Creato da ciapessoni.sandro il 21/02/2010

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SCOPERTA DI UNA ZIA ROMANTICA

Post n°9 pubblicato il 20 Aprile 2010 da ciapessoni.sandro
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SCOPERTA DI UNA ZIA ROMANTICA

da: INTERPRETAZIONI E MEMORIE

dello Scrittore: Tommaso Gallarati Scotti.(1878 – 1966)

Editore Arnoldo Mondadori – novembre 1960 –

 

Quand’ero ragazzo, nelle vigilie delle annuali festività in cui si scambiavano gli auguri familiari, mia madre, mi conduceva con sé per le visite di dovere. Ben inteso eran fatte con una certa solennità diversa da quelle ordinarie; ci si andava con la carrozza a due cavalli, tra le quattro e le cinque del pomeriggio. Per questo me n’è rimasta nella memoria una impressione vivida, anche per certi particolari di colori e di gesti. Ma una particolare malinconia mi richiama a uno di questi quasi-riti natalizi, tra le nebbie di dicembre: la visita a zia Caterina.

Era una sorella di mio nonno materno, Giacomo Melzi d’Eril – che non ho conosciuto – figli entrambi di Carlo nipote minore di Francesco vice-presidente della Repubblica italiana. La loro madre Carolina Belgioioso d’Este, donna di gran prosapia e di indiscusse virtù, ma che in famiglia (e perché lo nasconderei?) aveva lasciasto un senso di sgomentante alterigia e freddezza, le aveva fatto sposare un uomo molto più anziano, di piccola nobiltà ma di discreta fortuna: Don Alessandro Curti, a cui tuttavia era stata sempre fedele, anche nel rimpianto, dopo la sua morte.

Abitava una zia a un piano solo, lungo i Navigli, che si dicevano ancora di Porta Nuova, con una figlia unica, che volgeva alla cinquantina. La zia era donna di molta grazia e di rara distinzione, con una espressione di tristezza velata, ma che si accendeva nei discorsi, diventando fin troppo loquace e alzando il tono della voce se si trattava – per quanto capivo – di argomenti politici.

Però le mie simpatie andavano alla cugina Carolina, già disseccata, legnosa e impettita in abiti di sua fattura, dai gesti ruvidi eppur con un cuor d’oro fatto per voler bene. Dipingeva a olio brutti fiori su cuscini di raso, e per gli onomastici ci mandava acquarelli con rondini, che inseguivano nuvolette rosate, e viole del pensiero che si afflosciavano su lo stelo come anime in pena.

 

Vivevano, madre e figlia, la loro vitarella nel loro ristretto cerchio di parenti e di amici; in un appartamento, che aveva la sua particolare impronta; arredato nel gusto che definirei del ’59, (1859 n.d.p.) con mobili ricoperti di damasco blu scuro e tendaggi di velluto alle finestre, molti oggetti sui tavolini e qualche misteriosa fotografia impallidita in cornici ricamate a perline. La pendola di bronzo era ferma sotto la campana di vetro. Molte cose si dovevano essere fermate così in quelle camere; ed entrandovi avevo il senso di un che di vago e di invisibile che fosse nell’aria: forse un’ombra, un nome non pronunziato – uno spirito…

Anche un’altra mia intuizione aveva preso consistenza di anno in anno; che nel modo di pensare e di sentire e nel genere degli stessi discorsi vi fosse una certa differenza, o lontananza politica, tra l’ambiente di zia Caterina e il mondo in cui crescevo e da cui cominciavo a spiare con curiosità uomini e idee del mio tempo.

Quando un piccolo fatto – sfuggito forse all’attenzione di mia madre, malla quale non ne dissi mai nulla – mi diede la sensazione più precisa di questa lontananza. In casa mia avevo sempre visto come unico giornale L’Osservatore Cattolico commentato da don Antonio Müller, Penitenziere in Duomo. Nella casa materna un prete liberale, don Carlo Ciceri, leggeva a alta voce, con sobbalzi anti-albertariani, la Perseveranza al lume della lucerna. Quale fu dunque la mia sorpresa, e la confusione nella mia testa , il giorno in cui da zia Caterina, vidi un servitore vecchiotto con tanto di basette, presentarle sopra un piatto d’argento il giornale di cui e dall’una e dall’altra parte avevo sentito dir peste; il giornale radicale, rosso garibaldino: Il Secolo.

Il nome non ancora pronunziato, e che mi avrebbe chiarito in seguito molte cose, doveva affiorare per caso. Si trattava che la zia Curti aveva l’intenzione di tenere a battesimo un nascituro mio fratellino – o sorellina che fosse – e proponeva, nel caso si trattasse di una femmina, di chiamarla Beatrice, in memoria della “povera Bice”, sua sorella. A me quel nome parve subito bellissimo, e alla dolcezza del suono si aggiungeva non so qual mistero o segreto che lo rendeva suggestivo. Tanto più quando compresi che in casa mia era accolto con un inesplicabile turbamento di mia nonna paterna. Di quella morta essa era cugina germana: figlie di due fratelli , ma evidentemente la vita le doveva avere profondamente divise. Oggi a distanza di tanti anni tradurrei la pensosa malinconia della piissima donna in parole di preghiera (poiché tutto in lei si faceva preghiera): “Povera Bice… che il Signore la possa aver accolta in pace”.

Nacque invece un maschio e non se ne parlò più.

 

Però col tempo venni a sapere di lei cose che infiammarono le mie passioni di adolescente: zia Bice era morta giovanissima, morta di amore per un poeta, per un eroe garibaldino. Poi sui vent’anni mi capitò tra le mani il romanzo: Le confessioni di un ottuagenario (allora si intitolava così). E leggendo quella specie di poema dei cento anni della storia dell’anima del Risorgimento, con una avidità solo paragonabile a quella con cui divorai Guerra e Pace, scoprii Bice Melzi e mi parve di poterla confondere con la Pisana, la più potente e poetica figura di donna della nostra letteratura dell’Ottocento.

Da allora – confesso – per tutta la vita fantasticai intorno a quell’ombra, con uno struggimento del cuore, che mi veniva dai legami del sangue (e chi sa definir cos’è sangue), sembrandomi che avrei potuto dir di lei ciò che altri non sarebbe stato capace né di scoprire né di comprendere. Ma Bice era una di quelle rare e grandi silenziose, che passano sulla terra senza far rumore; creature mute, che hanno parlato poco e hanno scritto meno, e bruciato, bruciato perché il fuoco distruggendo le lasciasse sole. Difficile trovare le tracce di una simile vita chiusa.

Quando – come un messaggio dei morti – nel novembre 1956, mentre mettevo ordine tra vecchie carte, mi venne tra le mani una cartelletta: “Educazione dei Nobili Figli – Donna Beatrice”. In un altro plico: “Lettere diverse, scritte e ricevute in occasione del matrimonio di Donna Bice”. Non documenti storici, ma fili e vene sottili del suo romanzo vero.

[…]

Il primo settembre del 1853 quella mia bisnonna, che dai ritratti immagino con un viso di perenne malumore, scrive al marito, che non vedeva da dodici anni: “Caro marito. Un certo D. Carlo Gobbio di Mantova per mezzo di buoni amici ha fatto inchiesta della mano di Sposa della nostra figlia Bice; rappresentando egli uno stato conveniente assai di sostanza e da tutte le più minute informazioni risultando essere un vero galantuomo giovane d’anni 28 ho creduto di abbracciare il partito”. A cui fa seguito la lettera della Bice (dettata, si capisce) “Caro Papà. Mediante i buoni uffici del conte Enrico Guicciardi procuratore della Mamma mi venne proposto per isposo il nobile Carlo Gobbio, nativo di Mantova, giovane di buoni costumi che fu educato dai pp. Barnabiti… Lo stesso conte Guicciardi si prese tutta la premura onde avere le informazioni più esatte sulla sostanza, e su tutto quanto può concernere il mio benessere futuro…”. Non una parola sui sentimenti suoi di donna , sulle inclinazioni del suo cuore.

[…]

In una miniatura (già da me segnalata al Solito) che appartenne al padre di Bice – mio bisnonno Carlo – la giovanissima donna si presenta a noi nell’incantatrice bellezza di un’ora senz’ombre – forse poco prima del matrimonio. E’ un tipo di bellezza romantica oggi scomparsa. La magnifica e folta capigliatura di un castano scuro è bipartita su la fronte pura, nivea, e incorona il volto di un perfetto ovale in cui si schiudono due occhi magici e sognanti, che sembrano fissare qualcosa di lontano, di invisibile e ignoto: uno sguardo soave ma in fondo malinconico e più maturo che non le grazie innocenti della prima età. E anche la piccola bocca è sfiorata appena da un sorriso ermetico. Ma il sentimento più intimo della giovane donna ci è svelato dal nastrino di seta tricolore che le avvolge il collo, nascosto appena da un risvolto di tulle ricamato, e che le ricade a due falde sul petto. Su quel nastro bianco, rosso e verde, si dev’essere posato lo sguardo, non distratto, di Ippolito.

[…]

Un luogo poi deve aver avuto gran parte in ciò che di più inquieto andava rivelandosi in loro: Bellagio. I Gobbio vi avevano una casa con una terrazza ricoperta da una pergola sopra i vecchi portici del Borgo – dove è oggi l’Hôtel Suisse. Lunghe, appassionate le conversazioni sugli avvenimenti politici , sulle speranze dell’avvenire dell’Italia, in cui il Nievo esprimeva le idee, che, avesse avuto vita, sarebbero state quelle di un futuro uomo di Stato. La sera, invece, andavano in barca, svoltando a lento batter di remi la punta della penisola incantata, per cercar l’altra sua faccia – in ombra – delle tragiche rupi di villa Serbelloni, che strapiombavano nell’acque verdi cupe. E allora parlavano tacendo. “Quante volte” scriverà a Bice il 16 giugno del 1859 “stregghiando stamattina il cavallo ho pensato alle remate del lago di Como”.

[…]

Amore e morte intrecciavano così anche nel dramma reale di queste due vite. A nessuno era sfuggito che un sentimento eroico e tragico insieme dominava l’animo di Ippolito. Qualcosa ne trapelava anche dall’aspetto esterno. L’Abba ce lo descrive nelle Noterelle di uno dei Mille, “solitario sempre, guardando innanzi, lontano, come volesse allargare a occhiate l’orizzonte e cogliesse nell’aria qualche forma, qualche vista di paese della sua fantasia”. Ancora Bellagio…

Ma tornato in Lombardia dopo la vampata dell’impresa garibaldina, egli sentì su di sé una nube nera, un’angoscia di morte. Quando sui primi del 1861 gli fu affidata una missione di carattere militare in Sicilia, la compì senza entusiasmo, con rigido senso del dovere. E il 4 marzo, impaziente del ritorno, contro il parere di tutti, non sapendo più attendere, si imbarcava su l’ Ercole – vecchia carcassa da trasporti militari. Una improvvisa tempesta – pare – travolse la nave. Del Nievo solo le profondità del mare seppero il mistero.

Una lettera del 30 marzo, che ho trovato tra le carte di zia Curti, ci porta l'eco del dramma di Bice. Angosciata, Caterina scrive alla sorella: “La Lombardia .- Gazzetta Ufficiale – porta in data di Costantinopoli 27 corr. d’uno sbarco di Garibaldini in Albania; vedi che le probabilità di vedere Ippolito crescono. Dio lo volesse per te, per noi tutti, perché la perdita sua sarebbe grave… Coraggio adunque; è nell’avversità che i veri sentimenti si epurano e ingigantiscono”. Poi il 5 aprile zia Caterina in una lettera (minuta) si rivolgeva a un “cher Monsieur et bon amì” , che non so identificare, pregandolo di far ricerche di Ippolito “dans vos îles ou dans la Grèce”, , e confidandogli una lettera per il giovane scomparso, nel caso lo si fosse ritrovato. Nessuna risposta venne mai a quest’ultimo messaggio di Bice.

Ormai nella disperazione essa non poteva più nascondere nulla della sua tragedia interiore. Moriva di un male scomparso anche dalla poesia – “il mal sottile” – che era poi lo stesso di cui il Manzoni aveva fatto morire per il suo “tremendo amore” Ermengarda. Per quattro anni l’infelice donna languì, si consunse, fors’anche cercò di espiare la sua colpa verso il marito, poiché due anni dopo la morte di Ippolito mise alla luce un figlio. Negli ultimi deliri – questa è la verità – chiedeva quasi in sogno che la vestissero con la camicia rossa e le veniva dal cuore su le labbra il canto della Traviata morente.

Si spense nella notte del 23 ottobre 1865, in Milano, nella parrocchia di S. Francesco di Paola, “di lenta consunzione”. Ma la salma fu sepolta a Bellagio. Poi Carolina Curti, depositaria del gran segreto, se la portò a Gravedona, nella tomba vicina a Santa Maria del Tiglio, in riva al lago, in faccia all’Alpi, dove io, l’ultimo che di cose dimenticate sono l’interprete,vado nei giorni del cadente autunno a pregar pace per lei.

***

 

IL GLICINE DEI PORTICI…
da: Poetica Lariana di:  Sandro Ciapessoni.

 

 

 

Il glicine dei portici

non ha baciato Bice,

la fragile "Pisana"

del Nievo ispiratrice,

ma il cielo di Bellagio

e il placido suo lago

coi rododendri in fiore,

intessero gli amori

ai celebrati Amanti.

 


Fur poche le passioni

cui visser l’innocenza!

Romantico l’amore...

fu tenero il pensiero.

 


Assurte nell’empireo degli esempi,

a noi pervengono

profonde ed immortali.

 

O nobile "Pisana!"

”fanciulla” fu tua vita...

ma densa di ricordi.

 


Le quiete passeggiate

fra i platani di Melzi,

Pescallo e la sua rada;

 

"le belle acque del lago

e il veleggiar tranquilli,

la dolce compagnia...

Tremezzo e il suo ristoro.

Le belle e le serene

giornate di Bellagio...

serene ed amorose".

 


Nei tempi che saranno,

rammenteremo ancora

la tua infelice aurora;

il cielo che ti avvolse

in queste amate rive,

dai portici del molo...

al freddo... sepolcral tuo marmo!

 


Se tale amor fu immenso

quanto il dolor lo vinse,

ritorna allor fra noi

o fragile "Pisana"!

 


Il ciel non è mutato…

le stelle ti sono ancora amiche,

la luna... ti è sempre ognor gentile

e i rododendri in "Melzi",

ti attendono fioriti.

 


Ascoltami, "Pisana!"


Sul portico del molo

ai pie’ di tua dimora,

(ma dopo il tuo partire),

è nata una glicinia

di cerulo colore;

un bacio ti darà,

una carezza al viso!

 


Ippolito!

"... Ippolito poeta!

Ippolito soldato!

Fin sul terrazzo corre la glicìnia".

 


Fin sul terrazzo, lo spirito del Nievo...

arriva.



Sandro Ciapessoni

 

 
 
 
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