C'era una volta lItaliano-15

Post n°124 pubblicato il 30 Settembre 2011 da tino.pos

C’era una volta … l’Italiano

Considerazioni (un po’) amare

di Nino L. Bagnoli

(15)

A gratis – È una locuzione prettamente romanesca (aggratis [Belli] o aggratise [Zanazzo] ) rapidamente diffusasi, poi, in tutta l’Italia, a discapito del corretto «gratis», ai tempi dei film ambientati a Roma (anni ’50 e ‘6o) , in virtù della popolarità di interpreti come Sordi, Fabrizi, Magnani. Ma, finché il vernacolo è usato nell’ambito «letterario», nulla da recriminare. in una poesia, in un racconto, in un testo teatrale il dialetto è al suo giusto posto, ha la stessa dignità della Lingua. Ma chi lo inserisca, invece, in un contesto in lingua italiana, commette un errore imperdonabile, soprattutto se ciò accade in televisione perché è noto il ruolo di cassa di risonanza della Tivvù. L’errore si sparge con rapidità supersonica in tutta la penisola e lo sciagurato che la mette in circolazione, sia esso un “creativo” o un “testimonial” commette un crimine grave, anche se il lassismo delle autorità nella tutela della lingua nazionale, lo lascerà impunito.

Millilitro – È la millesima parte del Litro, e l’accento tonico cade sulla seconda /i/: millìlitro, e non sulla terza: millilìtro, come si sente di continuo in Tivvù.

Stage – Questo sostantivo, con la stessa grafia, è presente sia in inglese che in francese; ma la pronuncia e il significato sono differenti. Il vocabolo francese si pronuncia [staʒ] e significa, secondo il Dizionario Robert: 1) “periodo di studi pratici imposto ai candidati ad alcune professioni” (quello che noi chiamiamo “tirocinio”); 2) “periodo di formazione o di perfezionamento”. È, insomma, quello che i nostri giovani, compresi quelli che li frequentano, chiamano “steig” (pronunciando la “g” finale con suono palatale, quello, per intenderci, di “gioco”, “giorno”), per l’ignoranza dominante tra studenti e tra docenti, tutti vittime dell’ormai inveterata abitudine di pronunciare “all’inglese” tutte –o quasi- le parole straniere. Lo “stage” inglese [steidʒ] ha diversi significati, ma, di certo, tra essi non ci sono né tirocinio né corso di perfezionamento.
Il significato primario è “palcoscenico” (ricordate il “back stage” di cui si sente tanto parlare in ambienti teatrali ma, soprattutto, cinematografici?); l’altro significato è “tappa” nel senso di distanza tra un posto e l’altro dove ci si ferma durante un viaggio, una gara ecc.

Ridurre in poltiglia (un pezzo di carta strappato) [Giudice Marzano («Forum»)] – Come il solito, “Forum” ci delizia con qualche svarione linguistico. In una cosiddetta “causa”, uno dei due contendenti accusava l’altro di aver stracciato un foglio di carta riducendolo «in poltiglia». Nella lingua italiana, strappare ha diversi significati, ma, nel caso di un foglio di carta, ne ha uno inequivoco: «Stracciare, lacerare, rompere in più parti materiale poco resistente: “strappare un foglio, una lettera, un lenzuolo”. Un simile gesto, come è chiaro, riduce il foglio in pezzi, in brandelli, non in «poltiglia». La poltiglia, secondo il vocabolario, è un «Composto piuttosto liquido di sostanze, anche commestibili, farinose o in polvere: “una poltiglia di crusca; preparare la poltiglia per l'impiastro”». Ora, la carta, semplicemente “strappata” non ga alcunché di “liquido”. Fin qui il discorso riguarda uno dei “litiganti”, cioè quello che ha (smarronando) esposto i fatti. E non c’è alcuna legge (purtroppo) che sanzioni i seviziatori della Lingua. Il grave è venuto fuori dopo, quando il Giudice-arbitro, nella “decisione”, ha fatto proprio lo stesso errore, dimostrando altrettanta superficialità.

“Fammi parlare anche a me”(frequente a “Forum” e in altri programmi televisivi). Altro esempio di scarsa conoscenza delle regole grammaticali e sintattiche che risale alla cattiva istruzione elementare, o al persistere, nei discorsi in lingua, di “relitti dialettali” di cui si fa fatica a liberarsi.  La locuzione corretta è, dunque: «Fai parlare anche me» È lo stesso errore che si commette, ormai da tempo, e sempre in televisione quando in ballo c’è il verbo «colpire»: “quello che a me colpisce”  (Telese, “In onda”) o, peggio, “quello che a me mi colpisce” (la adenoidea Luisella Costamagna [In onda-26-6-11]), “la cosa che a me colpisce (Fassino –Porta a Porta – 16 dic. 2010), “a me ha molto colpito” (Rita Dalla Chiesa, “Forum”). Oltre all’inutile iterazione del pronome (una volta i maestri seri ammonivano gli allievi a non dire mai “a me mi”), nelle frasi sopra riportate l’errore grave è un altro, ed è nella costruzione della proposizione. «Colpire» è verbo transitivo, e, come tale, deve essere seguito da un complemento oggetto (nel caso, me) e mai da un complemento di termine (nel caso, a me). La causa di questo diffuso errore, è da ricercarsi nella cattiva istruzione ricevuta nelle scuole elementari (e successive) dove gli scolari non han ben digerito la doppia funzione del pronome di prima persona singolare «mi», quella di complemento oggetto (me): non mi ha visto (non ha visto me); mi verrà a trovare domani (verrà a trovare me domani); lasciami! (lascia me); e quella di complemento di termine (a me): mi ha raccontato delle storie (ha raccontato delle storie a me); mi sembra che non sia giusto (a me sembra che non sia giusto); dammi una mano (dai una mano a me).
Che si può fare per “redimere” tutta questa congerie di smarronanti? Poco o niente. Il danno grave è che costoro sono giornalisti, conduttori televisivi, star della comunicazione, quindi potenziali “untori”,  potenziali responsabili della diffusione di questo fenomeno negativo. Avvertirli e sperare che si emendino? Con la supponenza che li caratterizza, c’è poco da illudersi.
            

“In attesa che partino  i nuovi provvedimenti …” – La frase, con lo strafalcione grammaticale è stata pronunciata dal Ministro Sacconi nella puntata di Porta a Porta del 25 0ttobre 2010. Dobbiamo offendere i lettori spiegando loro che la forma giusta del verbo era “partano”? Speriamo di no. Però non possiamo fare a meno di chiederci come si possa aver conseguito la licenza elementare, poi il diploma, poi la laurea in Giurisprudenza con simili “debiti” scolastici.

Di tutto di più Almeno una cosa la Rai l’ha azzeccata: lo slogan  pubblicitario che da qualche anno martella i nostri occhi e i nostri orecchi. Il “creativo” questa volta ha fatto centro. La locuzione è, ormai, entrata nel “lessico familiare” di tutti gli sprovveduti utenti che la “sparano” ad ogni piè sospinto, col solito pappagallismo becero e ignorante. Che cosa vuol dire “di tutto di più”? Bisticcio a parte, tutto è “tutto”, non ci può essere  qualcosa che si possa aggiungere al “tutto”. Certo, si sa che i “creativi” della pubblicità non guardano troppo per il sottile agli aspetti grammaticali, ma che li si possa (o debba) imitare impunemente, questo proprio no.

Quant’altro Questo mostriciattolo imperversa ormai da anni, specie in Tivvù, ed è diventato un vero e proprio intercalare, usato al posto di “eccetera”, “e così via” e simili. Si tratta di due pronomi e aggettivi che hanno una loro specifica funzione. Messi insieme non significano nulla a meno che non siano seguiti da un verbo (al congiuntivo): ”e quant’altro tu possa dire” , “e quant’altro io sia in grado di fare”.

“stante alle … (Livia Turco, in “Omnibus” - 22-nov. 2010) - «stante» («stanti», al plurale), è il participio presente del verbo «stare»; usato con valore di preposizione causale, nel significato dia causa di, per la presenza o in considerazione di”, regge il complemento oggetto e non il complemento di termine, quindi si deve dire «stante le» e non «stante alle»: “stante la presente carestia”; “stante il cattivo tempo”; “stanti le pessime condizioni del mare”; “stanti le numerose richieste”, eccetera. Un Corso di recupero sarebbe gradito.

 15) Continua

 
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C'era una volta l'italiano-14

Post n°123 pubblicato il 04 Settembre 2011 da tino.pos

 

C’era una volta … l’Italiano
Considerazioni un po’ amare
di Nino L. Bagnoli

(14)

 

Al di là da (al di qua da –al di sotto di –al di sopra di) Sono francesismi, non solo, ma sono anche più dispendiosi in termini di parole da usare. Le corrette locuzioni avverbiali o preposizionali (che brutto termine!) sono più brevi e sono: di là da – di qua da – sotto – sopra. Le locuzioni sbagliate lasciatele ai canzonettisti (“Al di là del bene più profondo, ci sei tu” e via con il lagno). Ma, devo ricordare ai parolieri moderni che un vecchio canto alpino diceva: “di là, di là dal Piave, ci stava un’osteria; là c’è da bere e da mangiare, ed un buon letto per riposar …”

BurtBurton Sono nomi e cognomi anglosassoni che vengono sempre “storpiati” nella pronuncia dai nostri compatrioti. Costoro, in buona fede (pochi) o in malafede (la maggior parte), convinti di conoscere l’Inglese, non si sognano mai di andare a controllare su un buon vocabolario la corretta pronuncia, e la sbagliano puntualmente. Burt è pronunciato /bart/  anzi che /bɜ:t/; Burton non si pronuncia /bàrton/ ma /bɜ:tn/, per intenderci, la stessa di bird (uccello): /bɜ:d/. È la “normale” pronuncia della /u/ , della /e/ e della /i/ seguite da /r/ più un’altra consonante.             

Credo che non ce ne sia di bisogno  (Gelmini – “L’ultima parola”) – È una tipica espressione lumbàrd che potremmo (a fatica) perdonare a Bossi, o ad un suo compagno “di lotta e di governo”. Sentirla uscire dalla bocca delicata di Maria Stella Gelmini, ci ha fatto aggricciare la pelle. Va bene che è laureata in Legge e che è andata a Reggio Calabria a sostenere l’esame di abilitazione alla Professione forense (perché in quel capoluogo gli esaminatori sono piuttosto di manica larga), ma se consideriamo che presentemente è Ministro della pubblica Istruzione e che ha da poco attuata una riforma della Scuola  nella quale si sostiene la necessità di “tornare al merito”, la nostra pelle si è lacerata. Ma che sia la poltrona di viale Trastevere (a Roma) a giocare brutti scherzi ai Ministri? Perché ricorderete che tempo fa rendemmo noto lo stupefacente “ non essere in grado a parlare” pronunciato a Porta a Porta da un altro ex Ministro (anch’egli della Pubblica Istruzione) Giuseppe Fioroni.
Avvocato (sia pure grazie a Reggio Calabria) Gelmini, andiamo, vediamo di liberarci delle scorie del dialetto. Almeno fino a che rimarrà a viale Trastevere. Perché sarebbe bastato solo togliere di mezzo quel di, e la “faccia” si sarebbe salvata.

Salubre – aggettivo che significa  “Che dà salute, che giova alla salute: clima, aria, ambiente salubre”.  Questo aggettivo, come il suo “contrario” Insalubre (“Che è nocivo alla salute: zona paludosa e insalubre”) sono parole piane e quindi si accentano sulla /u/: salùbre e insalùbre. Sono “in servizio” nella lingua italiana fin dal 1481, quindi non dall’altro ieri, e pure moltissimi, compreso qualche presunto o soi-disant intellettuale continuano a pronunciarle come sdrucciole; sàlubre e insàlubre. L’etimologia non fa sconti, le due parole discendono –anzi, sono dei veri e propri “calchi”- dagli aggettivi latini salūbre(m)  e insalūbre(m). Gli avvocati-giudici di Forum dovrebbero stare più attenti.

Defenestramento questo termine, che non esiste nella lingua italiana,  è stato usato da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” al posto di “defenestrazione”, deverbale di “defenestrare”, che significa, letteralmente, “gettare dalla finestra”, ma che, in senso traslato, sta per  “privare qualcuno di un ufficio, di una carica e sim., spec. in modo brusco e inatteso”, in breve, cacciare, licenziare. L’origine di questo verbo si fa risalire all’episodio della “defenestrazione di Praga” quando, nel 1618, i protestanti boemi insorti, gettarono dalla finestra del Palazzo reale di Praga due dei Governatori imperiali provocando in tal modo l’inizio della Guerra dei Trent’anni. Per la verità storica, però, va ricordato che quella del 1618 non fu la prima “defenestrazione” praghese e neppure l’ultima. Se ne ricordano due precedenti: la prima nel 1419, quando un folto gruppo di praghesi Hussiti -cioè seguaci del riformatore Jan Huss, (1371-1419), poi finito sul rogo come eretico- “defenestrò” sette membri del consiglio cittadino; la seconda, sempre ad opera di radicali Hussiti, i quali, nel 1483, entrati nel Municipio praghese, defenestrarono il Borgomastro ed alcuni consiglieri. 
In epoca più vicina a noi, va ricordato  il caso di Jan Masarik, ministro degli esteri cecoslovacco, che venne rinvenuto senza vita sotto una finestra del ministero a Praga il 10 marzo 1948. Masaryk era l'unico ministro non socialista nel governo comunista del Paese, e si sapeva che non era del tutto “allineato”. Non è stato mai chiarito come sia precipitato dalla finestra. E, forse, non lo sarà mai.
A proposito di Jan Huss, val la pena di ricordare una curiosità poco nota ai più: Mussolini, allora trentenne e acceso “mangiapreti”, scrisse un libretto intitolato “Giovanni Huss – il Veridico”, pubblicato a Roma da Podrecca e Galantara, nel 1913.

Establishment È un vocabolo inglese la cui pronuncia corretta è con l’accento tonico sulla “a”: estàblishment  e che indica la classe dirigente, la dirigenza di una società. Per Michele Emiliano, sindaco di Bari ed ex magistrato, in un suo intervento a “L’ultima parola”, la trasmissione di approfondimento condotta da Gianluigi Paragone, l’accento, invece, doveva cadere sulla “i”, Establìshment, con grave fastidio di molti ascoltatori, noi per primi.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma c’è forse l’obbligo di sapere l’inglese”? Eccoci pronti, qui, a dar ragione a questo “qualcuno”; no, non c’è alcun obbligo. E ci mancherebbe altro! C’è, però, un altro obbligo: quello di non usare parole di altre lingue se non si è in grado di conoscerne il significato e la corretta pronuncia. La Lingua italiana è talmente ricca di vocaboli da poter soddisfare qualunque esigenza di traduzione di parole straniere.

Governance  Altra parola inglese che da un po’ di tempo a questa parte è entrata nel lessico di molti nostri “politici” e di “uomini d’affari”. In Italiano si traduce con “dirigenza”, “amministrazione”, di un Ente, di un’Azienda, di una Società. Il termine inglese si pronuncia, come molti altri del suo gruppo (govern, government, governor, governable, governess ) con l’accento tonico sulla prima sillaba: /go/. Questo vale per qualsiasi studente, dalle medie in su. Non vale, evidentemente, per i professori universitari, se uno di loro, sia pure “prestato” alla politica, può tranquillamente pronunciare, in Tivvù, govèrnans”.  E non trovare un interlocutore che glielo faccia notare, come invece fa lui quando qualcuno, in sua presenza, sbagli –che so- una citazione latina.

Ha vissuto a Napoli – È un errore molto comune, ma non per questo giustificabile. Il verbo vivere è un verbo intransitivo, e come tale, nei tempi composti, si coniuga con il verbo ausiliare  “essere”, non già con “avere”. Dopo le Elementari (o, per bontà d’animo, dopo le Medie) un errore del genere dovrebbe portare ad una solenne bocciatura. Che l’errore, poi, lo commetta un  Avvocato (per giunta con la toga di Giudice Arbitro di “Forum”) è molto, molto grave.

Ho ribattuto a tutte le accuse – Errore molto grave: ribattere è verbo transitivo, perciò regge il complemento oggetto, non certo il complemento di termine. La frase corretta è “Ho ribattuto tutte le accuse”.

(14 - Continua)

 
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Per grazia ricevuta

Post n°122 pubblicato il 17 Dicembre 2010 da tino.pos

Meno male che c'è (ancora) Silvio!

di
Nino L. Bagnoli

Togliamo subito di mezzo qualsiasi equivoco: non sono parole dal nostro sen fuggite, anzi, il contrario.
Personalmente, noi, non siamo intruppati in nessuno dei 3.247 (al momento) schieramenti politici di questa nostra bella Italia, che ancora, dopo tanto secoli, si divide quotidianamente tra Bianchi e Neri, tra Guelfi e Ghibellini; tra quelli che vinsero e quelli che furono sconfitti nella battaglia di Montaperti, tra laici e confessionali (spesso senza neppur sapere il vero significato dei due termini), tra ex fascisti (quasi sempre rimasti tali) ed ex comunisti (altrettanto).
Punto.
Il "meno male che c'è -ancora- Silvio", invece,  gira, da giorni, in molti studi televisivi, soprattutto della RAI, dove, fino al 13 dicembre scorso, tra i conduttori, aleggiava un'aria di forte preoccupazione per l'incerto loro futuro nel caso che il Cav fosse sfiduciato.
Futuro incerto perché, in quel caso, sarebbero venuti a perdere efficacia tutti i "copioni" che ormai da anni fanno da supporto alle loro trasmissioni.
È per questo che tutti costoro hanno tirato un grosso sospiro di sollievo quando hanno appreso che, non ostante i tripli salti mortali di Fini, il Cav aveva di nuovo ottenuta la fiducia.
E si sono sentiti tanto in debito di riconoscenza nei confronti dell'Altissimo, da essi, peraltro, ritenuto un "concorrente", da decidere di doversi, in qualche modo, sdebitare con una visita a qualche "Santuario".
È stato per questo che la "Romana Pellegrinaggi" ha subito un vero assalto di massa per la prenotazione di un posto sui pullman per questa o quella destinazione.
Tra i più veloci a telefonare si è distinto Michele - chi-Sant'Oro, con tutta la squadraccia composta da Formigli, Iacona, Ruotolo e Vauro. Siccome sono i più a rischio, hanno voluto andare sul sicuro ed hanno prenotato il giro completo: Loreto, Cascia, San Giovanni Rotondo, Assisi, Padova, Medjugorje, Częstochowa, Lourdes e Fatima, con eventuale prolungamento fino a Santiago de Compostela.
Nello stesso tempo, hanno ordinato alla Cereria Pontificia una congrua fornitura di ceri votivi di varie dimensioni (ricordate Peppone?) per meglio manifestare la propria riconoscenza.
Avuto sentore di ciò, anche altri si sono accodati.
Luisella Costamagna, in procinto di aggregarsi alla comitiva Sant'orina (da cui proviene) ha chiesto all'otorino di rinviare, ancora una volta, l'intervento per l'asportazione chirurgica delle adenoidi e di privilegiare, per l'occasione, la bonifica delle ghiandole velenifere poste in fondo al palato (tanto quelle, fan presto a ricaricarsi);
Vergassola e la Dandini (che, per l'occasione, finalmente per la salute dei nostri occhi, dovrà indossare gonne lunghe fin sotto -molto sotto- il ginocchio);
Fazio e la Litizzetto (anche lei come la Dandini);
Travaglio che è preoccupato perché durante il viaggio non potrà più scopiazzare dagli atti giudiziari (fintamente secretati) e non saprà cosa dire per tanti -troppi- giorni;
Floris che avrà, sul pullman, poco spazio per le sue passeggiatine avanti e indré e meno occasioni di sfoggiare il suo ghigno "alla Bocchino".
Lilly Gruber, pur soffrendo per l'impossibilità, per una quindicina di giorni, di essere ripresa di tre quarti (dopo essere passata, prima, dal chirurgo plastico), avrà se non altro l'agio di ripassare un po' di grammatica italiana e capire, alla fine, qual è la funzione propria della locuzione avverbiale "piuttosto che" (ma lei è un po' giustificata in quanto, da sudtiroler, ha studiato l'italiano come lingua straniera);
la stessa possibilità di migliorare un poco il suo strano italiano l'avrà anche Lucia Annunziata che, però, non ha la giustificazione della nascita all'estero come la Gruber:
Milena Gabanelli passerà il tempo pensando a come racimolare i milioni che dovrà pagare, qualora fosse condannata,  per risarcimento danni.
Non mancheranno, certo, l'infedele Gad Lerner, il direttore Ezio Mauro (anche in rappresentanza di BarbaPapà), Paolo Rossi, Daniele Luttazzi e Maurizio Crozza.
Tutti miracolati dal voto del 14 dicembre, senza il quale sarebbero tornati nell'anonimato più squallido se  non ci fosse stato ancora Silvio, loro unica e  ultima fonte di (ricca) sopravvivenza.
Poter ancora campare, val bene un Pellegrinaggio.

 
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C'era una volta l'Italiano 13

Post n°121 pubblicato il 07 Aprile 2010 da tino.pos

C’era una volta … l’Italiano

Considerazioni (un po’) amare

di Nino L. Bagnoli

(13) 

Nuovo florilegio (5)  

«Non essere in grado a stirare» - Massimo Giletti, da un po’ di tempo a questa parte sta, piano piano, insidiando il record di gaffe targate RAI, detenuto per molti anni da Luca Giurato. L’ultima che abbiamo ascoltato, nella trasmissione «L’Arena», è stata quella riportata nell’incipit di questo capitolo.  I nostri lettori hanno già letto, in queste note (puntata precedente) la stramba costruzione sintattica usata dall’ex ministro delle Pubblica Istruzione Fioroni, molto simile a quella di Giletti. Il quale, così procedendo, ha, forse, un posto assicurato in un prossimo (?) governo di sinistra.
Dobbiamo ribadire che la preposizione giusta era
«di»?
Speriamo di no.
 

«affatto» - Nelle nostre scorrerie nei canali televisivi, come potrete immaginare, ne sentiamo di cotte e di crude. I nostri “mezzibusti”, giornalisti o intrattenitori sembrano volerci molto bene e si dànno un gran da fare per non lasciarci senza materiale per la nostra rubrichetta.
Il marrone di cui stiamo per rendervi edotti è l’uso improprio dell’avverbio
«affatto», il quale, in buona lingua, ha il significato di “interamente” , “del tutto”, ma che, con grande disinvoltura, è usato quasi sempre con valore negativo. Quando qualcuno vi chiede se siete stanco e voi lo siete, rispondete pure «affatto», ossia “del tutto”, se non lo siete, dovete rispondere «niente affatto», o «non sono affatto stanco». Difficile? Per tanti, forse, lo è. 

«alzare le mani a qualcuno» - Lo si sente, con sconcertante frequenza, in alcuni “talk show” e nei “reality”, nel senso di “percuotere”, “picchiare” e simili. Eccellono, in questa brutta e scorretta costruzione Rita Dalla Chiesa e i suoi due palafrenieri, oltre a molti (troppi) dei cosiddetti «opinionisti» (pensate che balzo all’indietro ha fatto il valore delle parole!) che affollano lo studio di «Forum». Ogni occasione è buona per enfatizzare che «le mani non si alzano a nessuno!»
E, invece, sarebbe sacrosanto diritto degli onesti spettatori vilipesi dai troppi insulti alla Lingua italiana che si perpetrano in quella trasmissione, di «alzare le mani su qualcuno di loro». 

«avere il diritto a chiedere» -  Altra costruzione errata. A parte il fatto che oggi chiunque apra la bocca, esordisce rivendicando un diritto, il più delle volte solo presunto, va notato che, eventualmente, si ha il «diritto di chiedere».
E, a proposito di chiedere, pochi sanno la differenza tra «chiedere» e «domandare». Ricordiamo che «si chiede» per ottenere qualcosa un favore, un documento, ecc., mentre «si domanda» per sapere qualcosa, come un’informazione stradale, la giusta coniugazione di un verbo e così via. 

«defaticante» / «defatigante» - I due verbi, quasi omografi, non sono sinonimi, anzi, hanno significati opposti. Il primo, infatti, «defaticante», significa «che consente defaticamento», e si applica a quegli esercizi fisici, di breve durata e a ritmo leggero, che si praticano per rilassare i muscoli dopo una prestazione impegnativa. L’altro, «defatigante», vuol dire «logorante, stancante», come può essere un esercizio fisico particolarmente intenso, o come l’assistere a certi programmi televisivi.  
Appare evidente che si deve prestare particolare attenzione nell’usare l’uno o l’altro.
 

«dimissioni e dimissione» - Da oltre cinquant’anni è viva la polemica sull’espressione «rassegnare le proprie dimissioni», caratteristica del linguaggio burocratico, ottocentesca, ridondante e irrazionale. Ma, si sa, la burocrazia è dura a morire. Intanto quel «proprie», che senso ha? Potrei io presentare le dimissioni di un altro? E perché «rassegnare» le dimissioni? “Presentare” apparve, forse, troppo banale al funzionario di turno nel “Reparto Creativo Mostri Lessicali”? Ma, soprattutto, perché «le dimissioni»? Non basta una?
Questo mostriciattolo ha ingenerato una grave confusione nel cranio del giornalista Mastromauri del TG5, il quale, dall’esterno dell’Ospedale dove era ricoverato Berlusconi, dopo l’aggressione subita in piazza Duomo a Milano nel pomeriggio del 13 dicembre 2009, dovendo riferire della imminente decisione dei medici di «dimettere» il Presidente dall’Ospedale, si è più volte “incartato”  nel discorso parlando di «dimissioni»  del Premier, anzi che di «dimissione».
Ringalluzzendo, così, le speranze dei tanti oppositori.

«guàina» - La pronuncia del sostantivo è errata. Forse i «creativi» della pubblicità televisiva non lo sanno (ma leviamo pure il “forse”), e tanto meno lo sanno le donnine che, in abiti succinti, mostrano l’indumento “snellente” e ne consigliano l’uso. Il vocabolo «guaìna» , in buona Lingua, deve essere pronunciato con l’accento tonico sulla : «guaìna».Con buona pace dei pubblicitari.
Ricordiamo, poi, che l’oggetto di cui parliamo prende il nome dalla guaìna del pugnale o della sciabola, quello che alcuni chiamano anche “fodero”. Ma se pensate al verbo che indica l’azione di estrarre la sciabola dal fodero, ricorderete che quel verbo è, appunto, «sguainare».
 

«è quello che abbiamo bisogno» - È una frase che si comincia a sentire troppo spesso in Tivvù, sulla bocca delle persone intervistate per la strada, nei mercati, nei posti di lavoro. È la conferma del pessimo stato in cui versa la nostra lingua. Fa il paio con l’altra espressione «è un popolo che piace sognare» , che ricorre anch’essa attraverso i microfoni televisivi. È chiaro che la Lingua vuole che il pronome giusto sia, nel primo caso, «di cui», e, nel secondo, sia «cui» . Di sicuro, in nessuno dei due potrà essere «che».

«la cosa che a me colpisce» - Questo erroraccio è uscito dalla bocca di Elisa Caleffi, giornalista di Libero, nel corso di un suo intervento a “8 e ½”, la rubrica di Lilly Gruber, sulla “7”. Due o tre di questi errori, in uno scritto presentato in una prova per l’ammissione all’Ordine, dovrebbe comportare, da parte di una Commissione “seria”, l’esclusione del candidato. E, da parte del Direttore del giornale, l’«invito» a frequentare un “corso di recupero”. Il verbo colpire è un verbo transitivo, quindi si costruisce con il complemento oggetto (me), non con il complemento di termine (a me). Cosa può aver indotto la giornalista ad un marrone così grave? Presumiamo che ella abbia più volte sentito la frase «quello che mi colpisce» ed, essendo poco pratica di grammatica e di sintassi, abbia dimenticato che il pronome «mi» significa sia «me» (complemento oggetto) che «a me» (complemento di termine), ed ha usato quest’ultimo al posto del più corretto «me», posto dopo il verbo, ovviamente.
Voto: 2, per indulgenza.

 

 
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C'era una volta l'Italiano 12

Post n°120 pubblicato il 22 Marzo 2010 da tino.pos

C’era una volta … l’Italiano

Considerazioni (un po’) amare
di Nino L. Bagnoli

(12) 

Nuovo florilegio (4)  

«non essere in grado a parlare» - Questo modo di raccordare il primo gruppo della proposizione (non essere in grado) con il secondo (parlare) mediante la preposizione «a», è oltremodo scorretto. La preposizione idonea è «di». Forse a Viterbo, ridente ittadina (!) del Lazio, e patria dell’illustre personaggio , si è poco inclini ad occuparsi di queste bagattelle sintattiche.
Infatti “così parlò” (Porta a Porta - 8 feb. 2010) l’ex ministro Fioroni. Può essere una giustificazione il fatto che egli sia medico-chirurgo? Non l’accettiamo. Conosciamo molti medici che trattano bene l’Italiano. È un’aggravante, invece, il fatto che egli sia stato ministro –udite, udite!- della Pubblica Istruzione nel 2° Governo Prodi. Ma questo, magari, aiuta a comprendere perché l’istruzione in Italia sia ad un livello così basso. Forse è il caso di rispolverare il classico «medice, cura te ipsum*. 

«Cominciare / finire per» - La buona Lingua vuole i due verbi costruiti con la preposizione «con» anziché con «per», «Cominciò col fare ammenda delle sue colpe», «Finì col gettarsi nel fiume». Ma temiamo proprio che la nostra sia una battaglia ormai persa, a meno che il nostro secondo esempio non diventi realtà per opera della massa infinita dei «somarelli». Il che, tra l’altro, farebbe lievitare, e di molto, gli introiti delle imprese di pompe funebri. 

«Convocare / aprire un tavolo» — Il gergo burocratico e para burocratico ha dato più picconate alle Lingua che 3000 invasioni barbariche. I gerghi, di qualsiasi origine siano, sono una iattura: brutti esteticamente, illogici quant’altri mai, mal costruiti, frutto di scarsa conoscenza delle regole e delle tecniche per la formazione delle parole. Parliamo dei «gerghi» in genere, ma quello burocratico è, forse. il peggiore di tutti. Prendiamo le due espressioni che aprono questo capitolo: «convocare un tavolo» e «aprire un tavolo», entrambi di origine ministerial-sindacalese, e ciò, di per sé, già rappresenta un pessimo biglietto da visita.
Chiediamo umilmente: che male c’è a dire «predisporre un incontro tra il Governo e le parti sociali»?

«iniziare» / «cominciare» - Si fa grande confusione nell’uso di questi due verbi che hanno lo stesso significato, ma hanno proprietà  diverse: il primo, “iniziare”, è soltanto «transitivo», quindi deve essere seguito sempre e solo da un “complemento oggetto”, mentre il secondo, «cominciare», è sia transitivo che intransitivo, e quindi può reggere qualsiasi tipo di complementi. Allora sarà corretto dire: «il maestro inizia la lezione alle 12», ma non sarà corretto dire «la lezione inizia alle 12» Si dovrà dire: «la lezione comincia alle 12». Qualcuno, appartenente al partito dei “buonisti” (sempre più numerosi), consiglia, agli appassionati del verbo «iniziare», se proprio non ne possono fare a meno (per es. se glielo ha ordinato il dottore), di usarlo nelle forma riflessiva: «la lezione si inizia alle 12»
Ma tu guarda che inutile spreco di energie! 

«appropriarsi» - nel significato di “attribuirsi, entrare in possesso di qualcosa” va costruito con il complemento oggetto: appropriarsi un diritto, un titolo; appropriarsi i beni, l'opera altrui”. È, pertanto, scorretta la costruzione con la preposizione «di».

«le problematiche» - È diventata oggi, nei Tiggì e nei talk show, una delle espressioni più alla moda. Non esistono più i problemi, ma solo le «problematiche». Giorni or sono, una signora à la page, ossia con le labbra “a canotto”, con l’attaccatura delle cosce ben in vista e la scollatura “vertiginosa” (come si diceva anni fa), ha ripetuto dieci volte che «oggi anche i bambini hanno serie problematiche, specialmente sul modo di relazionarsi». Nessuno dei presenti ha avuto il coraggio di contestarla, ma forse «nessuno» sapeva che il termine «problematiche» è, secondo i dizionari italiani, «il complesso dei problemi di una scienza, una questione e sim.», dunque, niente che vedere con gli eventuali problemi dei bambini o di chiunque altro.
Lo stesso discorso vale per l’altro sostantivo, pur esso abusato oltre misura: «tematiche». La tematica è, per i dizionari, “il complesso di motivi che ricorrono più frequentemente in un autore, in un'opera o in un complesso di opere rappresentative di una tendenza o di una scuola”, infatti va bene dire “le tematiche dell’opera di Manzoni”, “le tematiche nelle Sinfonie di Beethoven”, ed altri contesti simili.
 

«i senzatetti» - In Italiano, «senzatetto» è un sostantivo maschile e femminile invariabile, quindi non ha il plurale. Il sostantivo “somaro”, invece sì.  

«otto e zero cinque» - Da quando comparvero, qualche decina d’anni fa, gli orologi cosiddetti “digitali”, ossia quelli senza le lancette e alimentati da una batteria, gli italiani non sanno più esprimere correttamente l’ora. Un tempo, quando la lancetta piccola era sulle otto e la piccola sull’uno, ognuno era in grado di dire che erano le «otto e cinque». Oggi, dappoiché sul compaiono le cifre «8:05» tutti dicono, incoscientemente, “otto e zero cinque”. Oltre tutto è anche una bestialità matematica, perché i più non sanno che «05» significa “5 centesimi” e, dato che l’orario si misura in 60esimi, quello “05”, rapportato alla misura sessagesimale, corrisponde a 8 minuti, non già a 5.
Ma la cosa che dovrebbe risvegliare l’attenzione degli psichiatri è che i tapini dicono che sono “otto e zero cinque” anche quando leggono gli orologi analogici, vulgo: quelli con le lancette.

Della serie
«facciamoci del male». 

(12 – Continua)

 

 

 

 
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