È curioso che il titolo del film La classe operaia va in paradiso sia un’appropriazione ‘politicamente scorretta’ di Pirro che lo prende a prestito, manipolandolo, da quello di un’opera teatrale - per giunta sull’armata rossa – e che oggi torni a rivivere proprio sul palcoscenico.. In una lunga intervista rilasciata a Enzo Latronico poco tempo prima di spegnersi, lo sceneggiatore e scrittore Ugo Mattone, in arte Ugo Pirro, racconta la genesi del film:

“Innanzi tutto bisogna dire che noi di sinistra, effettivamente, non sapevamo un cazzo della fabbrica, o meglio, ci sfuggiva la vita degli uomini dentro la fabbrica, della catena di montaggio, della vita, dei ritmi di lavoro e dei loro ragionamenti. In effetti, chi c’era mai stato dentro una fabbrica? […] Siccome non ci andava mai bene niente, fondammo un Comitato Cineasti contro la repressione. Pagavamo tutto con i nostri soldi, la pellicola, lo sviluppo, tutto insomma, e decidemmo di seguire una lotta operaia alla FATME, appena fuori Roma, all’Anagnina (la FATME si occupava di apparecchi telefonici). Era stato appena licenziato un operaio e Potere Operaio aveva organizzato una lotta, con cortei intorno alla fabbrica, per farlo riassumere. […] Noi filmammo tutto, e pensammo che la storia di questo operaio (mi sembra si chiamasse Zimbelli) potesse essere una buona idea da raccontare al cinema”. […] Il titolo l’ho inventato io e ti dico anche da dove l’ho preso, da un dramma teatrale dell’epoca della rivoluzione russa che s’intitola L’armata rossa va in paradiso.”

La classe operaia va in paradiso è il secondo atto della così detta ‘trilogia del potere’, iniziata con Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e che si conclude con La proprietà non è più un furto (1973). Rappresenta inoltre lo zenit del sodalizio Pirro/Petri/Volonté; una sinergia di grandi talenti ma dai caratteri estremi, come per certi aspetti sono stati gli anni della contestazione. In Il cinema della nostra vita, Pirro ha dichiarato che “[…] fu proprio il titolo a ispirare la scena finale, allorché alla catena gli operai sognano senza illusioni il loro paradiso. Nessuno fra quanti presero parte al film e tanto meno la critica colse il significato di quella scena, così disperata e premonitrice”.

Tra gli oltre mille fascicoli che compongono il fondo Pirro si trovano centinaia di pagine - "trafitte in ogni spazio bianco da quella scrittura minuscola" – dedicate all’elaborazione della sceneggiatura del primo film italiano che racconta l’esistenza degli operai. Ogni scena è stata pensata nei minimi dettagli, i dialoghi scritti e riscritti più volte, come l’incontro al manicomio dal sapore pirandelliano tra Lulù Massa (Gian Maria Volonté) e l’ex operaio Militina (Salvo Randone), o i diversi momenti di scontro fuori e dentro la fabbrica. Particolare attenzione è stata riservata alla scrittura dei dialoghi tra sindacati, operai e il movimento studentesco; se ne trovano diverse versioni. Invece, del feroce quanto straordinario finale onirico nulla, neppure una riga. Al suo posto, un finale che non muta l’interpretazione pessimistica di Pirro/Petri sul destino riservato ai lavoratori a cottimo, ma fa di Lulù Massa un eroe tragico, nel senso più classico del termine:

“La sirena suona, è come un urlo di morte, i cancelli cigolano, Massa abbassa la testa, ha la cieca espressione di un toro sanguinante. […] Massa corre corre verso la palazzina dei padroni inseguito dalle jeep che gli urlano addosso. Ora Massa non corre più verso il tradimento, verso il suo posto di lavoro, ma verso il massacro, il sacrificio, si ferma alza le mani quasi a favorire la sua distruzione fisica e una jeep lo investe lo sbatte contro la vetrata della direzione. L’immagine si ferma sulla sua ultima smorfia della vita, il braccio destro è alzato, il pugno è chiuso teso verso il cielo. Sembra già bussare alla porta del Paradiso.”

Una conclusione che avrebbe dato al protagonista un senso di riscatto, restituendogli la dignità umana e allo spettatore una possibilità di catarsi. E invece gli autori, tirano dritto, sfondano il muro, soffocando ogni speranza nella nebbia.