nel dilatarsi e nel restringersi dei conflitti di norme (a seconda delle situazioni di espansione e di recessione economica di un paese) la relatività di un giudizio scientifico che di volta in volta muta l’irreversibilità delle sue definizioni? Come non sospettare che esse siano strettamente collegate e dipendenti dall’ideologia dominante? Questi sono alcuni temi fondamentali della nostra ricerca teatrale. Partiamo dalla denuncia di una vita impossibile per alludere ad un’altra vita che, per ora, non ha altro luogo dove poter essere se non la scena. Lavoriamo per poter adesso porci e un giorno opporci all’incedere di quella violenza materiale, culturale, politica che anche qui, anche oggi, nega ancora i diritti fondamentali. Il problema allora non sarà quello della guarigione, ma dell’emancipazione, non la restituzione di salute, ma l’invenzione di salute, non laboratori per l’ortopedia delle libertà negate, ma laboratori per la riproduzione sociale della gente. (Accademia della Follia)

 

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PROVOCAZIONI

Discussione

Qualcuno ha scritto che un farmaco è una sostanza che viene somministrata ad una cavia e produce un articolo scientifico. Ma il processo non è così immediato: qui sulla terra un farmaco è una sostanza che viene somministrata ad una cavia, produce un articolo scientifico che riceve una commenda da almeno un docente (sempre assai noto in America e già membro dell'OMS) ed è citato in un congresso ai Tropici. Il rimedio entra quindi in produzione e viene proposto all'Autorità comPetente che - attesa la sostanziale ignoranza del funzionariato, in assenza di alcuna opposizione scientifica (naturalmente, a parte quelle eventuali delle qualificate Commissioni prePoste!) - approva.
Ora ha inizio la sperimentazione sulla popolazione e i risultati sono sempre positivi o, al massimo, discutibili e discussi, ma mai negativi. Solo in un caso - in quanto naque una popolazione di bambini affetti da gravi (ed evidenti) malformazioni e la farmaceutica non prese in tempo la stampa per il collo e un farmaco - un sedativo antinausea e antipnotico, guarda un po' -  fu ritirato con grande scandalo. Passarono somme ingenti, certo, però nessuno andò in galera.

 

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TEATRO: Marat-Sade

Post n°191 pubblicato il 04 Febbraio 2009 da csmcarbonia
 
Tag: Teatro
Foto di csmcarbonia

La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat rappresentati dai ricoverati del manicomio di Charenton sotto la direzione del marchese De Sade.

Il Marat – Sade, sotto la guida di Corrado Licheri, sarà replicato domani presso il Teatro centrale di Carbonia con inizio alle ore 10.00.

di  Gabriele Iezzoni, 30 gennaio 2009


Un titolo lungo per un’opera ricchissima sotto l’aspetto stilistico e contenutivo ed estremamente ambiziosa da interpretare. Una prova dura, quindi, per attori, sceneggiatori, regista e tecnici, ma affrontata con grande maestria e con quella professionalità che il teatro di Albeschida ha acquisito in questi anni di intensa attività.
Portata sulla scena dalla Compagnia che ormai vanta due lustri di attività con la regia di Corrado Licheri e le musiche originali di Angelina Figus l’opera in sé non ha bisogno di lunghe presentazioni. Senza dubbio un riferimento obbligato per la cultura degli anni settanta, è – come tutte le vere opere d’arte - ancora più sottilmente suggestiva oggi, quando la sua lettura ha bisogno di una interpretazione magistrale e di una esplicitazione che ne sappia rendere il valore, come si dice con una espressione abusata, ma efficace, attuale.
Il Marat-Sade, come presto venne conosciuta l’opera dopo la grande affermazione della successiva traduzione inglese, curata dallo stesso autore, è – forse – il capolavoro di Peter Weiss.

Scritto nel 1963 fu portato, per la prima volta sulle scene nella Berlino Ovest del 1964. L’anno successivo il regista Peter Brook ne allestì una trasposizone filmica che è ancora riconosciuta come il punto di partenza di qualsiasi interpretazione dell’originale Marat-Sade di Weiss.

L’azione inizia il 13 luglio 1808, quando gli echi rivoluzionari si sono già spenti e si sviluppa lungo una sceneggiatura innovativa nella quale la rappresentazione è il pretesto per la messa in scena del dramma principale abilmente incastonato dentro il più piccolo dramma della rappresentazione in cui il Marchese De Sade, internato nel manicomio di Charenton, si improvvisa sceneggiatore e regista degli ultimi giorni del rivoluzionario Jean-Paul Marat, detto l'Amico del popolo e morto ad opera della girondina Charlotte Corday D'Armont.

Come in tutte le opere di Weiss il pubblico è “costretto” nella nella condizione di giudice e critico anziché di passivo spettatore.

Lasciando da parte i dettagli scenici, per concertrarci sul contenuto vivo di quest’opera nata come tutte quelle di Weiss da una riflessione storiografica, che comunque trascende – come tutta l’arte – il tempo e la contingenza dalla quale trae forma e materia possiamo individuare alcune coordinate teoretiche che mettono in luce i fondamenti e le premesse di quest’opera così carica di suggestioni diverse e convergenti. Uno dei principali riferimenti non può che essere reperito presso la Scuola di Francoforte. Il concetto di ragione progressiva e calcolante di Adorno permette di illuminare almeno un aspetto fondamentale dell’opera di Weiss.

La ragione calcolante, secondo appunto la particolare connotazione di Adorno, conduce al fallimento dei suoi stessi presupposti di progresso, perché incontra – lungo il suo percorso – l’assurdo nella forma di quel paradosso per il quale le sue stesse affermazioni, raggiunte con i mezzi della logica deduttiva, diventano la negazione dei presupposti teoretici che hanno animato gli intenti innovatori iniziali.

La lettura dell’opera di Weiss, alla luce del pensiero di Adorno, permette di approfondire questi aspetti delicati della complessa tematica del Marat - Sade.

Weiss parte dall’assunto che non esista un significato per il quale la ragione possa dirsi pura in senso kantiano oppure storicamente orientata al bene in senso illuministico. Essa piuttosto deve sempre ritenersi intenzionata ovvero rivolta ad un particolare obiettivo, ispirata ad un progetto più o meno esplicito o animata da aspirazioni estranee a quello che una filosofia “ingenua” definirebbe come l’ambito teoretico. In altri termini non esiste un criterio dell’oggettività per il quale l’uso della ragione o gli strumenti che ad esso ineriscono si possano dire oggettivi: anche quando, anzi, sembra suggerire il Marat-Sade, soprattuto quando si presentano come il frutto di istanze universali o quando agitano la bandiera del valore assoluto proprio in quanto universalmente condivisibile.

Marat, in tal senso, è il rappresentante della ragione strumentale e adorniana. Essa progetta in vista di un fine e si veste di una bandiera. Il suo strumento privilegiato è la valutazione logica e deduttiva. La sua attenzione è rivolta al risultato. La contemporaneità ha imparato ormai da tempo parole quali successo, conquista, efficacia, raggiungimento del risultato. Queste espressioni hanno assunto rilevanza con la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese le ha – per cosi dire – fissate nella loro valenza politica e sociale.

Parallelamente all’affermarsi dell’importanza della ragione illuministica abbiamo assistito al processo per il quale l’etica e la condotta umana si sono ristrette alla semplice soggettività. Quando non è un fatto di natura giuridica, la condotta umana e la decisione cadono nell’arbitrio, l’etica si identifica con la morale e con il costume, il suo problema diventa ozioso di fronte all’intelletto che domina sulla natura e la plasma secondo le esigenze del momento. La stessa posizione del problema etico diventa impossibile perché, da un punto di vista strettamente razionale, non è suscettibile di una formalizzazione logico-deduttiva o quantitativa. La dimensione individuale è trattenuta quanto più possibile in quella sociale perché il criterio razionale chiede uniformità e prevedibilità. Le pretese del potere, che nei secoli passati erano accompagnate dall’imposizione e dalla vessazione, si fanno istanze della ragione: si fanno valere con la persuasione e trasformano la costanza della legge fisica nella normalità della condotta. L’uguaglianza di Marat diventa normalizzazione ed il suo ideale di libertà si sostituisce all’imperio del tiranno. Le esigenze della normalizzazione impongono una rigida separazione di ciò che è normale da ciò che non lo è. L’istituzione del manicomio è – per così dire -  la cifra della modernità. L’umiliazione e la somministrazione calcolata del dolore vivono all’ombra della scienza medica.

Ecco quindi che la figura di De Sade – nella sua follia erotomaniaca e nel suo individualismo esasperato – è l’erede di quell’eroe sconfitto del dramma neo romantico come lo abbiamo conosciuto dal Paradise Lost di Milton. Il suo nichilismo ed il suo individualismo radicale intesi come la negazione delle categorie della ragione positivistica sono una disperata affermazione dell’irriducibilità dell’individuo alla sua dimensione sociale, politica ed economica. Le illusioni di Marat si spengono sulle contraddizioni che emergono dal suo sistema sociale nel quale essere e dover essere, comunità e persona, natura e spirito si conciliano in un disegno unico. De sade rivela queste contraddizioni che lungi dall’essere state mediate dalla ragione sono state solo dissimulate e ricondotte all’errore del singolo che giudica al di fuori della verità scientifica e razionale. Così l’apatia della natura è, per De Sade cosa ovvia che proviene dal suo essere disilluso rispetto all’esistenza. Ma questa affermazione non fa semplicemente parte del contraddittorio fra i protagonisti. Con essa emerge l’inconciliabilità fra il materialismo ateo ed il causalismo dei quali Marat si fa portavoce come rappresentante del pensiero illuministico e l’attribuzione di una qualche intenzionalità o di un semplice finalismo alla natura stessa. È cosi l’ottimismo di Marat si fa più insostenibile del radicalismo sadiano. E, tuttavia, proprio un’affermazione di Marat (“l’apatia della natura è la tua personale apatia”) mette in luce la dinamica implicita nella nuova struttura di potere di cui Marat si fa promotore: l’errore della collettività diventa la malattia del singolo.

Ma lo stesso De Sade, chiuso nel suo solipsismo non sa dare una risposta alla domanda fondamentale che è il filo conduttore del dramma di Weiss e che non è la scelta fra una delle due posizioni portate sulla scena dai protagonisti, ma il reperimento di una terza via che non sia il nichilismo sadiano e nemmeno l’inganno della società borghese e capitalistica. Ma così non potrebbe essere. Come già Brecht, Weiss coinvolge il pubblico nella condizione di giudice e critico anziché di passivo spettatore e – una volta liquidata la Rivoluzione nelle sue contraddizioni ci restituisce il nostro mondo attuale processato e smascherato.

Seguendo attentamente la narrazione sembra di poter concludere in maniera apparentemente paradossale che non è il sonno della ragione a generare mostri, ma la sua iperattività. Verrebbe da chiederci che cosa, dunque, potrebbe metterci al riparo da una nuova catastrofe come una guerra mondiale o un’altra shoa dal momento che la ragione, come ha storicamente dimostrato, è ingannevole di fronte alle scelte cruciali, ma nello stesso tempo si è imposta, nelle sue propaggini scientifiche e tecnologiche, come unico strumento del pensiero e anzi ha preteso l’identificazione con esso. La risposta è niente, a meno di non “pensare l’impensabile” ovvero un pensiero che si emancipa dalla ragione, ma questo Weiss non dice, perché – del resto – il fine del dramma teatrale, ma forse di tutta l’arte, è quello di far sorgere le domande che ancora non sono state poste, non quello di rispondere alle domande già formulate perché a questo scopo sono sufficienti le altre facoltà umane.

Il Marat – Sade, sotto la guida di Corrado Licheri sarà replicato il prossimo 5 febbraio presso il Teatro centrale di Carbonia con inizio alle ore 10.00.


 
 
 

Scelte, strade e pulsioni

Post n°190 pubblicato il 12 Dicembre 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

Quali pulsioni
ci guidano in un luogo
e quali strade e quali genti
ci fanno incontrare?
Questa è una bella frase
sulla quale pensare!
Avremmo potuto scegliere?
Il destino ci ha donato costoro ....


(recitata da Gianni Sulas nel recital " ... se non sono gigli ...", gruppo teatro Casa Angy, Isogea, regia di Nicoletta Pusceddu, musiche eseguite da Il Pianista Misterioso, Teatro Centrale Carbonia, 12.12.08)

 
 
 

ETICA & GIUSTIZIA

Post n°189 pubblicato il 15 Novembre 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

Eluana Englaro «È giovane ed è stata assistita bene, si prospetta una lunga agonia». Insieme a 34 associazioni prepara un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro una sentenza che, per la prima volta in Italia, autorizza la morte di una persona
«Scelta pilatesca delle toghe faremo ricorso a Strasburgo» 

 Il neurologo Dolce: si prepara l’eutanasia su una persona indifesa


 di PAOLO LAMBRUSCHI

 Forse una speranza c’è ed è contenuta in un appello a Strasburgo per far rispettare il diritto alla vita in Italia. Non si perde certo d’animo Giuliano Dolce, 80 anni, neurologo di fama internazionale, direttore scientifico del «Sant’Anna» di Crotone e presidente dell’associazione di bioetica Vive. Anzitutto è determinato a denunciare il medico che staccherà il sondino nasogastrico che alimenta Eluana e il direttore sanitario della struttura o dell’Asl che ospiterà la giovane in stato vegetativo «perché negli ospedali pubblici italiani si va per farsi curare, non per venire uccisi». E, insieme a 34 associazioni, annuncia un ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro la sentenza che, per la prima volta, autorizza la morte di una cittadina italiana.

 Professore, dunque assisteremo nei prossimi giorni a un altro calvario come quello dell’americana Terri Schiavo?
 
 «Precisamente. Si prospetta purtroppo un’agonia lunga perché Eluana è giovane ed è stata assistita bene in questi anni dalle suore di Lecco. Siamo davanti a una situazione paradossale. Questa persona, che oggi vive senza l’aiuto di farmaci e macchinari, può essere uccisa levandole il sondino che la alimenta. Non c’è accanimento terapeutico su di lei, i sanitari infatti la nutrono come è loro dovere. Invece la magistratura italiana, a dispetto delle convenzioni internazionali, ritiene che nutrire una persona al massimo grado di disabilità sia un atto terapeutico e non un atto dovuto. Ora, per non infliggerle le sofferenze della disidratazione, dovranno sedarla, quindi somministrarle farmaci. Si finirà così con il curarla per farla morire 'bene'.

 Ma questa non è eutanasia, pratica vietata in Italia?
 
«Sì ed è una forma di eutanasia crudele, per giunta, perché prolungata e praticata su una persona indifesa che potrebbe vivere almeno altri 16 anni in stato vegetativo e non su un malato terminale.
  Che non ha lasciato neppure un ipotetico testamento biologico, facendo sapere che rinuncia volontariamente a ogni forma di alimentazione».

 Eppure Riccio, l’anestesista che ha aiutato a morire Welby, garantisce che non soffrirà, poiché è priva di coscienza...
 
 «E allora ci spieghi perché sedarla e perché i giudici milanesi, nella sentenza dello scorso giugno, hanno prescritto minuziosamente i dettagli da seguire per arrivare alla morte. Già che c’è, questo signore mi spieghi anche come può un medico togliere l’alimentazione a un paziente. Oggi Eluana vive grazie a mille calorie fornitele quotidianamente da un liquido che ha il color del latte e che è ricco di minerali, grassi e zuccheri. Ma se frullassero del cibo e glielo fornissero, potrebbe assumerlo.
  Morirà di fame e di sete, inutile trovare eufemismi».

 Qualche tempo fa alla donna, che oggi ha quasi 38 anni, è tornato il ciclo mestruale. Qualcosa sta avvenendo nel suo stato vegetativo?
 
 «Scientificamente non vi è alcuna correlazione. Ma è altrettanto vero che generalmente negli stati vegetativi il ciclo ritorna dopo pochi mesi, non ho mai sentito di un ciclo che ritorna dopo quasi 17 anni. È un caso unico, a mia memoria.
  Significa che qualcosa è successo nell’ipofisi e nell’ipotalamo di Eluana. Questo non vuol dire, però, che potrebbe riprendere coscienza. Avanzo un’ipotesi suggestiva di carattere psicanalitico: non avendo altre forme di comunicazione, forse ha voluto avvertirci con il suo corpo che non vuole morire. Ma è solo l’ipotesi di un vecchio medico che da mezzo secolo sta in corsia accanto a chi vive in stato vegetativo».

 In questi mesi lei, con tanti altri, si è battuto perché non finisse così. Come ha reagito alla sentenza?
 
 «Non è una vittoria, come hanno detto i legali del padre e neppure una sconfitta dell’associazionismo e del mondo medico scientifico contrario a far morire la giovane. La Cassazione non si è pronunciata ed è stata, a mio avviso, una scelta pilatesca dei giudici perché si sono appellati a un vizio di forma. Non è cambiato nulla rispetto allo scorso luglio, il padre poteva decidere di togliere il sondino ieri come potrà farlo domani.
  Piuttosto, il loro problema è dove trovare un posto 'adatto', come dice la sentenza ad ospitare Eluana per morire.
  Non l’hanno trovato in Lombardia, in Piemonte, neppure nelle regioni laiche come Emilia e Toscana. Siccome si dice che andrà all’ospedale civile di Udine, in Friuli, mi risulta che una struttura pubblica non possa ospitare una persona, un cittadino della Repubblica, per farla morire anziché curarla. Quindi, sono intenzionato a denunciare i sanitari e i dirigenti che permetteranno che la donna muoia. E non è l’unica cosa che faremo».

 Quali altre iniziative avete progettato?
 
 «Oggi stesso presenteremo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Oltre all’associazione Vive, abbiamo il sostegno di 33 realtà tra cui la Federazione nazionale trauma cranico. Abbiamo qualche speranza, i requisiti per accogliere d’urgenza il ricorso ci sono tutti. Non ci illudiamo, ma la Corte europea potrebbe ancora fermare tutto e riaffermare il diritto di questa donna ad essere nutrita».

 Su cosa si fonda il ricorso?
 
 «Noi rappresentiamo chi si prende cura dei 30 mila pazienti in stato vegetativo e riteniamo che con la sentenza di ieri l’Italia abbia violato diversi trattati internazionali. Uno su tutti, la Convenzione Onu sulla disabilità del 2006. Eluana dal punto di vista medico è una persona in stato vegetativo persistente ed è clinicamente guarita, ma in maniera imperfetta ed è affetta da disabilità al massimo grado. La convenzione, sottoscritta dall’Italia un anno fa, le garantisce, in un comma dell’articolo 25, il diritto ad assumere cibo e fluidi. Purtroppo i giudici milanesi ignoravano tutto ciò e anche quelli della Cassazione. Bisogna allora andare fuori dai nostri confini per chiedere di riaffermare il suo diritto alla vita. E anche per tutelare migliaia di persone in stato vegetativo. Perché questa sentenza rischia di fare da apripista ad altre, può mettere migliaia di vite inermi come la sua su un piano inclinato e farle scivolare verso la morte perché un giudice ha stabilito che non sono degne di vivere».
 «Non c’è accanimento terapeutico, i sanitari che la nutrono fanno il loro dovere Inutile usare eufemismi, togliendo il sondino morirà di fame e di sete» «Per non infliggerle le sofferenze legate alla disidratazione, dovranno sedarla, quindi somministrarle dei farmaci Così si finirà con il curarla per farla morire 'bene'»

 
 
 

Teatro

Post n°188 pubblicato il 13 Novembre 2008 da csmcarbonia

Compagnia Teatro Albeschida

presenta

Un Ponte Sulla Scena

incontri ... azioni teatrali e interazioni ...

28 novembre
ore 10,00
Teatro Centrale Carbonia
Compagnia Teatro Albeschida in
"Marat-Sade"

5 dicembre
ore 10,00
Teatro Centrale Carbonia
I normadotati in:
"Drop-out", Cabaret Tragico

12 dicembre
ore 10,00
Teatro Centrale Carbonia
Compagnia teatro "I re dei ciarlatani" CSM Iglesias
"Marionette in libertà"

16 gennaio
ore 10,00
Auditorium del Conservatorio di Cagliari
Compagnia Teatro Albeschida in
"Spero nel tuo nulla di trovare il tutto"
liberamente tratto dal Faust di Goethe

23 gennaio
ore 10,00
Teatro centrale Carbonia
Circo Calumet in
"Il teatro dei fratelli Scomparso"

30 gennaio
ore 10,00
Teatro centrale Carbonia
"Jubilaum"

5 febbraio
ore 10,00
teatro centrale Carbonia
"Trisillabo"
cortometraggio a cura del
Laboratorio teatrale Cagipota Trieste
Compagnia teatro Albeschida in
"Marat-Sade"

 
 
 

eventi@iismas

Post n°187 pubblicato il 07 Novembre 2008 da csmcarbonia

Carissime Amiche e Amici,
siamo lieti di invitarvi tutti alla serata di solidarietà per l’Etiopia

V edizione del Concerto per l'Etiopia

Giovedì 4 Dicembre 2008, ore 20.30

Auditorium della Facoltà di Lettere e Filosofia
Università “Tor Vergata” – Via Columbia 5 – Roma

I fondi raccolti durante la serata
verranno interamente devoluti a favore del
Centro Sociosanitario di Makallè
per la realizzazione di un acquedotto per 
 il villaggio e la scuola di Metoghe.

Orchestra sinfonica diretta dal
Maestro Federico Longo

 

Pianista
Ana-Marija Markovina

Iniziativa promossa da IISMAS Onlus
(Istituto Internazionale Scienze Mediche, Antropologiche e Sociali) – Roma
L’IISMAS è una Onlus attiva nel campo della ricerca medica e delle scienze antropologiche e sociali. È impegnata in numerosi progetti e interventi a favore delle comunità più povere dell’Africa, dell’America Latina e del Sud-Est asiatico. In Italia promuove la prevenzione, la diagnosi e la cura delle malattie che colpiscono le fasce deboli, con particolare riguardo agli immigrati, zingari, prostitute, vittime di tortura, richiedenti asilo politico, disoccupati e pensionati a reddito minimo. Organizza inoltre seminari, congressi, workshop e corsi di formazione per il personale socio-sanitario e docente.

Per informazioni rivolgersi all’IISMAS:
Tel. R. Carico 347 6544186; P. Scardella 333 4074160;
email: info@iismas.it;  www.iismas.it.

 
 
 

Commozione

Post n°186 pubblicato il 27 Ottobre 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

Viola d'inverno
(di Roberto Vecchioni)

Arriverà che fumo o che do l'acqua ai fiori,
o che ti ho appena detto:
"scendo, porto il cane fuori",
che avrò una mezza fetta di torta in bocca,
o la saliva di un bacio appena dato,
arriverà, lo farà così in fretta
che non sarò neanche emozionato...
Arriverà che dormo o sogno,
o piscio o mentre sto guidando,
la sentirò benissimo suonare mentre sbando,
e non potrò confonderla con niente,
perché ha un suono maledettamente eterno:
e poi si sente quella volta sola
la viola d'inverno.
Bello è che non sei mai preparato,
che tanto capita sempre agli altri,
vivere in fondo è scontato
che non t'immagini mai che basti
e resta indietro sempre un discorso
e resta indietro sempre un rimorso...
E non potrò parlarti, strizzarti l'occhio,
non potrò farti segni,
tutto questo è vietato da inscrutabili disegni,
e tu ti chiederai che cosa vuole dire tutto quell'improvviso starti intorno
perché tu non potrai,
non la potrai sentire la mia viola d'inverno.
E allora penserò che niente ha avuto senso
a parte questo averti amata,
amata in così poco tempo;
e che il mondo non vale un tuo sorriso,
e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno
e che si tenga il resto,
me compreso, la viola d'inverno.
E dopo aver diviso tutto:
la rabbia, i figli, lo schifo e il volo,
questa è davvero l'unica cosa
che devo proprio fare da solo
e dopo aver diviso tutto
neanche ti avverto che vado via,
ma non mi dire pure stavolta
che faccio di testa mia:
tienila stretta la testa mia.

 
 
 

Riflessioni

Post n°185 pubblicato il 19 Ottobre 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

LA COSCIENZA?
NON È DEFINIBILE BIOLOGICAMENTE

di CARLO OSSOLA

Luigi Aurigemma ( Napoli 1923 – Parigi 2007) è stato tra i fondatori della Società francese di psicologia analitica e ha curato la monumentale edizione italiana delle Opere di C. G. Jung ( 19 voll. in 24 tomi) presso l’editore Boringhieri ( 1969¬2007). Presso lo stesso editore appare ora, postumo, Il risveglio della coscienza, libro che merita la più attenta lettura. Il fulcro è nel saggio, sin qui inedito, Qualche riflessione sulla morte, la cui tesi centrale propone: « per una qualche parte almeno, la psiche, cioè la coscienza, sfugge o può sfuggire al tempo della vita» .
  Si tratta di una affermazione più radicale di quella del cogito, che – da Isidoro di Siviglia ai moralisti del Seicento – palpita, vive e muore, nei 'precordi': « I precordi sono zone vicine al cuore nelle quali affluiscono i sensi; e sono detti precordi poiché in essi è il principio del cuore e del pensiero [principium cordis et cogitationis] » (Etymologiae, XI, 1, 119). Sappiamo che Descartes – celebri le lettere al Meyssonnier del 29 gennaio 1640 e al Mersenne del 30 luglio 1640 – pone fine a quel binomio millenario, ponendo la sede dell’anima e dei pensieri nel conarion, o ' ghiandola pineale': « La mia opinione, dunque, è che questa ghiandola è la principale sede dell’anima e il luogo dove si fanno tutti i nostri pensieri» .
  Da allora è avanzata, sino ai recenti tripudi di Jean- Pierre Changeux, una mappatura neopositivista del cervello che non ha fatto che sviluppare le premesse cartesiane: « Per ciò che concerne le specie che si conservano nella memoria, non immagino che esse siano cosa diversa dalle pieghe che si conservano in questa carta, dopo che è stata piegata una volta » ( ibid.).
  Ma la coscienza, mostra mirabilmente Aurigemma, è più che la memoria e più che il pensiero: è, in certo modo, il lascito che riceviamo e che trasmettiamo, della nostra responsabilità di uomini: « Mi rendo conto che il disfacimento psicofisico che mi attende dissolverà certo quello che, all’atto della mia morte, sarà rimasto della mia vita, ma che questo non coinvolgerà ciò che della coscienza si sarà fatto un po’ più visibile attraverso di me. […] Avrà avuto il senso di aver contribuito, per quanto ho potuto, a liberare la coscienza dall’eccessiva embricazione con la vita».
  La coscienza, insomma, non è definibile biologicamente; è quella consapevolezza che rende l’uomo, in ogni istante, responsabile dell’umanità intera: nihil humani a me alienum puto, diceva già la saggezza latina. Oggi il conoscere è una somma di descrizioni, rese più acuminate dagli strumenti della tecnologia; ma una descrizione anche la più dettagliata non è mai coscienza. « Il ' peso' infinito della coscienza » , scrive Aurigemma, è questo continuo entrare in noi, in ogni fibra, dell’umanità, delle voci che cantano amore, gridano morte, implorano pace. È la voce dei nostri cari, ai quali con il tempo andiamo sempre più rassomigliando, sopra le differenze in cui ci eravamo cullati da giovani; è la voce delle generazioni future, alle quali stiamo rubando aria e acqua.
  Un tempo il ' credere' ebbe a diffidare della psicoanalisi; essa è invece, per la sua capacità inesauribile di ascolto, di cura nella parola, un custode prezioso della ' coscienza', mentre intorno a noi i nuovi attori della ' ghiandola pineale' stanno sistemando i posti ( bugigattoli o poltroncine che siano) dell’anima nel teatro di marionette che è divenuto il nostro cervello.
  Meglio sognare, con Aurigemma, la « grandiosa visione di un universo di individualità responsabili, prese nel processo infinitamente lento di realizzazione della coscienza » : Mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti » ( Paradiso, XVII, 17- 18).

 
 
 

Gioventù Bruciata

Post n°184 pubblicato il 19 Ottobre 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

Le filosofie del nulla vincono
tra i giovani spesso ubriachi


di DAVIDE RONDONI

Li abbiamo sotto gli occhi. Li vediamo storditi, eccitati e un po’ rimbambiti, per strada quasi tutte le sere, o nelle idiote notti bianche o di qualche altro colore inventate da sindaci e assessori. O nei concerti, nei bar, nei locali pulsanti di musica. Li vediamo, o non li vediamo ma li 'sappiamo', nelle feste, in quelle cose che, dài, sono cose tra ragazzi, le feste, i viaggi, le notti... Quasi il venti per cento dei nostri under 18 usa normalmente alcool e superalcolici. In Europa un giovane su quattro muore per violenze (o suicidi) legati all’alcool. Sono cresciuti fino a 61.000 gli alcool-dipendenti assistiti dai servizi sociali, il 19% per cento di più in un anno. E di questi il 15% è fatto di giovani. I nostri ragazzi bevono. Iniziano presto. E poi bevono molto, e male. Non buon vino ai pasti. O magari qualche alzata di gomito in allegria. No, un abbeverarsi di bassa lega, robetta carica di alcool, mix strani stravenduti in ogni supermercato o autogrill. E si beve solo per un motivo, in fondo, come diceva un vecchio adagio: per dimenticare. Ma cosa deve dimenticare un diciassettenne? Un sedicenne? Che spavento di vita, se c’è da doverla dimenticare così presto. Si beve per cercare l’oblìo. La parola sballo, che di solito viene usata, è inesatta. È, per così dire, troppo allegra. In questo bere tanto e bere male dei ragazzi non c’è nulla di allegro.

  Girano in branco e dunque l’alcool – o altre cosette più 'forti' – serve a dare la dose di eccitazione per divertirsi. Appunto: per dimenticare che in realtà non si sta facendo quasi mai nulla di veramente divertente, gioioso. Serve un po’ di eccitazione alcolica per dimenticare non solo il passato, ma il presente un po’ idiota e ripetitivo. Bevono per dimenticare il presente. Oblìo invece di presenza. Nebbia invece di sguardo. Le filosofie del nulla non vincono nei convegni o sulle pagine patinate delle riviste glamour che grondano cinismo: le filosofie del nulla vincono nei bar, nei ritrovi dei ragazzi.

  Colpiscono, come sempre, i più fragili. Lo sguardo velato di cinismo dei grandi cosiddetti maestri del pensiero della nostra epoca –quelli per cui la vita è in fondo una fregatura, da dimenticare o da impugnare contro qualcuno o qualcosa – è diventato lo sguardo annebbiato di tutti questi ragazzi. I maestri e i ragazzi pensano la stessa cosa: che la vita sia da dimenticare. Solo che i primi fanno carriere e conferenze, festival e pubblicazioni. I ragazzi invece bevono, cercano l’oblìo. Hanno tolto da davanti agli occhi dei ragazzi l’abisso di Dio e del cuore umano, l’ebbrezza dell’anima e la possibilità di perdizione. Hanno celato ciò che davvero può inebriare di vita la vita.

  Hanno irriso la grandezza dell’uomo e del suo cuore. E del destino. Li hanno lasciati con ubriachezze di bassa qualità, con oblii da venerdì sera. Vedete forse qualcuno di queste grandi firme di giornali e tv, qualcuno di questi intellettuali inquieto per i nostri ragazzi? Fare ammenda? O interrogarsi con le loro firme dorate (e ben pagate)? C’è una emergenza educativa. E lo ripete l’onorevole Roccella, presentando questi dati, in vista della Conferenza nazionale dell’alcool di domani e martedì a Roma. Ma si deve pure dire che l’emergenza educativa non si può affrontare senza accusare e combattere i cosiddetti maestri del pensiero propagandati come tali da libri e tv e giornali. L’emergenza educativa comporta anche una lotta. Si tratta di criticare culturalmente e socialmente i maestri che, coi loro occhi velati di cinismo, si sporgono da ogni pulpito, on line, radiofonico, televisivo, libresco e scolastico, ad affermare che la vita va dimenticata. E che nulla della vita rende 'ebbri', cioè allegri: né Dio, né l’amore, né l’arte. Ubriacatevi sempre, diceva invece Baudelaire. E intendeva di vita intensa, sentita nelle sue grandi e rischiose dimensioni. Occorrono luoghi dove i ragazzi scoprano la vita piena, come rischio e avventura. Dove avvertano come odiosa la ricerca dell’oblio, e dell’allegria finta e velenosa.

 
 
 

Contro l'autonomia

Post n°183 pubblicato il 11 Ottobre 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

da Gabriel Marcel (Etre et Avoir)
commentato da Emmanuel Mounier

 ….. Il carattere dell’essere umano è di essere all’opposto di ciò che è chiuso in sé, racchiuso come una scatola, “incapsulato”. Gabriel Marcel (nella foto, n.d.r.) ha diretto una critica singolarmente acuta contro l’idea di autonomia. Essa suppone un io rigorosamente circoscritto che gestisco in piena indipendenza, o nel quale io fungo da legislatore, ciò che è solo una forma astratta della gestione. Ma al contrario di questo presupposto, “io non mi appartengo”. Il rapporto da me a me non è un rapporto di avere. Solo l’uomo indisponibile si mantiene nell’avere. Suicidarsi è disporre di sé in massimo grado e in questo senso si può dire che c’è opposizione diretta tra il suicidio e il martirio. Il sé dell’indisponibilità è un ispessimento, una sclerosi, una sorta di espressione sottilizzata, non del “mio corpo”, che è un aspetto della mia esistenza, ma di “questo” corpo che “si” dice mio, preso come oggetto, come cosa che io ho. Certo, la conquista della vita personale esige una condotta permanente di raccoglimento. Ma Gabriel Marcel è molto duro riguardo alla nozione di vita interiore: L’interiorità richiama una costante componente dialettica d’esteriorità. Vivere intensamente, è essere esposti, nel duplice senso in cui la parola indica la disponibilità alle influenze esterne e l’affrontamento caratteristico della persona, il coraggio di esporsi. Vivere personalmente, è assumere una situazione e delle responsabilità sempre nuove e superare incessantemente la situazione acquisita.

Esistere è dunque prendere tutt’altra direzione da quella verso la quale il moto geloso del desiderio mi trascina, è tutt’altra cosa che vivere soltanto la vita, la mia vita. “C’è una cosa che si chiama vivere, e c’è una cosa che si chiama esistere: io ho scelto di esistere”. Il mio essere non si confonde con la mia vita, io sono anteriore alla mia vita, non sono coperto del tutto da essa, sono al di là di essa. La persona è un movimento per superare la vita in ciò che essa è, in ciò che non è. “ il suo motto non è sum, ma sursum”. L’interiorità è, come una serietà, una nozione dialettica. La spiritualità, in un certo senso, è interamente moto verso un intimius intimo meo come è anche moto verso un al di fuori e un al di là di me stesso. Ora, il raccoglimento afferra nel corso della sua tensione una sorta di adesione di me a me stesso; esso può sviluppare sul suo cammino una specie di autosoffocamento che è il rischio proprio di una vita spirituale troppo attenta a se stessa. Un buon soldato o un buon sportivo sono uomini dei quali l’abilità e l’attenzione sono state massimamente sviluppate; e benché siano stati formati così per la massima perfezione, nondimeno sono stati nello stesso preparati anche all’oblio totale di sé in seno al gruppo o nella lotta. Così è della vita personale. Perché restino sane l’interiorità della vita personale e l’amore del prossimo, bisogna che noi sappiamo anche coltivare la distanza, e che con Nitzsche, non temiamo di disinfettare spesso il gusto di ciò che è più vicino con l’amore del remoto.

 
 
 

Gli esistenzialismi

Post n°182 pubblicato il 05 Ottobre 2008 da csmcarbonia

di Emmanuel Mounier

 ...  L’ottimista è colui che conta sempre sull’avvenire, il disperato incastrato nel finito è colui che non conta più su niente e nessuno. Ma entrambi contano. Essi dispongono delle cose e di sé, e giudicano del gioco. “l’inventariabile è il luogo della disperazione”. L’ansietà, la paura dell’avvenire, sentimenti più modesti, sono già malattie dell’avere.. La speranza, invece, è primitivamente un rilassamento dell’io, un rifiuto di voler disporre di me, di calcolare le mie possibilità, una distrazione ontologica volontaria, un abbandono. Non è un modo di beatificare i miei desideri, perché essa è tanto più autentica quanto più si allontana dal desiderio, e rifiuta di immaginare  la sostanza della cosa sperata. Ma essa è pazienza, cioè rinuncia alla premura, all’indiscrezione davanti a ciò che, nel mondo, può nascere indipendentemente dalla mia azione possibile. Non considera il mondo come inventariabile, dunque esauribile, ma al contrario inesauribile. Rifiuta di calcolare  le possibilità, e generalmente di misurare le forze in gioco. In questo senso e su questo piano, essa è una distanza presa nei riguardi del mondo funzionalizzato delle tecniche, formato al servizio dei miei desideri; essa afferma l’inefficacia ultima delle tecniche nella risoluzione del destino dell’uomo. Essa ci pone al polo opposto dell’avere e dell’indisponibilità. Fa credito, dà del tempo, dà spazio all’esperienza in corso. La speranza è il senso  dell’avventura aperta, tratta la realtà come generosa, anche se questa realtà deve apparentemente ostacolare i miei desideri. Noi possiamo rifiutarci alla speranza come all’amore. Essa è dunque una virtù, e non una consolazione o una facilità. Ma è più di una virtù. Entra nelle statuto ontologico di un essere definito come trascendente all’interno di se stesso. Accettarla o rifiutarla, è accettare o rifiutare di essere uomo. ...

 
 
 

Post N° 181

Post n°181 pubblicato il 05 Ottobre 2008 da csmcarbonia

Chiedo anch’io la libertà di coscienza.
Altra cosa dall’auto-determinazione

 di GIUSEPPE BETORI

Sul Foglio di ieri, Roberta de Monticelli prende spunto da alcune mie dichiarazioni, nel contesto di una conferenza stampa, per dare il suo «addio» «a molti cari amici - in quanto cattolici» , «un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica» .
  Trovarmi coinvolto in una così seria decisione mi turba, ma vorrei ricordare che quella parola, «addio», percepita di primo acchito sinistra, contiene in sé una radice promettente. E’ la preposizione ad che spinge verso altro, in ogni caso fuori dal soggetto.
  E in effetti visto che l’argomento del contendere è la fine della vita, tutto cambia a seconda se la vita è destinata oppure senza scopo. In altre parole se la vita si spiega da sé o sottostà come tutta la realtà a quel principio per cui nessuno trova in se stesso la spiegazione del proprio essere. Se si tiene conto di questo, forse si riesce a capire cosa nasconda la parola  autodeterminazione, che vorrebbe fare a meno di questa evidenza.
  E se la signora de Monticelli avesse colto tale passaggio, avrebbe certo compreso che dietro le mie parole «non spetta alla persona decidere» si cela non la negazione della coscienza, ma semmai dell’autosufficienza. Per questo, proprio appellandomi alla coscienza, che l’illustre interlocutrice difende con tanta passione, non posso non prendere le distanze dalla posizione che mi costruisce addosso e che mi viene attribuita senza fondamento.
  Sono infatti sinceramente amareggiato che la mia dichiarazione sia stata letta come «la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale» . Insomma, sarei io – e la Chiesa con me – ad autorizzare il male, negando la possibilità di fare il bene, e farei tutto questo perché non sono per «il principio di autodeterminazione» . Qui si sta costruendo un grande malinteso, legato a cosa significhi in questo contesto il «principio di autodeterminazione»: non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare. Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna.
  Non possiamo confondere, insomma, la libertà della nostra coscienza con la legittimità delle nostre azioni. Il «principio di autodeterminazione» non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa: quando S. Agostino scrive «ama e fa’ ciò che vuoi» , indica che le nostre azioni sono buone solo quando si ispirano a Dio, che è Amore. La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta. Il criterio non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, che è Amore, ed è percepibile ad ogni indagine razionale come il fondamento della nostra stessa identità o natura. Allo stesso modo, la vita non ce la diamo da soli, ma ci viene donata. Difendere questo dono è difendere il bene: difendere la vita significa difendere la possibilità della coscienza, non negarla. Se non sono vivo, certo non posso scegliere. È proprio questa precedenza della vita rispetto ad ogni scelta, questo dono che mi viene fatto, che mi orienta nel valutare le opzioni di fronte a me. Del resto, anche la mia coscienza non me la sono data: genitori, insegnanti, amici mi hanno insegnato a parlare e a pensare.
  Questo tipo di considerazioni porta San Tommaso a insistere tanto sulla prudenza come regola per l’azione: se non si può scegliere in astratto, ma solo a partire dalle concrete situazioni della vita personale, non si può essere buoni in astratto, come vorrebbe l’astratto «principio di autodeterminazione».
  Bisogna cercare di essere «il più buoni possibile» nelle circostanze date: per questo la Chiesa si è decisa per una legge sul fine vita. Un realismo, il suo, che è da sempre il criterio ispiratore della riflessione cattolica, nello sforzo di rendere possibile una scelta buona nella vita di tutti i giorni.
  La vita che viviamo è frutto di relazioni che la generano, sia nel momento del concepimento, sia durante tutto il suo corso. Queste relazioni non terminano con la sofferenza: il dolore non colpisce solo chi soffre – a volte in condizioni estreme – ma anche chi attorno è testimone di tale sofferenza. Tale comune sentire umano – direi questo consentire – sta da sempre a cuore alla Chiesa: davvero non vale niente? E questa passione per l’uomo sarebbe davvero «nichilismo» come conclude l’articolo su Il Foglio? O forse nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine?
  Spero che Roberta de Monticelli – e quanti sono interessati a un dialogo sulla bellezza, la libertà, la vita – non rinunci alla possibilità di un incontro con chi segue Gesù, che è venuto non «per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47). Per questo mi auguro che il suo sia solo un arrivederci.

 
 
 

la felicità è una malattia

Post n°180 pubblicato il 04 Ottobre 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

NON OSAVAMO dirlo. Ma li avevamo individuati, da tempo. Non ci piacevano per niente. Ma non era una questione di meschina invidia. No, qualcosa di piu', che non sapevamo definire. Loro erano i “felici”. Quelli con un sorriso stampato in volto, la pelle rilassata, gli occhi sempre leggermente oltre la testa di chi gli sta di fronte. Camminano e si muovono come fossero in un “mondo caramellato”. Roba da rabbrividire. Gente fuori posto. Ora a confermarci questa idiosincrasia,  ci arrivano poderose ricerche dall’Inghilterra , dove  hanno scoperto che la felicità e' una malattia, frutto del funzionamento anomalo del sistema nervoso centrale. Il felice-sempre e' uno che ha un rapporto distorto con sè, con gli altri, con il mondo. E', ecco ciò che non riuscivamo a definire, un essere pericoloso. Qualcuno che apertamente cerca di farci credere che abitiamo il migliore dei “mondi possibili”, dove non esiste fame, guerra, ingiustizia, in felicità. E' uno in preda alla PRONOIA (il contrario della paranoia) alla mania di credere che tutti lo amino. La sua e' una percezione fallita, senza scampo. Il “felice- sempre”, si aggira, un po' FORREST GUMP, fra le macerie dei sentimenti e del mondo, come passeggiasse su un tappeto persiano, un giardino delle Mille e una notte, sentendo i piedi accarezzati, ascoltando usignoli e zampillii di fontane. Gli scienziatii inglesi  ci assicurano  che la sua mania lo porterà alla schizofrenia. Non ci fa piacere. Ma ci irrita, prima che la raggiunga, questo suo “sentimento” a senso unico, incapace di sofferenza. Di infelicità. Per lui tutto è a posto. Tutto è ok. Non sentire l'infelicità  è come non avere il cuore, non avere la testa. Non avere il metro per misurare noi stessi e il mondo. Non avere per le mani quella scala da salire con fatica verso quel traguardo che vogliamo lontano, irraggiungibile. La  felicità appunto. Qualcosa che non è mai esistita, non esisterà mai, da nessuna parte. ARABA FENICE, UNICORNO, PARADISO, BACIO DI CYRANO. E' solo nell'errare verso la  felicità  che non c'è, verso l'isola che non c'è, che si può cogliere il senso della felicità. Un errare che è anche il modo per continuare a vedere, a misurarsi con il mondo che bello non e'. E che si prova a migliorare con  una Cappella Sistina, un Palazzo,  una Gioconda, una torre di Pisa…  Fatti da persone che felici non erano. (di psicologiaforense).

 
 
 

NOTIZIE

Post n°179 pubblicato il 27 Settembre 2008 da csmcarbonia
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Staminali: ora cambia tutto.
Senza embrioni
(di Elena Molinari)

E’ stato chiamato il «padre» delle staminali embrionali. Ma lo stesso James Thomson (nella foto) ammette in questa intervista concessa ad Avvenire che, dieci anni fa, quando ha isolato la prima cellula indifferenziata estratta da un embrione umano, non si era reso conto delle profonde ripercussioni morali che la sua scoperta avrebbe avuto. Per questo negli ultimi anni, pur non disconoscendo l’uso delle cellule embrionali, ha dedicato le sue energia a superare i dubbi etici che circondano l’uso di embrioni a scopo scientifico o terapeutico. E ci è riuscito.

  Quello che il suo laboratorio ha isolato dieci mesi fa simultaneamente all’équipe del giapponese Shinya Yamanaka, dice, «cambia tutto».

  Thomson e altri ricercatori dell’Università del Wisconsin hanno inserito quattro geni in cellule della pelle di individui adulti, riprogrammandole e spingendole a comportarsi come cellule staminali embrionali. Thomson accetta volentieri di spiegare il suo pensiero a margine del Congresso mondiale sulle staminali, appena concluso proprio nel Wisconsin.

 Professor Thomson, cos’è cambiato nel suo lavoro dopo che ha scoperto la possibilità di sviluppare linee di «cellule staminali pluripotenti indotte» provenienti dalla pelle di individui adulti?

 «Che queste cellule non sono estratte da embrioni. Biologicamente parlando sembrano avere le stesse caratteristiche delle cellule embrionali: queste cellule sono notevolmente simili per il semplice fatto che in teoria possiamo farle trasformare in qualsiasi tessuto del corpo umano in cui vengano trapiantiate. Inoltre, usando questa tecnica le cellule estratte da persone affette da varie malattie possono essere usate per far crescere in laboratorio parti dell’organo affetto dalla malattia stessa: un’operazione che potrà mostrare, ad esempio, se la malattia è stata causata da un difetto genetico».

 Qual è il vantaggio scientifico di questa scoperta?

 «Il tessuto proviene dallo stesso paziente, contiene il suo patrimonio genetico. Questo ci condurrà prima di tutto a produrre più velocemente farmaci migliori e meno costosi. Forse inizialmente ciò avverrà in un modo che non farà notizia, che non comparirà sulla prima pagina del New York Times, ma che cambierà radicalmente la vita di molti pazienti».

 A che stadio è la ricerca di possibili applicazioni cliniche?

 «Ci sono già sforzi in atto, tentativi di usare le staminali per produrre sangue umano, che potrebbe essere usato per incrementare la disponibilità di sangue per trasfusioni, sempre scarsa. Altre terapie cellulari, compresi i trapianti per rimpiazzare cellule danneggiate o distrutte, sono da collocare più in là nel futuro».

 Può darci una stima del tempo che ci vorrà perché queste sperimentazioni diventino terapie utilizzabili negli ospedali?

 «Per i trapianti di cellule, direi cinque o dieci anni. Ma gli scienziati sono notoriamente poco portati a fare predizioni realistiche. Non ho dubbi sul fatto che ci attendono molte difficoltà. Dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare sodo, perché c’è molto da fare. Questi risultati non arrivano da un giorno all’altro».

 Quali sono gli ostacoli più consistenti da superare?

 «Ci sono potenziali ostacoli alla diffusione di terapie di trapianto usando le staminali. Dobbiamo essere in grado di realizzare cellule del tipo che ci interessa, vanno eliminati i dubbi sulla sicurezza delle terapie, come la possibilità che le staminali provochino lo sviluppo di tumori. E dobbiamo integrare le nuove cellule all’interno del corpo in una forma fisiologicamente utile. Questo può avvenire più velocemente in alcune parti del corpo rispetto ad altre».

 In quali parti del corpo prevede che sarà più facile trapiantare efficacemente cellule staminali pluripotenti indotte?

 «La maggior parte delle malattie che studiamo coinvolge il sistema cardiovascolare o il sistema nervoso centrale. Sebbene siano entrambi sistemi molto complessi, i trapianti cellulari saranno più facili nel cuore che nel sistema nervoso. Gli scienziati sono già in grado di produrre cellule cardiache a partire dalle cellule pluripotenti indotte, tanto che le stanno già usando per sperimentare nuovi farmaci. Invece il sistema nervoso è talmente complesso che i trapianti di cellule nervose potrebbero risultare più difficili e richiedere più tempo. Nel breve termine, però, l’osservazione in laboratorio di queste cellule potrebbe aiutare gli scienziati a capire perché il morbo di Parkinson, ad esempio, si manifesta in alcuni individui e non in altri. Le cellule potrebbero anche condurre alla creazione di terapie che prevengano la malattia o ne arrestino l’avanzamento, in modo che i pazienti possano avere una migliore qualità della vita. L’uso delle staminali pluripotenti per veri e propri trapianti risulterà più arduo. Una cosa è produrre tessuti in provetta, un’altra essere in grado di reinserirli nel corpo e ristabilire le connessioni necessarie a dare loro la funzione che devono avere. Ma credo che, prima ancora che nei trapianti, le cellule pluripotenti verranno utilizzate come cellule 'di supporto' per aumentare il flusso sanguigno nell’area affetta da degenerazione e far ricrescere le cellule danneggiate».

 Si chiamano «staminali pluripotenti indotte»: sono cellule adulte E a ottenerle, insieme al giapponese Yamanaka, è stato lui, James Thomson Che ora punta sulla ricerca «etica»

IN SINTESI
1 Le cellule riprogrammate cambieranno la vita dei pazienti.
2 Serviranno per produrre sangue, farmaci e per i trapianti.

(tratto da Avvenire del 25.09.08)

 
 
 

Intervista a Giuliano Dolce

Post n°178 pubblicato il 05 Settembre 2008 da csmcarbonia

«Lo stato vegetativo?
Mai è possibile definirlo irreversibile»

di Viviana Daloiso

C’è confusione, su Eluana. Tanta da far sbottare anche uno come Giuliano Dolce, luminare di livello internazionale, tra i massimi esperti nel campo della neuroriabilitazione. Per lui – che dal 1996 dirige l’Unità di risveglio dell’Istituto Sant’Anna di Crotone – "irreversibilità" degli stati vegetativi e "sospensione" sono termini insulsi, fuorvianti. Da chiarire una volta per tutte.

Professore, si è tornati a parlare di Eluana negli ultimi giorni, e col solito argomento: quello dell’irreversibilità del suo stato vegetativo. Proviamo a fare chiarezza su questo punto: quando uno stato vegetativo può essere definito irreversibile?
Mai. Almeno secondo quanto è stato stabilito dalla conferenza di Londra del 1996, quando neurologi e ricercatori di tutto il mondo si confrontarono sullo stato vegetativo arrivando a cancellare termini come "irreversibile" o "permanente". Infatti oggi sappiamo che oltre il 50% di pazienti in stato vegetativo post-traumatico riacquistano, anche dopo anni, un margine, seppur minimo, di coscienza e diventano pazienti in stato di minima coscienza. Badi bene, cito questa conferenza in modo provocatorio, però…

In che senso?
Il professor Defanti, neurologo che da sempre segue la situazione di Eluana, per dare consistenza alla "certezza" che la ragazza non si sveglierà più – e che quindi andrebbe "lasciata morire" – qualche giorno fa ha tirato in ballo i criteri della "prognosi di irreversibilità" stabiliti da una Task Force statunitense nel 1994, cui lui si sarebbe attenuto rigorosamente. Mi domando, dunque, perché andando indietro di anni ci si debba proprio soffermare su quella Task Force, dimenticando gli esiti dell’incontro di Londra avvenuto due anni dopo, e molto diversi.

È anche vero che da allora molte cose sembrano essere cambiate nell’approccio scientifico ai pazienti in stato vegetativo.
E qui sta il punto. È chiaro che non possiamo rifarci soltanto a ricerche condotte dieci anni fa per esprimere giudizi sulle condizioni di un paziente in stato vegetativo oggi. Questo è proprio il problema avanzato nel ricorso della Procura di Milano: possibile che nel caso di Eluana non si sia tenuto conto degli almeno 15 lavori usciti recentemente a proposito dello stato di coscienza verificato anche in pazienti vegetativi da anni?

Si riferisce alla ricerca del britannico Owen, che utilizzando la risonanza magnetica funzionale ha evidenziato che i pazienti in stato vegetativo sono coscienti?
Non solo. Anche qui a Crotone abbiamo condotto e pubblicato diverse ricerche sui contenuti di coscienza sommersa di pazienti in stato vegetativo. Per esempio abbiamo studiato il cosiddetto "Effetto mamma", pubblicato nel Journal of Psychophysiology nel 2008.

Il risultato?
In queste ricerche si dimostra che nei pazienti in stato vegetativo è possibile registrare i correlati fisici delle emozioni indotte con stimolazione verbale e musicale.

Che significa...
Che significa che ascoltando la «Patetica» di Tchaikovsky, o ricevendo le carezze della madre, il loro ritmo cardiaco si altera proprio come nei soggetti sani.

Professore, Eluana è mai stata sottoposta a questi test?
Mai. Anche perché, e questo va detto, all’epoca del suo incidente le unità di risveglio ancora non esistevano.

Tornando a Owen, la cui ricerca è stata citata proprio nel ricorso della procura di Milano, il suo test è mai stato condotto in Italia?
Ma certo. La macchina per quel tipo di risonanza c’è in molti ospedali. Per esempio a Bologna.

Perché queste prove non vengono condotte anche su Eluana?

Non lo so. Anche perché la Cassazione, pur in un sentenza a mio avviso scorretta, si era espressa chiaramente: per autorizzare l’interruzione dell’alimentazione di Eluana la condizione di stato vegetativo della paziente avrebbe dovuto essere apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna <+corsivo>sia pur minima<+tondo> possibilità di recupero della coscienza. Per Eluana questa minima possibilità non si è cercata. Voglio dire una cosa, però.

Prego.
Poniamo anche che Eluana sia destinata a non risvegliarsi, a non migliorare. Poniamo che tutte le prove effettuate diano risultati negativi, che il suo cervello sia del tutto compromesso, che la sua attività cognitiva sia pari a zero. E poniamo anche che le sue volontà siano accertate, che esista una legge per questo e lei abbia lasciato addirittura per iscritto che vuole non essere curata.

Ebbene?
A quel punto le toglieremmo le cure: cioè, le toglieremmo le medicine (se ne prende) e i trattamenti per le malattie (se ne presenta). Morirebbe? No. E non morirebbe perché Eluana è sana! È affetta da una gravissima disabilità certo, un difetto di coscienza. Ma morirebbe solo se smettessimo di nutrirla. Eccolo il cortocircuito, ecco la balla – me lo lasci dire – che ci viene raccontata. Questi signori ci dicono che Eluana non presenta "segnali" di reversibilità cognitiva e che quindi deve morire: ma Eluana vive, vive una sua vita emotiva e una vegetativa. L’uomo non è tale solo perché ha una coscienza cognitiva. Se no che faremmo dei malati di Alzheimer, dei Parkinsoniani, delle arteriosclerosi cerebrali? Questi son tutti malati che, in fase avanzata, vengono nutriti con sondino naso-gastrico! Che faremmo dei bambini abbandonati nei cassonetti, non gli daremmo il latte? Qui non è in gioco il parametro clinico di una diagnosi.

E cosa?
Qui, con il caso di Eluana, è in gioco il grado di civiltà del nostro Paese.
(TRATTO DA  AVVENIRE, 03.09.08)

 

 
 
 

Bioetica

Post n°177 pubblicato il 28 Agosto 2008 da csmcarbonia


Usa, frenata sulle staminali:
meglio le «totipotenti»
 


DI LORENZO FAZZINI


L’ America lo insegna: bu­siness is business. E re­quiem all’etica. Ma si cambia quando la “morale del mercato” non funziona più. Questa massima la sta vivendo negli Usa la ricerca americana sulle cellule staminali embrio­nali, una pratica scientifica se­veramente criticata perché com­porta la distruzione di embrioni umani. Diversi indizi mostrano che in questi ultimi tempi negli States ci si rivolge con maggior attenzione – anche negli am­bienti dove gli esperimenti sulle staminali riguardano investi­menti milionari – a pratiche più etiche e scientificamente accer­tate.

  Uno dei “santuari” delle em­brionali, l’Harvard Stem Cell In­stitute, ha appena virato verso la ricerca delle totipotenti, la tec­nologia messa a punto dal ricer­catore giapponese Shinya Yama­naka, scopritore delle cellule ri­programmabili, che ottengono gli stessi risultati biomedici del­le embrionali senza distruggere embrioni umani. Nei giorni scor­si, riferisce il London Telegraph,
 George Q. Daley, ricercatore di Harvard, ha annunciato la crea­zione di linee cellulari ripro­grammate contenenti alcune delle più note malattie degene­rative come la distrofia musco­lare e il diabete. « Le linee cellu­lari embrionali sono generiche e permettono di rispondere solo ad interrogativi di base. Ma que­ste nuove linee sono strumenti utili per attaccare le malattie al­la radice » ha dichiarato Daley, in passato grande sostenitore degli esperimenti sugli embrioni.
  Ha cambiato strada anche il Ca­lifornia Institute for Regenerati­ve Medicine ( Cirm) voluto dal governatore Arnold Schwarze­negger, che appoggia con soldi pubblici – in spregio alle regole fissate dall’Amministrazione Bu­sh – le indagini scientifiche sul­le embrionali. Da pochi giorni il Cirm – che dalla sua fondazione ( 2005) ha elargito 3 miliardi di dollari per tali esperimenti – ha svoltato anch’esso in direzione delle totipotenti di Yamanaka. Infatti non si definisce più solo come « il più grande finanziato­re al mondo per la ricerca sulle cellule staminali embrionali » , ma ha aggiunto anche la dizione, fondamentale, di « totipotenti » , ovvero facendo rientrare nel suo campo di interesse ( anche eco­nomico) le scoperte “etiche” del ricercatore nipponico.
  Intanto rischia di chiudere i bat­tenti la Advanced Cell Techno­logy ( Act), una delle aziende bio­mediche più famose al mondo, con sede nel Massachusetts. I numeri sono spietati: l’Act ha un debito di 17 milioni di dollari e una liquidità di un solo milione. Anche il valore azionario è in ca­duta libera: 3 anni fa un’azione della Act valeva 8 dollari, oggi 2,5 cents.
  E pensare che l’Advanced era stata, in prima fila nelle ricerche sulle cellule staminali embrio­nali.
  « Per un decennio ha an­nunciato spettacolari successi u­no dopo l’altro » ha sottolineato il Boston Globe. Fu la prima a proclamare la clonazione di un bovino; i suoi capi annunciaro­no una « ricerca pionieristica » che avrebbe permesso di far re­gredire il processo di invecchia­mento fisico. Nel 2006 strom­bazzò su Nature la prima clona­zione di un embrione umano senza la distruzione di altri em­brioni, salvo dopo fare retro­marcia ammettendo che non e­ra vero. Lo stesso capo di Ad­vanced, Robert Lanza, ne aveva approfittato per chiedere al pre­sidente Bush di togliere il divie­to di finanziamenti federali alla ricerca sulle staminali embrio­nali. (tratto da Avvenire del 22 agosto).

 
 
 
 
 

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RECENSIONE DA MEDICINA E MORALE

Gerini Antonio Cesare, Il significato del ciclo mestruale. Appunti Sparsi sul femminile, Carbonia 1999, pp. 149. sguot@hotmail.com

In questo libro l’Autore, psicoterapeuta, medico psichiatra, analizza il significato del ciclo mestruale da un punto di vista medico-psicologico, con particolare attenzione alla sessualità della donna e al suo rapporto con la maternità. Intento dell’Autore è mettere in risalto come la cosiddetta tensione premestruale, accompagnata da irritabilità e tristezza, sintomi di depressione, sia dovuta al mancato concepimento: “è come se l’organismo femminile si accorgesse già prima  dell’incompiutezza del processo, di non aver raggiunto la finalità implicita, ovvero la fecondazione” (p. 51). Gerini afferma, infatti, che essendo la fecondità un bene e un valore profondamente insito nel corpo, “il suo venir meno è sempre causa di sofferenza, anche se vissuta più o meno consapevolmente” (p. 51).
  Sottolineando la finalità unitivo-generativa del ciclo mestruale (ovulazione e flusso mestruale) che la donna vive intensamente in tutte le fasi feconde della sua vita e che portano il suo corpo ad orientarsi verso una dimensione che sia soprattutto generativa e creativa, Gerini afferma che “non è nel profondo ed essenzialmente ricerca di piacere e desiderio di questo stato affettivo, ma quella di unità tra due esseri di sesso diverso che in questo incontro generano e custodiscono un’altra persona, il loro figlio” (p. 145). A questo proposito l’Autore distingue due momenti caratterizzanti il ciclo mestruale: il primo, culminante con l’ovulazione, si manifesta con una tendenza “centrifuga”, ossia orientata verso l’esterno, verso l’incontro sessuale che è un incontro unitivo e procreativo. Tutto il corpo partecipa a questa pulsione con espansioni affettive di tipo espansivo-comunicative. Se, tuttavia, il concepimento non è avvenuto, si ha la regressione del corpo luteo e la cessazione della sua attività ormonale. L’arrivo del flusso mestruale (secondo momento) ne è la manifestazione più evidente.
  Gli stati emotivi che si accompagnano al flusso mestruale sono molto diversi e possono essere individuati nella vergogna, nella colpa, nell’angoscia, nell’ansia, secondo una modalità esistenziale che ricorda alla donna il “fallimento” del progetto di fecondità insito nella natura stessa.
  Per tutti questi fattori Gerini afferma che il ciclo mestruale è la testimonianza di quanto “la sessualità sia connaturalmente legata alla generatività e il non raggiungimento di tale obiettivo è causa di sofferenza somato-psichica evidente, sebbene spesso molto sfumata” (p. 47).

Trovi il lavoro intero all'indirizzo http://www.psichiatriasirai.org/signif-ciclo-mestr-libro.htm

 

TEATRO E FOLLIA

METODO DI LAVORO

 di Claudio Misculin

Parlando di “metodo di lavoro”, mi sento in dovere da affermare che non esiste metodo in arte, esiste l’esperienza.
Io ho fatto un’esperienza alla quale ci si può riferire.
L’arte è un’apertura permanente che non si può vivere senza l’accettazione e la ricerca lucida e deliberata del rischio (Kantor)
Ebbene il fattore rischio che ho scelto per giocare all’interno dell’arte è la “follia”.

E’ una ricerca che tiene aperti, spesso faticosamente, spazi che si vanno rapidamente omologando, sfere che tendono ad automizzarsi, nella schizzofrenia del singolo e in quella più generale.
Quindi il teatro diventa anche mezzo, strumento di concreta quotidiana mediazione d’oggetto con altri soggetti, sani o malati che siano. Luogo di produzione di cultura, attività di formazione alla relazione con uomini e donne e cose.
Siccome parliamo di una ricerca tra teatro e follia, che non esclude, ma travalica il mero aspetto terapeutico, per cogliere sino in fondo nel profondo l’essenza e la validità di tale metodo di lavoro, cominceremo a viverlo e a pensarlo come strumento efficace per un buon approccio al teatro, non solo per il matto, il disgraziato, il differente, ma anche per il normale che intende cimentarsi nel teatro.
E per finire sul “metodo di lavoro” vorrei dire due parole sull’eccesso, e cioè  Viviamo nella dimensione dell’anticipazione dei desideri. Cioè i miei desideri non nascono più da pulsioni interne, ma dalla scelta delle soluzioni fornitemi.
Faccio un esempio: posso scegliere tra mille tipi di dentifricio, ma non posso scegliere l’aria pura: non c’è più.
Viviamo già nell’eccesso: eccesso di mezzi, di strumenti, di ignoranza. Il risultato è incomprensione della realtà, incomprensione di se stessi, incomprensione.
Il palco è per convenzione il luogo deputato all’eccesso. E nel mio teatro questo è.
E’ il luogo magico, il luogo del delirio che offre le valenze alla ricomposizione immediata del soggetto, mentre oggettivamente è una finestra che permette la visione delle contraddizioni.
il sistema dell’eccesso.

 

"N O R M A L I T À"

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi e' infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicita'.
Pablo Neruda

 

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