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Messaggi di Aprile 2015

Cineforum 2014/2015 | 21 aprile 2015

Foto di cineforumborgo

LA SEDIA DELLA FELICITÀ

 

Regia: Carlo Mazzacurati
Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Marco Pettenello, Carlo Mazzacurati
Fotografia: Luca Bigazzi
Musiche: Mark Orton
Montaggio: Clelio Benevento
Scenografia: Giancarlo Basili
Costumi: Maria Rita Barbera
Suono: Alessandro Palmerini (fonico)
Interpreti: Valerio Mastandrea (Dino), Isabella Ragonese (Bruna), Giuseppe Battiston (Padre Weiner), Katia Ricciarelli (Norma Pecche), Raul Cremona (Mago Kasimir), Marco Marzocca (fioraio), Milena Vukotic (Armida Barbisan), Roberto Citran (pescivendolo), Mirco Artuso (Bepin Lievore), Roberto Abbiati (Giani), Lucia Mascino (Elisa), Natalino Balasso (Volpato), Maria Paiato (sorella del pescivendolo), Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Orlando
Produzione: Angelo Barbagallo per Bibi Film con Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 90’
Origine: Italia, 2013

 

Quando Carlo Mazzacurati (scomparso il 22 gennaio scorso a 58 anni) ha girato questo film, l'estate scorsa, probabilmente sapeva che sarebbe stato il suo ultimo. La malattia che poi l'ha condannato aveva già dato segnali inequivocabili, nonostante la tenacia e il coraggio con cui il regista padovano l'aveva contrastata e la dedica «a Emilia e Marina» (cioè alla moglie e alla figlia) sono un'ulteriore prova della sua consapevolezza. Eppure “La sedia della felicità” ha poco del ‘film testamentario’, se non il fatto che ripercorre una serie di temi centrali nella sua carriera di regista (ma proprio per questo non certo nuovi). Piuttosto, possiede una leggerezza e una delicatezza, autoironiche e vagamente malinconiche, che conquistano e affascinano, e si rivelano come la vera, preziosa ‘eredità’ che ha voluto lasciarci. Soprattutto rispetto a un cinema italiano che oggi appare spesso o troppo vacuo o troppo pretenzioso. Non è così per questo film che recupera lo spunto del romanzo russo “Le dodici sedie” di Il'ja Il'f e Evgenij Petrov (già portato al cinema da Nicolas Gessner e Mel Brooks) e lo declina all'interno di quella provincia veneta che da sempre ha accompagnato la sua carriera cinematografica. Lo ammetteva volentieri anche lo stesso regista di sentirsi spaesato al di fuori di quel mondo e di quella cultura. E non è un caso che dopo un inizio ‘romano’ abbia - caso abbastanza unico in Italia - abbandonato la capitale del cinema per tornare a stabilirsi nella sua Padova (così come è significativo che il suo film più sincero e per alcuni versi più riuscito, “Un'altra vita”, racconti lo smarrimento di un non-eroe proprio di fronte alla scoperta del lato oscuro di Roma). Qui la provincia diventa una specie di atteggiamento mentale, un modo di vivere e di comportarsi che non ha bisogno delle tradizionali carrellate sulla campagna devastata dai capannoni industriali o sulle cartoline ricordo di angoli folcloristici. Si fa fatica a ritrovare Jesolo, da cui muovono i due protagonisti del film, o riconoscere i diversi luoghi delle loro peregrinazioni: la ‘provincia’ di questo film è quella che stuzzica gli antropologi, quella dei modi di comportarsi, delle reazioni spesso fantasiose (e sempre divertenti) che ti mettono all'improvviso di fronte a un mondo che non avresti immaginato. (…...) Il romanzo e le versioni cinematografiche precedenti giocavano molto del loro interesse sulle complicazioni della trama e della ricerca. Mazzacurati e i suoi cosceneggiatori, Doriana Leondeff e Marco Pettenello, puntano invece tutto sulle caratterizzazioni dei vari personaggi, specchi di un mondo ‘marginale’ e ‘provinciale’ (…...) ma anche campioni di un'umanità sorprendentemente surreale, come i gemelli affidati a un doppio Antonio Albanese o i teleimbonitori Silvio Orlando e Fabrizio Bentivoglio (piccoli, esilaranti camei di attori che avevano interpretato in passato i film di Mazzacurati). Ne esce un viaggio che è solo apparentemente una ricerca del Graal con sfumature gialle; in realtà è il ritratto di un mondo che dietro le stranezze e le ridicolaggini mostra la faccia malinconica e umanissima di un'Italia dimenticata o relegata ai margini e che, però, possiede una sua dolcezza e una sua tenerezza pur nella stranezza e nell'incongruenza. Mazzacurati, attraverso la fotografia di Luca Bigazzi e la fiducia del produttore Angelo Barbagallo, filma ogni situazione con la comprensione ‘renoiriana’ di chi sa che tutti hanno le loro ragioni. E lo fa con una leggerezza di tocco contagiosa e soprattutto fiduciosa nelle persone. Ottenendo di regalarci una commedia che per simpatia e originalità esce finalmente fuori dai ‘soliti’ schemi, e insieme ci lascia il ritratto di un mondo dove - come fanno i due protagonisti - si può vivere senza abdicare al proprio ottimismo e alla propria generosità.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera

 

Termina con il sorriso aperto e chiaro di Bruna (Isabella Ragonese) e Dino (Valerio Mastandrea), “La sedia della felicità”. «Per una volta ho voluto girare un film che mi piacesse anche come spettatore», aveva detto Carlo Mazzacurati qualche mese prima della morte, avvenuta il 22 gennaio scorso. E aveva inteso: un film che non mescolasse tristezza e ironia, ma fosse per intero una commedia. D'altra parte, aveva aggiunto, per far ridere occorre partire da una catastrofe. Quale catastrofe sta dunque sullo sfondo della strana storia di un'estetista e di un tatuatore che se ne vanno in giro per il Veneto alla ricerca d'una sedia imbottita di gioielli, come facevano nella Russia degli anni Venti i protagonisti di “Il mistero delle dodici sedie” (Mel Brooks, 1970)? Giunti al Lido di Jesolo da chissà dove - la parlata ne indica l'estraneità al cosiddetto Nordest - l'una e l'altro sentono la crisi, come si dice. Dino ha da pensare all'assegno che gli tocca versare alla ex moglie, e Bruna combatte con tale Volpato (Natalino Balasso), un fornitore dai modi spicci e poco rispettoso del codice, sia civile sia penale. Quando i tempi sono grami, i più furbi vincono, appunto. E i furbi pullulano, lungo la strada di Bruna e Dino, a cominciare da Padre Weiner (Giuseppe Battiston), un grosso prete losco che come loro rincorre la sedia misteriosa, con la sua felicità. Chiuso a fatica nella sterminata tonaca nera, da niente si lascia fermare, tanto meno dal rispetto che si dovrebbe alle cassette per le elemosine. Se il sorriso di “La sedia della felicità” viene da una catastrofe, a questa catastrofe appartiene anche l'infingardaggine di Padre Weiner, insieme con quelle dei molti altri personaggi: ristoratori che campano sul lavoro nero, pescivendoli razzisti, maghi gabbamondo (Raul Cremona). Sarebbe potuto esser tragico, questo film, proprio come nel 2007 è stato “La giusta distanza”. Invece, a partire dalla catastrofe e dal suo realismo, il racconto ha il coraggio di scegliere la strada della leggerezza e del paradosso. Quando li lasciamo, Bruna e Dino si sono affrancati dalla pianura e camminano verso una vetta, nell'aria trasparente e lieve delle Alpi. Con sé hanno il loro tesoro, e una felicità che non stava (solo) nascosta in una sedia. Quanto a Padre Weiner, accade talvolta che preti e orsi si innamorino, e che volentieri si perdano insieme nei boschi. Così ha immaginato nel suo ultimo film Carlo Mazzacurati, sorridendo.
Roberto Escobar, L’Espresso

CARLO MAZZACURATI
Filmografia:
Vagabondi (1979), Notte italiana (1987), Il prete bello (1989), Un'altra vita (1992), Il toro (1994), Vesna va veloce (1996), L'estate di Davide (1998), La lingua del Santo (1999), Ritratti - Mario Rigoni Stern (1999), A cavallo della tigre (2001), L'amore ritrovato (2004), La giusta distanza (2007), La Passione (2010), Sei Venezia (2010), Medici con l'Africa (2012), La sedia della felicità (2013)

 

Arrivederci a martedì 5 maggio!

 

 
 
 

Cineforum 2014/2015 | 14 aprile 2015

Post n°230 pubblicato il 14 Aprile 2015 da cineforumborgo
 
Foto di cineforumborgo

IN ORDINE DI SPARIZIONE

Titolo originale: Kraftidioten
Regia
: Hans Petter Moland
Sceneggiatura
: Kim Fupz Aakeson
Fotografia
: Philip Øgaard
Musiche
: Kaspar Kaae, Kåre Vestrheim, Brian Batz
Montaggio
: Jens Christian Fodstad
Scenografia
: Jørgen Stangebye Larsen
Costumi
: Anne Pedersen
Effetti
: Haukur Karlsson
Interpreti
: Stellan Skarsgård (Nils), Bruno Ganz (Papa), Pål Sverre Valheim Hagen (Il Conte), Birgitte Hjort Sørensen (Marit), Jakob Oftebro (Aron Horowitz), Kristofer Hivju (Strike), Anders Baasmo Christiansen (Geir), Sergej Trifunovic (Nebojsa), Tobias Santelmann (Finn), Atle Antonsen (Reddersen), Goran Navojec (Stojan), Jon Øigarden (Karsten), David Sakurai (Kinamann), Jan Gunnar Røise (Jappe), Miodrag Krstovic (Dragomir), Kåre Conradi (Ronaldo), Leo Ajkic (Radovan), Hildegun Riise (Gudrun), Bjørn Moan (Fred Remi), Nils-Fredrik Tveter (Gabriel), Martin Furulund (Sverre), Gard B. Eidsvold (Emanuel)
Produzione
: Finn Gjerdrum, Stein B. Kvae per Paradox Film 2 in coproduzione con Zentropa Entertainments/Zentropa International Sweden
Distribuzione
: Teodora Film
Durata
: 116’
Origine: Norvegia, Svezia, Danimarca, 2014

(……) Protagonista della pellicola è un convincente Stellan Skarsgard nei panni di un piccolo imprenditore svedese immigrato in Norvegia che, dopo aver vinto il premio per il Cittadino dell'Anno per il suo impegno a favore della comunità in cui vive, apprende che il figlio è morto per overdose. Ben presto Nils Dickman (tra il significato inglese del cognome e il titolo originale del film - “Kraftidioten” - gli indizi che i personaggi del film non abbiano tutte le rotelle a posto si sprecano) scopre che in realtà il ragazzo è stato ucciso da una banda di spacciatori capitanati dal Conte, giovane magnate dell'industria dolciaria che, in realtà, gestisce un lucroso giro di droga. Dickman comincia a eliminare uno dopo l'altro gli scagnozzi del Conte scatenando una guerra tra quest'ultimo e i criminali serbi, a loro volta guidati dall'anziano padrino Papa Bruno Ganz, ingiustamente sospettati dei delitti. I serbi, che si spartiscono il mercato dello spaccio con i norvegesi, non la prendono bene. La sete di vendetta di Dickman dà vita a una reazione a catena incontrollabile.
Hans Petter Moland non teme le tinte forti. Se dovessimo scegliere tre colori per riassumere la visione di “In Order of Disappearance” punteremmo sul bianco delle sterminate distese di neve in cui la storia si svolge, sul rosso del sangue e sul nero della notte in cui Nils agisce calandosi nei panni di una sorta di Ispettore Callaghan (ma forse sarebbe più appropriato “Il giustiziere della notte”). Il regista esplora il cambiamento della psiche di un uomo tranquillo, cresciuto nella democratica e civile società nordica, trasformatosi improvvisamente in assassino senza scrupoli a seguito del dolore per la perdita del figlio. La violenza grafica è abbondantemente presente in una pellicola che si apre su toni decisamente dark e drammatici per imboccare ben presto la via della dark comedy. Moland riesce a gestire alla perfezione il doppio registro su cui la suo opera si muove, mantenendo alta la tensione e giocando, allo stesso tempo, sullo humour nero di cui il film è permeato. La trovata più divertente è rappresentata dai cartelli che scandiscono la narrazione indicando le varie morti del personaggio con nome e croce. Per altro, a seconda della religione del defunto, la forma della croce cambia. A sostenere “In Order of Disappearance” ci pensano, inoltre, i dialoghi brillanti firmati da Kim Fupz Aakeson. Tra i passaggi più esilaranti c'è un'acuta riflessione dei killer scandinavi sul legame tra welfare e assenza di sole («Nei paesi caldi non esiste il welfare. Non ne hanno bisogno. Gli basta una banana e sono felici» chiosa uno dei criminali citando anche la temperata Italia), una digressione di Skarsgård sui soprannomi dei malviventi e una battuta fulminante sulla Sindrome di Stoccolma.
La galleria di personaggi che popola “In Order of Disappearance” è alquanto variegata. C'è l'isterico Conte, ossessionato dall'alimentazione sana e dalla lotta agli additivi. C'è la sua ex moglie (la Birgitte Hjort Sørensen di “Borgen”), che lo tormenta per i soldi del mantenimento e la custodia del figlio, i suoi scagnozzi segretamente gay e poi c'è la banda dei serbi, che osservano con stupore i civili comportamenti dei norvegesi senza comprenderli fino in fondo. Ci sono un killer doppiogiochista giappodanese, una coppia di agenti di stomaco debole e poi c'è il Dickman di Skarsgård, che semina morte alla guida di uno spazzaneve e arrotol01a i cadaveri nella rete di pesca per permettere ai pesci di mangiarli una volta gettati in acqua. La confezione del film è assai curata. Regia, fotografia e montaggio evidenziano al meglio le bellezze del paesaggio norvegese. Quanto al testa a testa tra i due mostri sacri Stellan Skarsgård e Bruno Ganz, per chi volesse saperlo, sono bravi quanto ci si possa immaginare e anche di più.
Valentina D’Amico, MoviePlayer

(……) Ci sono moltissimi elementi interessanti in questo noir su sfondo innevato che viene dal profondo Nord dove ormai sembrano allignare tutti i gialli che si rispettino. E non si tratta solo di ambientazione. Ci sono magnifiche pennellate come la considerazione legata al welfare in relazione al clima. Il welfare c'è se fa freddo e non esiste nei paesi caldi. Quindi si impone una scelta: o il sole o lo stato assistenziale. E già siamo di fronte a un punto di vista eccentrico e intrigante, come quello che ricorda come alcuni banditi incarcerati (in Norvegia, si intende) ne abbiano approfittato per farsi curare dal dentista visto che, oltre ai contributi previdenziali, i carcerati hanno anche buone cure odontoiatriche. Altro aspetto singolare sono le due bande malavitose. Quella del conte è composta da un branco di nevrotici con uno psicopatico al comando, quella di Papa, il serbo, è improntata alla tradizione, ai valori famigliari e di sangue, e la faccenda riguarda anche l'habitat: villa trendy e high tech quella del conte, un hangar old fashion con mobili d'epoca quello di Papa. Poi ci sono gli attori: Stellan Skarsgård offre un convincente ritratto di Nils (...), mentre Bruno Ganz si trova a suo agio nel cesellare il vecchio Papa che sembra uscito da altri tempi, e in coppia fanno sembrare totalmente inappropriato Pål Sverre Hagen che tratteggia la figura del conte come una macchietta. Poi ci sono quei cartelli mortiferi che coniugano ogni religione, l'ironia soffusa anche sui campi da sci e i brividi diffusi che rendono il film godibilissimo.
Antonello Catacchio, Il Manifesto

HANS PETTER MOLAND
Filmografia
:
De Beste Gar Forst (2002), Molta gente vive in Cina (2002), Beautiful Country (2004), En Ganske Snill Mann (2010), When bubbles burst (2012), In ordine di sparizione (2014)

Martedì 21 aprile 2015:
LA SEDIA DELLA FELICITÀ di Carlo Mazzacurati, con Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese, Giuseppe Battiston, Katia Ricciarelli

 

 

 
 
 

Cineforum 2014/2015 | 7 aprile 2015

Post n°229 pubblicato il 07 Aprile 2015 da cineforumborgo
 
Foto di cineforumborgo

LOCKE


Regia: Steven Knight
Sceneggiatura
: Steven Knight
Fotografia
: Haris Zambarloukos
Musiche
: Dickon Hinchliffe
Montaggio
: Justine Wright
Costumi
: Nigel Egerton
Interpreti
: Tom Hardy (Ivan Locke), Ruth Wilson (Katrina), Olivia Colman (Bethan), Andrew Scott (Donal), Tom Holland (Eddie), Bill Milner (Sean), Ben Daniels (Gareth), Danny Webb (Cassidy), Silas Carson (Dott. Gullu), Alice Lowe (Sister Margaret), Lee Ross (PC Davids), Kirsty Dillon (moglie di Gareth)
Produzione
: Charles Auty, Stephen Fuss, Guy Heeley, Sarah Micciche, Paul Webster, Lesley Wise per Shoebox Films/IM Global
Distribuzione
: Good Films
Durata
: 85’
Origine: Gran Bretagna, 2013


Tutto in una notte, tutto in una macchina. All'opera seconda dopo “Redemption”, l'inglese Steven Knight ci riconsegna il grado zero del grande cinema: uno straordinario interprete, Tom Hardy; un'eccellente sceneggiatura (Knight era stato candidato all'Oscar per gli script de “La promessa dell'assassino” di Cronenberg e “Piccoli affari sporchi” di Frears); una fedelissima attinenza alle unità aristoteliche - diciamo così - di tempo, luogo e azione; una fascinosa regia interamente giocata nell'abitacolo di una BMW X5, ma lungi dall'essere claustrofobica; l'emozione per unico effetto speciale. (...) Quattro giorni di prove, riprese per otto notti, tre macchine da presa digitali Red Epic montate nell'X5, l'autostrada M1 tra Birmingham e Londra 'ricreata' sulla North Circular, “Locke”' è stato presentato fuori concorso all'ultima Mostra di Venezia: il Leone d'Oro l'ha vinto “Sacro Gra”, ma il Raccordo non vale l'M1, quel film questo. Avrebbe dovuto stare in competizione e - per noi - vincerla. Sì, “Locke” è una bomba, a implosione: sull'exemplum del suo omonimo, il filosofo empirista inglese John Locke, Ivan non perde la calma, ma pianifica, organizza, intima e rassicura. E' un uomo di ferro, pardon, calcestruzzo, ma la sua vita si sta distruggendo: prima di mettersi in auto, dice, aveva una moglie e un lavoro, ora non più, eppure non molla. Deve andare in ospedale da Bethan, per non incorrere nello stesso misfatto del padre, che lo abbandonò in fasce (analogia con l'altro Locke): lucidissimo con la moglie e 'l'altra', commosso con i due figli, la rabbia la riserva per il genitore, che osserva dallo specchietto retrovisore come un fantasma che solo lui intuisce. Ma in quell'auto c'è soprattutto la realtà, quella che va in frantumi per una debolezza: bruttina stagionata, fragile e problematica, Ivan non ama Bethan, ma un bicchiere di troppo, la volontà di farla felice e il guaio è stato fatto. Ivan non si sottrae, ma Locke è un monito piano, geometrico sulle conseguenze delle nostre azioni: se volete, un potente contraccettivo, un 'Pericolo!' stampigliato in rosso sulle nostre velleità extraconiugali, perché - dice Katrina - «la differenza tra mai e una sola volta è la differenza tra il bene e il male». I pro-family sottoscriverebbero, s'intende, ma il film è per tutti quelli che amano il cinema, ovvero lirica su strada, apologo al volante, soggettive, luci e asfalto on the road. Tom Hardy è un mostro di empatia (in Italia uno così non l'abbiamo), Steven Knight non sbaglia nulla, “Locke” mette le quattro frecce alla nostra umanità: fate l'autostop e salite a bordo, ne vale la pena.
Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano


Era chissà perché fuori concorso ma “Locke”, il titolo migliore dell’ultima Mostra di Venezia, meritava molto di più di qualche benevolo report seguito dall’incertezza sulle prospettive di programmazione italiana. Meno male che il problema adesso sia risolto e il pubblico possa accedere a un film indipendente e a micro-budget, sommesso e teso, ironico e disperato, un thriller morale che sembra studiato (e lo è), virtuosistico (e lo è), claustrofobico (e lo è) eppure riesce a evidenziare i rischi dell’assunzione di responsabilità davanti a quegli eventi che come un vento di tempesta possono squassare all’improvviso le nostre fragili esistenze. E’ lo stesso meccanismo, fatte le debite differenze, usato da Shakespeare fino a Thomas Hardy, quello che il regista britannico Steven Knight, già sceneggiatore nominato agli Oscar per “Piccoli affari sporchi” e “La promessa dell’assassino”, applica concentrandosi su un personaggio bloccato fisicamente e mentalmente e congegnando una scommessa sulle potenzialità del primo piano o close-up, storica e cruciale prerogativa del cinema. Eccellente, in questo senso, è la prestazione di Tom Hardy (uno dei duri più camaleontici dello schermo) che nel corso di 85 serratissimi minuti di one-man-show deve usare la propria faccia e la propria voce (doppiata credibilmente da Fabrizio Pucci) come catalizzatrici di una scarica micidiale di emozioni e decisioni affine a quella prodotta da film di genere come “In linea con l’assassino”, “Buried - Sepolto” o anche “Gravity”, ma servita da contrappunti umanistici ben più densi e lancinanti.
Preferiamo, di conseguenza, rivelare il minimo di un intreccio che potrebbe definirsi un processo di rinascita in cui gli spasimi, gli sguardi, i toni prendono il posto delle affettazioni drammaturgiche, le scene madri e le spiegazioni di routine. Il capomastro Ivan Locke lascia il cantiere in piena notte e si mette alla guida di una Bmw: è diretto a Londra perché la telefonata di una donna l’ha distolto dall’onerosa mansione che l’attende il giorno dopo. Nell’unità di tempo e luogo richiesta dal contesto - il morbido scivolamento dell’auto sul nastro autostradale, le ipnotiche e intermittenti luci esterne (fotografate con tre macchine digitali dal superbo operatore Zambarloukos) e le svarianti angolazioni di ripresa all’interno dell’abitacolo - una serie di squilli ininterrotti via Bluetooth sul display digitale di feroci rimostranze o amare incomprensioni da parte d’interlocutori speciali o occasionali, ci faranno capire cosa è successo, cosa succede e cosa potrà succedere prima che sorga l’alba. Le fondamenta di cemento armato delle cui pose è superspecialista in edilizia, sembrano, così, metaforicamente sgretolarsi nel vissuto di Ivan, nonostante il suo sangue freddo, al diapason delle voci lontane che ora stupefatte, ora infuriate, ora imploranti, ora straziate l’assediano man mano che le ore e i chilometri passano.
Valerio Caprara, Il Mattino


STEVEN KNIGHT
Filmografia
:
Redemption - Identità nascoste (2013), Locke (2013)


Martedì 14 aprile 2015: 
IN ORDINE DI SPARIZIONE di Hans Petter Moland, con Stellan Skarsgård, Bruno Ganz, Pål Sverre Valheim Hagen, Birgitte Hjort Sørensen

 
 
 
 
 

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