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di Gianni Cerasuolo Ci sono due film nelle sale che mostrano la realtà del nostro Paese. Uno è quello di Daniele Ciprì: “E’ stato il figlio”. L’altro, uscito venerdì scorso, è quello di Matteo Garrone: “Reality”. Hanno molte cose in comune le due pellicole, nonostante le storie siano differenti. Innanzitutto: un’Italia da incubo. Poi, le facce e i corpi. Come se i due autori avessero voluto contrapporre le bocche sdentate, le taglie extra large, le smorfie e le rughe ad un universo volgare di plastica di tette, sederi e muscoli da palestrati che da troppo tempo entrano nelle nostre case e impogono modelli di comportamento, diete, massaggi e la religione del fitness. E infine l’uso che Ciprì e Garrone hanno fatto degli spazi, i luoghi (risparmiateci il termine location che qui sarebbe appropriato ma ormai è diventato un tormentone): il cortile dei casermoni popolari di Palermo da un lato, la piazza del mercato di Napoli, dall’altro. Ma l’elemento che lega i due film sono i protagonisti delle due vicende, le due famiglie – i proletari di una volta - di quartieri popolari, sconvolte da un episodio tragico, nel lavoro di Ciprì, e dal delirio mediatico, nell’opera di Garrone. Ciascuno con un carico di grottesco, kitch, cattiveria e follia. Personaggi tanto caricati - e resi straordinariamente efficaci dai loro interpreti: dal solito Servillo alla sorpresa Arena, ai tanti attori non protagonisti, straordinari, (due per tutti: Aurora Quattrocchi e Nando Paone) o addirittura presi in prestito dalla strada – da sembrare eccessivi, fuori registro, metafisici, paradossalmente lontani dalla realtà. Invece i due registi ci sbattono sul muso storie di squallore e violenza quotidiane, quelle che pensiamo siano impossibili da verificarsi e che non riusciamo quasi a distinguere perché non ci sorprendono più: una storia supera l’altra, come se l’asticella del degrado e della follia si alzasse sempre di più, o forse semplicemente perché il bombardamento dell’informazione ci fa apparire orribile sempre l’ultimo racconto, l’ultima news che ci appare sul telefonino, sintetica e apocalittica. E lo scandalo oppure il terribile omicidio del giorno prima sono già in archivio, digeriti e dimenticati. La famiglia Ciraulo nel film di Ciprì e la tribù che circonda Luciano Ciotola nel film di Garrone sono lo specchio di falsi valori (la Mercedes da un lato, il Grande Fratello dall’altro), della mancanza di punti di riferimento a cui aggrapparsi. Le metafore di un Paese, appunto. Con il dilagare degli ultimi scandali politici, viene da chiedersi tuttavia perché i nostri autori (i pochi validi che ci sono rimasti: Garrone e Sorrentino innanzitutto) non prendano di petto la questione morale, non lavorino con più coraggio e si sporchino un po' le mani. Servono film che raccontino questo stato di cose che indigna la parte più sana di questo Paese. Non si può ancora girare alla larga; le storie che abbiamo visto sono validissime e ben costruite, ma non colpiscono il bersaglio grosso (i politici e il malcostume, gli intrecci politico-mafiosi). L’antipolitica va tanto di moda e sembra averla vinta. Il cinema italiano invece può aiutare a capire questa terribile fase storica, come fece il neorealismo. Hanno un bel dire Verdone e i Vanzina che ormai la realtà supera qualsiasi copione già scritto. Moretti girò "Il caimano" più di sei anni fa: sembra passato un secolo.
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