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IL CONTE PECORAIO di Ippolito Nievo

Post n°59 pubblicato il 11 Marzo 2011 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

 

IL CONTE PECORAIO di Ippolito Nievo

Immagine: Cliccare per ingrandire.

Valle di Tarcento

 

A tutte i Visitatori del Blog: anticipo qui il mio sentito ringraziamento per la loro gradita . presenza che la pagina “Home” di volta in volta mi segnala. Per scarsità di tempo a me disponibile, limiterò le mie risposte soltanto ai commenti che mi saranno inviati.

Cordiali saluti, e a tutti: “buona lettura”.

Sandro Ciapessoni

… Seguito dei capitoli precedenti:

CAPITOLO VII.

Maria, sostenuta dall’indignazione, aveva guadagnato di volo il sommo dell’altura; ché il dispregio, e direi quasi il ribrezzo, di colui che aveva accolto a quel modo le sue ultime preghiere, non le lasciava campo nel cuore al sentimento della propria sciagura. Ma giunta là, tra le screpolature di quelle rovine, gli occhi le corsero involontari al sentiero di Monteaperto, e affigurando suo padre che per esso volgeva alla casa dei Romano, riebbe d’un colpo la pienezza dei suoi dolori. Le s’intorbidò la vista, e così traballando mosse due passi, né sapeva dove; ma al terzo, inciampando in una prunaia, cadde boccone dietro di essa, e chiamando a nome suo padre finì con lo svenire affatto.


La povera fanciulla era certamente colpevole: ma non forse quanto parrebbe a primo aspetto. Lasciata orfana dalla morte della madre, Santo andava qua e là sovente per i bisogni del suo mestiere, affidandola alle altre pigionali della casa; e figuratevi se a Roma della gente ce n’è d’ogni sorta! La fanciullina, dunque, da tal compagnia non aveva sempre avuto gli ottimi esempî; e per giunta quella dimora in una grande città, dove i discorsi quotidiani sono delle feste, dei diletti e delle pompe signorili, le aveva guastato l’anima di un tocco di vanagloria. Né il ritorno del padre nel Friuli le era stato di gran giovamento; poiché quel sentirsi intorno da mattina a sera un coro di meraviglie e per l’infantile leggiadria, e per lo spirito svegliato, e per l’allegro umore, non doveva inchinarla per nulla alla quiete casereccia dei campagnoli; e se l’esser chiamata scherzosamente la ‘Contessina dei poveretti ’, non le aveva messo in corpo nessuna smodata alterigia, ciò nemmeno le rendeva accetta più che tanto la zappa o la rocca. A viziarla peggiormente era sopravvenuta la malefica indulgenza della vecchia Maddalena col condiscendere a ogni suo grillo, col vezzeggiarla in ogni modo, col lasciarla troppo bazzicare al castello; e se Natale ben avveduto, scorgendola tornare dal pascolo con le agnelle smunte, o perdere le spighe nel mietere, ne ammoniva mastro Doro come di cattivi presagi, questi era pronto a rispondere che la vecchia la svagava di troppo dai lavori contadineschi, e che egli non ci sapeva che fare.

Natale si macerava di dentro, al vedere sfruttati dalla fanciulla quegli anni, nei quali si impara a vivere (il che nella favella dei rustici significa sgobbare), ma poi volle provarsi egli da solo a porvi rimedio, e siccome ella gli era molto amorevole, così ne ottenne buon frutto con poca fatica; e da quel fortunato principio egli argomentava meglio per il futuro. Così da questi nuovi legami venne a stringersi fra loro un purissimo amore; capite bene, un amore quale suol nascere da lunga consuetudine, e da scambievole sincerità di cuore; del resto, la giovinetta veniva così piegandosi ai desiderî del giovane senza saperne il perché, e mossa per avventura dal solo sprone a ben fare che è nella virtù degli amici.

Per l’appunto sembrava che l’indole sua si foggiasse davvero sullo stampo di quella del maestro, e già forse quella infantile domestichezza le si veniva cambiando in qualche affetto più grave, quando quello sciagurato richiamo alla milizia si era intromesso a dividerla dal suo angelo custode. Maria, come dicemmo, aveva voluto accompagnare Natale fino al passo del Turro; né si era chiesta la semplicetta, del perché s’inducesse a far quello che non facevano né il padre, né la madre, né i fratelli del povero coscritto. Così più volte lungo la via, Natale s’era sentito mosso a confidarle l’amor suo, ché era amore a non dubitarne, ma pensando poi ai pericoli d’un’assenza, lunga forse e tra continue minacce di guerra, aveva represso quegl’interni movimenti e solo era venuto consolando Maria e tergendole le lacrime.

Quando dovettero disgiungersi, la fanciulla non si reggeva quasi sui ginocchi, e parve che prevedesse quante sventure dovevano venirle da quella funesta dipartita. E anche allora Natale fu lì lì per traboccare, ma s’accontentò di scoccarle in fronte un bacio così puro, quale Santo lo avrebbe dato alla figliola nell’accomiatarsi per un lungo viaggio. Maria tremò nel cuore al sentirsi toccare il viso da quelle labbra, ma non ne fu contenta, benché non sapesse qual più fraterno segno d’affetto potesse desiderare; e, d’altronde, quello scontento andava troppo confuso col dolore di essere abbandonata, perché le fosse agevole indovinarne singolarmente la causa. Natale intanto si era tolto di là; ma rivoltosi a mezzo il torrente, e mirandola ancora ritta sulla sponda con la faccia stillante di pianto e con le braccia stese come quelle di una cieca, tornò a lei; dove, strettale una mano fra le sue, le disse:

— Senti, Maria; io non posso prometterti nulla, e solamente ti dico di sperare in me ogniqualvolta ti sia d’uopo il conforto di un vero amico. E così io accorrerò sempre in tuo aiuto, fino a quando Dio vorrà benedire le forze misere d’un contadino.

— Grazie, Natale, grazie! — rispose Maria un po’ racconsolata. — Ma se tu sapessi!... Sono le tue, vedi, e non le mie disgrazie che mi sgomentano. Alla fine si separarono, e fino alla svolta dello stradale di Tarcento, Natale, volgendosi, ebbe a veder Maria che da un ripiano della campagna sventolava il suo fazzoletto. E così s’erano lasciati senza palesarsi a vicenda il dolce loro segreto; ché se lo avessero fatto, certamente la santità d’una promessa giurata in quel solenne momento avrebbe risparmiato ad entrambi una lunga sequela di guai. Invece la fanciulla, sciolta da quella volontaria soggezione, dopo qualche mese di melanconia, era tornata a quel suo vivere d’una volta; e così andò svogliandosi delle fatiche campestri, e mastro Doro non ne diceva nulla per riguardo alla moglie, e costei dava sulla voce a compar Santo ogni volta che questi si lagnava. Ma la magagna era ancor piccola, e non volse a vera viziatura che dopo l’accasarsi della contessa Leonilda a Torlano. Questa dama era una svenevole Veneziana che ne aveva fatte ai suoi tempi d’ogni colore, e finalmente sulla cinquantina, vedendosi abbandonata dai vecchi e dai novelli cortigiani, si era rappiccata a Domeneddio. Però, menata a far penitenza in campagna dai ringhiosi creditori, qualcuna le era rimasta delle antiche passioni; fra le altre quelle del gioco e dei romanzi. Al gioco provvedeva col magistrale tresette che s’accampava ad ogni sera intorno alla sua tavola dove convenivano il piovano, l’agente comunale, il fattore, e quando non c’era un cane, anche il vecchio don Angelo. Quanto a romanzi, ne incettava mensilmente ad Udine i più recenti, e siccome le si era da ultimo appannata la vista, ne commetteva la lettura alla cameriera; ma la scapestratella della Bettina, non nata né cresciuta a tale ufficio, guarniva il testo di tali strafalcioni, che la Contessa si credette aver buscato un terno quando, essendole presentata Maria, scoperse la valentia letteraria della fanciulla. Da allora in poi divenne questa la lettrice di palazzo; e quanto andò altera Maddalena per questo trionfo della sua pupilla su quelle spazzature di città, come ella chiamava le cameriere, altrettanto ne sputò fiele la Bettina; la quale, benché avesse mormorato più volte in cucina contro quell’aumento di incombenze, e avesse in uggia la lettura più del mal di denti, pure s’inviperì di quell’essere posposta ad una contadina; e andava schiamazzando, che una volta o l’altra l’avrebbe fatta tenere a quella Contessa pecoraia, o che lei non era più la Bettina.

Ma intanto Maria prendeva pratica al castello; e benché a Santo ne increscesse di dentro, e talvolta anche di codesto suo rincrescimento desse sentore in casa dei Romano, pure la figliuola coi vezzi e Maddalena coi ragionamenti gliela facevano passare; e quando questa a certi suoi scrupoli rispondeva con dire che la Contessa era oggi più buona cristiana di molte altre baciapile, e che don Angelo era lì a farne malleveria, eccoti che al pecoraio si chiudevano i denti e gli conveniva ingoiarsela in pace.

Fino dal principiare della frequenza di Maria al castello, il bel Contino l’aveva occhieggiata ingordamente; chiestone poi conto e saputo che era la figliuola di Santo di Monteaperto, natagli a Roma da una fornaia di colà, tali novelle gli avevano cresciuto di tre tanti il ruzzo, e fattogli parere quel bocconcino campereccio una vera ghiottornia. Subito le si era messo sulle peste; ma troppo accorto per disporre in casa i suoi lacciuoli, dove a sventarli sarebbe sopraggiunta ogni tratto l’invidiosa purità della Contessa, stabilì fra sé di allargare la caccia per i campi aperti secondo lo stile dei migliori capitani. Né gli fu difficile accostarsi alla fanciulla sui pascoli, o incontrarla per la cordonata della Parrocchiale, o raggiungerla sul sentiero del mulino, o inseguirla dentro le macchie; e vinta la naturale selvatichezza parlandole come si usa da superiore a soggetto, seppe poi egli calarsi bellamente da quel padronale sussiego fino a chiederle il fiore mezzo ascoso nel seno, o a prenderle sbadatamente la mano. E la giovanetta ne arrossiva, e poi impallidendo tremava, come un giunco; onde Tullo gongolando si stemperava in occhiatine soavi, in parolette di miele; e tanto quell’amoroso da commedia seppe farsi contadino, che Maria, presa all’amo di così cristiana semplicità in un signore, ne restò innamorata, come la farfalla del fuoco.

In amore la strada è lunga, ma anche corta a chi sa districarsi per le scorciatoie; e il Contino, che non voleva brodi lunghi, ci studiò tanto dietro, che in breve ne venne a capo. Di più ancora, la consuetudine con quel tesoro di ragazza gliene aveva ficcato ben addentro nel cuore il desiderio; e tutte le promesse giuratele erano credute da lui sincere; o meglio, non sapeva né voleva chiarire egli stesso, quanto parlasse l’innamorato e quanto il libertino: ché se gli occorreva di dover partire da Torlano per qualche tempo, ne aveva un bruciore da non dirsi; e così s’erano combinati di scriversi per mezzo d’una rivendugliola di Nimis che impostava e ritirava a Tarcento le lettere di Maria; ben inteso che i nomi erano finti per non mettere in piazza la novella. Ma buono per la giovanetta, che non seppe mai in quali sozze stanzacce e fra quali gozzoviglie fossero scritte quelle sdolcinerie, che ella inesperta leggeva e baciava di soppiatto le mille volte! Perché il Conte era, sì, romantichetto a Torlano, ma non lo era a Udine o a Venezia, e sapeva governarsi così saggiamente, da far contente di sé e la contadina ritrosa e le cittadine procaci. Così andarono innanzi lungo tempo; e Tullo fu così accorto e tanto ai suoi cenni obbediente Maria, che nulla trapelò di quel loro segreto amore; solamente per assicurarsi viemmeglio, aveva egli indotto la fanciulla ad abboccarsi con lui in quella capanna svizzera, dove, quanto fosse ella sicura sotto mano di quel volpone, se lo può immaginare chiunque. In fin dei conti chi primo doveva annoiarsi della tresca, se ne annoiò; e al signorino parve una seccaggine l’aver sempre quella tortora sulle ginocchia, onde cominciò a sbadigliare ed ella a ingelosirne; e il signorino a ricordarsi allora dei molti affari familiari iniquamente trasandati per tali fanciullaggini, e la giovanetta a perseguitarlo delle sue preghiere, dei suoi lamenti. Cosicché Tullo deliberò di porre misura a codeste bizzarrie, con lo starne lontano settimane intere e con l’attendere davvero all’azienda domestica: e quando per tal guisa si fu accorto dell’imminente rovina della sua casa, gli svamparono i grilli poetici per modo che quella poveretta non poteva più vedersela innanzi, come fosse ella appunto la causa di quei disordini. E alfine una lusinga di puntellarli validamente sopraggiunse, a smemorarla fino di quel dispetto. Si trattava d’un riccone della bassa, del signor Valeriano del Campo che gli offriva nientemeno che una sua sorella in sposa; e bella era la sposa, ma la dote più bella assai; perché oltre a capitali in buon dato, gli si promettevano molte colonie lì in Torlano, ed altre ancora con un bel casino di campagna a Nimis.

Il signor Valeriano ci aveva le sue buone ragioni per favorire un tal matrimonio, benché forse la soverchia bontà gliele mostrasse un po’ capovolte; ma per ora basterà il sapere, che Tullo abbrancò questa fortuna per il ciuffo, ben fermo di non lasciarsela scappare. Ora figuratevi, se in questi abbarbagliamenti di ventura quelle solite piagnucolerie di Maria gli parvero scipite! Pensava per l’appunto al modo di sciogliersene una volta per sempre, quando si ebbe ad accorgere che ella era incinta, e bisognò pure ch’egli stesso ne facesse avvertita la ragazza, ché da qualche imprudenza non ne avesse contezza la gente. Maria ne fu più sorpresa che affannata, sebbene la svogliatezza di Tullo la tenesse un poco in sospetto; ma questi ne ebbe uno spavento da non dirsi, perché sapeva riguardo a ciò le massime del signor Valeriano, e non voleva per nulla andar a fondo, come si dice, nel porto. Perciò a metter la cosa in tacere aveva divisato di comperarle in fretta uno sposo, e noi vedemmo come il prescelto fosse Faustino, il quale, per la birba che era, aveva saputo darsi buon prezzo. Il resto è chiaro; e fu facile a Maria, dalla voce che ne correva, sapere del disegnato matrimonio di Tullo; parimenti dalle dicerie dei paesani aveva udito della sposa offerta dal Conte a Faustino con quattromila lire di dote, e benché non si dicesse alcun nome, ella, sospettando della verità, aveva voluto sincerarsi di cotanta ignominia interrogando addirittura il Conte, che da quindici giorni le era sempre sfuggito. Ma siccome il giorno prima ad arte ella aveva sparsa in castello la voce che il mattino dopo lei sarebbe andata a Tarcento, così Tullo aveva colto il destro di fare una passeggiata alla libera; e l’intento gli andò fallito, come narrammo, per l’improvvisa apparizione della ragazza.

Frattanto era già trascorsa un’ora dallo smarrimento di costei, quando il sole che dardeggiava cocentissimo sul fogliame dei pruni e delle ficaie selvatiche, percotendole per un varco la persona, le ebbe a ravvivar l’anima. Ed ella sorta sul gomito stava stringendo le ciglia offese da quel subito splendore che le ingemmava le lacrime; dacché se in quel frattempo era uscita dei sensi, non aveva perduto, la poverina, il senso del dolore, né la virtù dolorosa del pianto. Allora, al riaffollarsi nel suo cuore di tutti gli oscuri pensieri nel quali era svenuta, le parve quasi di sentire ogni suo affanno rinnovato; e prima di tutto cosa sarebbe stato di suo padre, del povero Santo! Egli, che l’adorava come una Madonna, in qual modo avrebbe sofferto il disonore della figliola?

— Oh, sì, bisogna che me ne vada! — diceva la fanciulla ricadendo boccone fra singulti e gemiti compassionevoli. — Bisogna che abbandoni tutto, perché non sappiano mai dove io mi sia. E dopo? Oh, la mia povera creatura! Qual lieto vivere m’appresto a darti! E se ne morrai sarà colpa mia, colpa di tua madre! Ché se invece... Oh, l’infame che sono stata! E intanto tornerà Natale, e gli diranno: «Sai di Maria? Indovina, mo’, così superba che era!». Ah, sì! Vergine beatissima, datemi la forza di fuggire, di nascondermi per sempre, che già qui la vergogna mi torrebbe la vita, e io non posso, non voglio morire. No, non voglio rubare un’altra anima al Cielo dopo aver perduto la mia...

E in queste parole si storceva tutta in guizzi febbrili; ma allora appunto, impigliatasi le dita nel filo della medaglia sfuggitole dal seno, le sovvenne del suo voto, e della redenzione che è promessa con la penitenza, e stringendosi quell’amuleto sulle labbra, ripigliava:

— Oh, la mia santa mamma! Che dirai lassù nel Cielo della tua Maria? Ma, credimi, che sono pentita, e che sarò umile e paziente nello scontar le mie colpe. Ho bisogno, ho proprio bisogno della tua compassione, onde da te mi sia impetrata la grazia necessaria. E tu mi aiuterai, non è vero, mamma mia? Oh, sí, perché tu eri una santa donna, e soccorrevole ai poverelli, e se tu fossi stata sempre con me invece di mamma Maddalena... Ma anche questa non ha nessun torto verso di me; fui io la sciagurata a volgere in veleno la bontà di lei... Oh, se non fosse mai partito Natale!

Così parlando, e pregando la Madonna e la mamma sua, si diede forza a rialzarsi, e come si ebbe ricomposto le vestimenta, soggiunse:

— Ora, mamma mia; se è vero che abbiate amato mio padre, imploratemi dal Signore il miracolo, che egli non sappia mai nulla, e che io possa togliermi di qui — riprese animosamente — e starmene lontana finché a Dio piacerà.

Ciò detto, e raccolto il canestro, levò gli occhi al cielo, e scese anch’ella verso la casa dei Romano, dove aveva visto volgersi suo padre.

FINE DEL VII CAPITOLO

 


 
 
 
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