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Cineforum 2016/2017 | 16 maggio 2017

Foto di cineforumborgo

L'ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA

Titolo originale: Toivon tuolla puolen
Regia: Aki Kaurismäki
Sceneggiatura: Aki Kaurismäki
Fotografia: Timo Salminen
Montaggio: Samu Heikkilä
Scenografia: Ville Grönroos, Heikki Häkkinen, Markku Pätilä
Costumi: Tiina Kaukanen
Interpreti: Sherwan Haji (Khaled), Sakari Kuosmanen (Wikström), Ilkka Koivula (Calamnius), Janne Hyytiäinen (Nyrhinen), Nuppu Koivu (Mirja), Kaija Pakarinen (Moglie), Niroz Haji (Miriam), Simon Hussein Al-Bazoon (Mazdak), Tuomari Nurmio, Kati Outinen, Tommi Korpela
Produzione: Aki Kaurismäki per Sputnik Oy
Distribuzione: Cinema di Valerio De Paolis
Durata: 98'
Origine: Germania, Finlandia, 2017
Orso d'Argento perla miglior regia al 67. Festival di Berlino (2017)

Khaled è un rifugiato siriano che, giunto a Helsinki dopo un viaggio clandestino a bordo di una nave da carico, chiede asilo senza grandi speranze di successo. Wikström è un rappresentante di camicie che decide di tentare la fortuna al tavolo da gioco e, avendo vinto, molla il suo lavoro per apre il ristorante La Pinta Dorata in un angolo remoto della città. I destini di questi due uomini si incrociano dopo che le autorità rifiutano la richiesta di asilo di Khaled. Quest'ultimo, infatti, decide di rimanere nel paese illegalmente, vivendo per strada, ed è in un cortile buio dietro al suo ristorante che Wikström lo incontra. Dopo avergli offerto un letto e un lavoro, Wikström e Khaled, insieme alla cameriera del locale, allo chef, al direttore di sala e a un cane vivranno una serena utopia e insieme, forse, riusciranno a trovare ciò che cercano.
L'altro volto della speranza”, l’ultimo film di Aki Kaurismäki, non sembra arrivare casualmente nel panorama del cinema contemporaneo. Anzi, giunge quasi come il coronamento di un discorso.
(……) Ripartendo da dove era arrivato con “Miracolo a Le Havre”, il regista finlandese ribadisce le proprie idee sull’Europa e sulle politiche dell’accoglienza e della gestione di rifugiati e richiedenti asilo che arrivano dall’Asia e dall’Africa, opponendo alla visione profondamente negativa - anche se sarebbe meglio dire disillusa - che ha del vecchio continente, quella positiva di comunità. La intende come gruppo ristretto di persone che include, condivide e accoglie senza dare giudizi, senza chiedere spiegazioni e che se ne frega se deve infrangere qualche legge che ritiene ingiusta. Questa forma di comunismo immaginaria, racchiusa dentro un microcosmo di periferia e disegnata con la consueta forma minimalista e a metà strada fra oggettività e fantastico, non deve però trarre in inganno. Kaurismäki non vuole fare un cinema di buoni sentimenti o costruire un ipotetico mondo migliore. Ma descrivere piuttosto una sorta di società possibile e all’interno della quale non si agisce contro qualcosa o qualcuno, ma semplicemente per il bene proprio e degli altri. Senza tirate morali o lezioni di buonismo.
Mai, nemmeno una volta, il regista dà l’illusione che le persone - e di riflesso le cose - possano cambiare, migliorare, progredire. Il neonazista che giura la morte a Khaled è e rimane uguale a sé stesso dall’inizio alla fine. Così come il governo finlandese, che ritiene Aleppo una zona sicura o comunque non così ‘bollente’ da giustificare la concessione di un visto da rifugiato. E così i muri e le frontiere: che vengono alzati di continuo in Serbia, Grecia e Ungheria. Con buona pace dei legislatori della comunità europea che predicano una libera
circolazione che, laddove applicata, coincide perlopiù con l’indifferenza: «non fanno caso a noi, fingono di non vederci» dice Khaled parlando con la funzionaria dell’immigrazione.
No, lo spazio sociale che Kaurismäki dipinge è un luogo sempre uguale a sé stesso dove andare a cercare l’eccezione, scovare l’anomalia che, nel suo piccolo, può fare la differenza. E la differenza la fanno, ancora una volta, gli ultimi. Non solo i rifugiati che scappano dall’inferno della guerra, ma anche il solito corollario di tipi umani che stanno ai margini della società. Musicisti di strada, camerieri, cuochi, edicolanti di bar e chioschi di periferia, portuali, camionisti, spazzini. Tutte persone che popolano da sempre i film del regista e che oltre ad avere in comune il fatto di essere degli spiantati e di bere e fumare più del dovuto, si somigliano anche per il posto che occupano nel mondo (o fuori da esso). Ovvero sempre un po’ fuori dal centro (della città e metaforicamente da tutto il resto). Persone che iniziano a vivere e lavorare quando smettono gli altri, che abitano la notte per dovere e non per divertimento e che forse proprio perché abituati al buio, dove tutto appare ugualmente scuro, non fanno caso ai colori, tantomeno a quello della pelle.
E questa omogeneizzazione di corpi, che è di riflesso una condivisone di idee, Kaurismäki ce la mostra e ce la fa avvertire, come sempre, anche attraverso la costruzione formale. Non rinuncia nemmeno questa volta al 35mm e con il consueto uso morbido della fotografia riesce a mettere in scena un mondo fuori dal tempo, sospeso fra le tinte olivastre degli interni e la desaturazione fredda degli esterni. Sottolineando l’impressione che i personaggi vivano in un universo costantemente in bilico fra speranza e rassegnazione. L’equilibrio simmetrico delle inquadrature e l’uso geometrico degli spazi, tende a costruire, inoltre, un estremo senso di oppressione, accentuato dalla reiterata presenza di elementi che definiscono lo spazio e incorniciano i personaggi: una porta, un oblò, un finestrino oppure lo schermo di una macchina fotografica, il bagagliaio di un camion o l’interno asettico di una cella di detenzione. Ed è forse in questo senso della misura, in questa strutturazione in levare degli elementi enunciativi, che sta la forza del cinema di Kaurismäki. Dare voce e dire la propria su un’emergenza talmente abnorme che è impossibile da ignorare, ma farlo stando sempre un passo indietro, senza perdere la calma e la ragione. Laddove anche le fughe, le scazzottate e i litigi sono modulati dalla lentezza e da un agire quasi imperturbabile. Perché a volte le cose, a guardarle con freddezza, si può sperare di comprenderle meglio.
Lorenzo Rossi, Cineforum

Kaurismäki fa parte di quella specie rara di cineasti che andrebbe protetta perché offre al cinema una valenza (e violenza) morale inserendola in uno stile, perfino in una maniera. Con misura cinica e humour da Keaton, parco di parole ma generoso di suggestioni e distributore di solitudini, il finlandese Aki narra “L'altro volto della speranza” in una Helsinki da fantascienza. (...) L'autore non bara con le parole, si fida del silenzio, ha una scrittura limpida, senza macchie né baffi, dice le cose in modo semplice e inequivocabile: in giro c'è razzismo e i burocrati sono così ottusi da dichiarare Aleppo luogo sicuro. Dietro la compostezza del welfare che lascia pochi spiccioli di pìetas di mancia, il vero senso di queste vite azzoppate si nasconde negli sguardi e nei luoghi da zombies (...). Un capolavoro di sintesi come tutto il film, tutto senza zucchero.
Maurizio Porro, Corriere della Sera

AKI KAURISMÄKI
Filmografia:
Amleto è in viaggio di affari (1983), Ariel (1988), Leningrad Cowboys go America (1989), Ho affittato un killer (1990), La fiammiferaia (1990), Vita da Bohème (1992), Tatjana (1994), Nuvole in viaggio (1996), Juha (1999), L’uomo senza passato (2002), Le luci della sera (2006), Miracolo a Le Havre (2011), L’altro volto della speranza (2017)

Arrivederci a martedì 10 ottobre per l’inizio della stagione 2017/2018!

 
 
 
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Un blog di: cineforumborgo
Data di creazione: 29/09/2007
 

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