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LA PAZZA DEL SEGRINO di Ippolito Nievo

Post n°20 pubblicato il 28 Luglio 2010 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

LA PAZZA DEL SEGRINO

Racconto di Ippolito Nievo
(
Padova 1831- naufragio nel Tirreno
col piroscafo Ercole nella notte tra il
4 e il 5 marzo 1861)

Contro questa corrente di abitudini secolari che mutava la città
e la campagna in due campi ostili, i ricchi e i filosofi levarono due
argini: la scuola comunale e la filantropia, la pedagogia fredda dei
maestri di scuola e l'eloquenza assurda e sbagliata dei filantropi.

Ippolito Nievo

Capitolo I

 

Io non intendo ora moverne lagno ai lieti visitatori della Brianza, ma certo pochissimi fra essi hanno posto mente con amore ad uno stretto bacino d’acqua contiguo per mezzo miglio al destro lato della strada che sale in Valsassina.

A buon dritto non si cerca per quei colli beati, in quelle pianurette amene e popolose, entro le ville sonanti di brindisi e di balli la mestizia dei sepolcreti; e il lago del Segrino qui sopra accennato, move appunto nell’anima un tal senso di funebre melanconia.

Serrato quasi d’ogni parte da monti acuti e cenerognoli, de’ quali l’altezza non è nemmeno tale da toccare il bello del sublime, cinto all’intorno da nani e polverosi canneti, sembra egli colà disposto a raccogliere non già le piogge fecondatrici, ma le lacrime eterne della natura.

Infatti costei gli si rappresenta tutto all’intorno vestita miseramente a lutto, e mostrante a nudo l’orrenda ossatura; e tale si specchia nelle acque immobili e fuligginose, quasi a raddoppiare insieme e la tetraggine degli aspetti e il raccapriccio dei passeggeri.

Raro è che l’oscurità e il silenzio della valle non facciano muta perfin l’allegria della comitiva che imprende per essa un pellegrinaggio autunnale; e ognuno affretta il passo spiando furtivamente in viso ai compagni la propria inquietudine; finché giunta a Canzo, un miglio oltre il lago, torna la brigatela ai briosi motti e alle grasse risate; ma per buona pezza ancora l’allegria sa di torchiato. Così pel ritorno chi propone una strada diversa è sempre buon consigliero; e gli argomenti alla mutazione del piano son sempre stimati così rilevanti, che il povero Segrino ben di rado può vantarsi di vedere due volte il viso dello stesso villeggiante.

Né miglior fortuna egli incontrò, a quanto pare, coi paesani; giacché non un villaggio sorse ad animar le sue rive, non un casino è venuto a raccogliere il bacio modesto de’ suoi flutti; e i pochi remiganti, che per esso varcano, prima d’approdare, sì d’un salto abbandonando la barca, e ricoverano frettolosi alle proprie capanne o sulla costa del monte o dietro la prima falda del colle, come se dannati da qualche destino avverso a navigare quell’acque, tardasse loro il momento da togliersi dalla sponda inospitale.

La strada che corre dal Pian d’Erba a Canzo, seconda dopo Longone un colle incespugliato di castagni e di carpini; indi cala verso il laghetto così a dirotto come se là avesse capo; ma giuntane a fior d’acqua sguizza invece a sinistra con rapida risvolta, mentre a dritta il colle segue oltre, tuffando nel lago le radici delle sue folte prunaie. E in tal modo va la riva curveggiando e abbassandosi; sicché se non si volgesse le spalle al sole perdendo di luce quanto guadagna in vaghezza, avrebbe da quel lato bastevole varietà.

Ma non appena la costiera s’è umiliata un breve tratto fino a lasciar intravedere un ripiano che s’allarga per entro poco meno di due miglia, eccola volgere repente a settentrione peggio che mai brulla e dirupata; e lì ad oriente incombenti sul Segrino piramideggiano erti e nebbiosi i così detti Corni di Canzo, oltr’ai quali è il braccio del Lario che chiamano di Lecco.

Appunto dove quel ripiano interno s’apprende per di dietro alla montagna, sta rannicchiato un paesuccio, che sembra quasi segnare i limiti antichi e più vasti del piccolo lago, come quelle canne che nell’inverno additano a mezzo argine l’altezza delle piene novembrine. Da esso si diparte una strada che va poi fronteggiando l’altra che sulla riva opposta move da Longone; ma sbucati sul Segrino, invano di quel romito villaggio si cercherebbero altri indizi, che la punta del campanile, ed una iscrizione che ne declina rozzamente il nome sur un muricciolo.

Del resto tutto è squallore, silenzio, solitudine.

Solo sulla falda prima del monte, dove s’allarga uno sterrato, s’addossa alla roccia un tugurio da pastori, e benché il sentiero che vi mena sembri piuttosto un inerpicatoio, pure vi si sale o ritto o carpone si loda per solito della fatica, e se ne parte alquanto rappacificato dal Segrino. Di là infatti lo sguardo fa capolino in Brianza; e così l’animo non più ristretto alla contemplazione di quel mortorio, ma sorvolante, sarei per dire, ad una greggia tumultuosa di collinette e di poggi fioriti, s’inchina a dolcezza, sente compassione di quel povero laghetto diviso eternamente dai suoi felici fratelli (laghi di Annone, Pusiano Alserio nel piano d’Erba in Brianza) e diseredato delle loro delizie; né può serbargli rancore d’una sventura che intera e perpetua egli serba solo per sé. Chi sedesse davanti quel tugurio sull’ora del tramonto, quando il sole parte come a forza dal nostro divino paese, e ci lascia per saluto l’infocata zona del crepuscolo, sentirebbe nel cuore quello ch’io veramente tenterei di muovere colle parole. Come ritrarre nel racconto quella magica natura, che attragge tanto l’animo in sé, da farlo quasi partecipe della sua vita misteriosa? Come sol definire quel senso di rapimento e d’adorazione , che annulla e moltiplica il tempo al pari dell’amore, ed è forse l’ultimo vestigio d’un amore più etereo, massimo fra i mondani, pel quale l’umana natura nella sua primitiva innocenza comunicava con Dio?

 


 

Fine del I capitolo.

A giorni il II capitolo...

 


 
 
 
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