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Le Ragioni del NO – Intervista a Umberto Terracini, presidente della Costituente

Post n°13790 pubblicato il 28 Aprile 2017 da Ladridicinema

Pubblicato il 22 ottobre 2016 | di a cura di Gian Franco Ferraris

da https://www.nuovatlantide.org/le-ragioni-del-no-intervista-umberto-terracini-presidente-della-costituente/
a cura di Gian Franco Ferraris – 21 ottobre 2016

Riflessioni intorno al libro  “QUANDO DIVENTAMMO COMUNISTI” Conversazione con Umberto Terracini ed. Rizzoli

Questo libro-intervista a Umberto Terracini pubblicato nel 1981 (1) è significativo del distacco profondo che esiste tra i costituenti del dopoguerra e i riformatori di oggi. I primi (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, partiti laici) hanno scritto una Costituzione con l’intento di costruire ‘insieme’ istituzioni democratiche solide a favore di tutti gli italiani, i “nuovi” riformatori pensano solo a gestire ‘in pochi’ il potere, conservare i privilegi del ceto politico, dividendo gli italiani e dimenticando gli aspetti sociali della carta originaria.

La vita di Terracini è stata straordinaria, un romanzo avvincente e drammatico che ha attraversato l’intero ‘900. Giovane avvocato di famiglia borghese ha preferito alla carriera l’impegno politico; con Gramsci e Bordiga è stato tra i fondatori del Partito Comunista a Livorno nel 1921  (aveva 26 anni), e nel luglio di quell’anno, al congresso dell’internazionale comunista, si scontrò con Lenin che in francese “plus de souplesse camarade Terracini” propose il fronte unico tra comunisti e socialisti e in quell’occasione coniò la famosa formula “estremismo malattia infantile del comunismo” (2) .

costituzione-firma-2E’ stato l’antifascista che ha scontato più anni nelle galere di Mussolini, ben 17 anni, senza cedimenti o compiacimenti. Ha pagato di persona il rigore morale e la fedeltà agli ideali di libertà e giustizia (la stessa sorte di Gramsci) non solo con il carcere ma con l’isolamento da parte dei suoi compagni di partito, fino all’espulsione dal PCI. Nell’immediato dopoguerra rientra nel Partito Comunista (di cui si è sempre sentito parte, seppur escluso) e ne resterà dirigente senza mai lasciarsi condizionare dalle opportunità contingenti (non è mai stato stalinista) e per questo relegato spesso al margine delle decisioni, senza mai nutrire rancori e cercare rivincite. Terracini, deputato alla Costituente, fu eletto presidente del primo parlamento repubblicano, diresse i lavori per la stesura della costituzione e ne firmò il testo assieme a Enrico De Nicola e al presidente del consiglio Alcide De Gasperi.

 

« Per noi si trattò di restare fedeli alla linea politica, legalitaria e democratica del partito. Non dimentichiamoci che il PCI, appena fu promulgata la Costituzione, concentrò tutta la sua azione sull’esigenza di ottenerne l’applicazione, di spingere il governo e l’apparato dello Stato a realizzare gli obiettivi, le innovazioni, che la Costituzione prometteva agli italiani. Posso dire, secondo un giudizio che non ho mai nascosto, che l’azione del partito ebbe anche in questo campo dei limiti, dei ritardi. Infatti si pose l’accento quasi esclusivamente sulla parte istituzionale della Costituzione, si condussero quindi battaglie per ottenere l’attuazione delle Regioni, lo sviluppo concreto delle autonomie locali, ma si trascurò di condurre una lotta altrettanto incisiva per l’affermazione dei diritti civili pure sanciti dalla Costituzione. Ad ogni modo assumere come punto di riferimento della politica del partito la Costituzione rappresentò in quegli anni difficili la salvezza del PCI e dell’intero movimento operaio italiano. Solo così fu possibile evitare che lo stalinismo compromettesse non solo il presente ma anche il futuro del partito. »

 

Terracini ribadisce l’importanza dell’approdo democratico raggiunto con l’approvazione della Costituzione nel ricordo dell’attentato a Togliatti.

 

«Togliatti stesso, mentre lo portavano in ospedale, raccomandò ai compagni di non perdere la testa. “State calmi”, disse a Scoccimarro. Pensando a quanto gli era successo temette subito che le conseguenze potessero distruggere il risultato di tanti sforzi. Di una politica meditata, lontana da forme di violenza e ispirata all’accettazione del metodo democratico.

 

togia497462_0140714_1948-palmiro-togliatti-130183C’è sempre una corrispondenza tra la costituzione e lo spirito del Paese. E’ ridicola l’affermazione di Renzi che con la riforma cambierà la politica e si ridurranno le spese: le Costituzioni “non precedono la società, ma ne sono l’espressione proiettata in avanti. La Costituzione del ’48 infatti fu la conseguenza della grande rigenerazione spirituale, sociale e culturale prodotta dall’immenso dolore della guerra, e da sentimenti di eguaglianza, libertà, dignità, solidarietà che erano radicati nelle masse” (Carnitti). La classe politica uscita dalla guerra, nella sua maggioranza conduceva vita austera, era mal pagata e non era sospettabile di intenzioni di carrierismo e di conseguenza credevano in un parlamento rappresentativo della società e eletto dai cittadini. La classe politica di oggi si è dimostrata incapace di affrontare i temi cruciali del Paese, il denaro imperversa come la disuguaglianza: povertà, disoccupazione, lavoro precario, sottoproletarizzazione del ceto medio, mancanza di competitività, di tecnologia con il resto del mondo, burocratizzazione.  La frattura tra i politici e la società è diventata una voragine e la nuova classe politica ‘egoista e ambiziosa’ ha pensato bene con artifici costituzionali di conservare il potere con un parlamento di nominati, compresi i 100 senatori.

Questo non vuole dire che la nostra Costituzione non sia migliorabile, l’attuale sistema delle regioni a statuto speciale – che la riforma mantiene sostanzialmente inalterato – poggia su ragioni storiche in gran parte superate, così come ci sono intere parti del Paese che hanno problemi incancreniti nel tempo. Sarebbe opportuno rivedere le competenze dello Stato e quello delle autonomie locali a partire dalle Regioni (molte di queste sono una vera e propria palla al piede del Paese con costi enormi e burocrazia asfissiante) al fine di giungere a una diversificazione delle competenze dei territori e alla ripartizione razionale e trasparente delle risorse tra Stato centrale e Enti locali. Da oltre 20 anni i cittadini si sono visti duplicare le tasse da parte dello Stato e delle autonomie locali.

Ma è intuitivo che la riforma Renzi/Boschi non ha “valori costituenti”, ma solo lo scopo di impadronirsi del potere per soddisfare interessi personali o di lobby, più o meno lecite. Al contrario, i padri costituenti avevano lo sguardo rivolto all’interesse generale del Paese ad interpretare con la costituzione i bisogni ed i diritti di tutti. Purtroppo molti dei dettati ‘sociali’ della Costituzione giacciono dimenticati nella carta da parte di tutte le forze politiche.

Mentre leggevo il libro intervista di Terracini ho respirato aria fresca, ho ritrovato, pur in anni drammatici, la politica fatta di valori e di ideali. Ci sono anche capitoli curiosi come quando Terracini dopo l’espulsione dal Pci rivede Togliatti dopo 20 anni (pag. 140).

 

«Il mattino dopo chiesi a Turchi dov’era il partito. Mi spiegò che si trovava in un palazzo di via Nazionale. Ci andai. V’era una gran quantità di gente che saliva e scendeva le scale, le porte degli uffici, al primo e al secondo piano, quasi tutte aperte. Chiesi a qualcuno dove fosse lo studio di Togliatti. Mi indicarono un uscio chiuso. Mi avvicinai, bussai, entrai in una stanza dove c’erano molti tavoli e una persona sola, Togliatti, terracini-togliattiintento a leggere alcuni fogli. Aveva in mano una matita. Dissi: “buongiorno”. E lui senza neanche alzare la testa, rispose: “buongiorno”, e aggiunse: “aspetta un momento”. Dopo qualche minuto posò la matita, alzò gli occhi e finalmente mi vide. Ci guardammo un attimo e poi ci salutammo di nuovo con più calore. “Sono venuto da te per sapere che cosa devo fare” dissi. “Adesso siediti” mi rispose. “Siediti, aspetta un momento, vediamo subito”. Cominciammo a parlare. Dopo un quarto d’ora mi affidò ad un giovane compagno affinché mi accompagnasse in giro per gli uffici. Ci rivedemmo nel pomeriggio. Mi accolse con naturalezza, come se niente fosse accaduto, come se non avessi mai cessato di far parte del gruppo dirigente. Mi affidò l’incarico di mettere in piedi il centro elettorale del partito in vista delle future elezioni. Nei giorni seguenti rividi i vecchi compagni, Secchia, Longo, Scoccimarro, e Amendola, che avevo conosciuto al confino di Ponza, e via via conobbi i giovani quadri: Sereni, Alicata, Ingrao. Con nessuno di loro parlai dell’espulsione, della triste vicenda che avevo vissuto. Mi tuffai invece nel lavoro, con entusiasmo, grato a Togliatti. Perché senza di lui difficilmente mi sarebbero state riaperte le porte del partito. »

 

Terracini racconta con serenità anche le sofferenze patite e la delusione di essere emarginato dagli stessi compagni con cui ha vissuto carcere e confino…

D) (Mario Pendinelli) : Chi le comunicò l’espulsione dal partito?

 

«Mi pare Li Causi. Un compagno pacioso e socievole, forse proprio per questo quello più portato a sdrammatizzare simili eventi. Ma non le giuro sia stato Li Causi. Il primo che me lo disse fu probabilmente Antonio Cicalini. Cicalini è una figura curiosa e interessante di comunista. Era stato mandato al confino fra i primi. Poi era ritornato a casa. Poi era stato di nuovo arrestato e confinato. Aveva costituito lui la prima organizzazione di partito al confino di Ponza; quindi era stato trasferito a Ventotene, ed era divenuto il severo custode della disciplina di tutti, intransigente e rigido, per adoperare una terminologia che risale agli ultimi anni della nostra milizia nel partito socialista, prima della scissione. Allora si era formato nel PSI un gruppo di giovani intransigenti vicini a Bordiga, poi all’interno della frazione intransigente si era formata una frazione ancora più intransigente che si era definita intransigente rigida. Cicalini, di Imola, lo definirei così: intransigente rigido. Ed era quello che al confino amministrava la giustizia, per così dire, naturalmente sempre in accordo con gli altri compagni del direttivo, nel quale c’erano elementi come Scoccimarro, Secchia, Li Causi, che certamente non avrebbero accettato di essere usurpati nelle loro funzioni. Comunque mi venne detto un giorno che non facevo più parte del PCd’I. E assieme a quella comunicazione mi venne rivolto l’invito a non cercare di avvicinare più i compagni del collettivo, a ciascuno dei quali venne poi comunicato che ero stato espulso e che quindi non dovevano più avere rapporti con me. E così incominciarono e poi scorsero quegli ultimi due anni di confino che furono per me particolarmente melanconici: mi ritrovai completamente isolato, i compagni mi sfuggivano. Solo Camilla Ravera osò contravvenire a quella disposizione. Un gesto che pagò caro: fu espulsa anche lei dal partito. »

La stessa sorte toccò a Gramsci, l’amico fraterno di Terracini fin dal 1914 a Torino, è struggente il ricordo di Gramsci nell’isolamento in carcere sino alla morte nel 1937

 

Il mio dissenso non giungeva ai compagni, ma esclusivamente all’orecchio del centro estero, il quale non lo rendeva pubblico neppure eventualmente per contestarmi, per criticarmi, per respingere le mie posizioni. Mi sentivo impotente, quasi un sepolto vivo. Sapevo attraverso “radio carcere” che anche Gramsci aveva espresso un netto dissenso sulla “svolta”. Ed anche attorno a lui era calata una cortina di silenzio. Le critiche di Gramsci avevano però molto allarmato il centro estero del partito, e in modo particolare Togliatti. Fu poi Athos Lisa, un compagno recluso a Turi, a raccontarmi come erano andate le cose. Le critiche di Gramsci alla linea del partito, anche se espresse solo dentro le mura spesse del carcere, erano giunte a Parigi. Togliatti aveva allora incaricato un fratello di Gramsci, Gennaro, il quale lavorava a Parigi, di rientrare in Italia, di recarsi a Turi, di mettere ufficialmente al corrente Antonio della svolta e dell’espulsione dei “tre”, e quindi di riferirne il parere al partito. La scelta cadde su Gennaro perché era l’unico che avesse diritto, secondo la regolamentazione carceraria fascista, di visitare il detenuto Gramsci. Il colloquio fu breve, ed avvenne in presenza di un agente di custodia sardo, di cui Gramsci si fidava. Antonio disse in modo esplicito al fratello che non era d’accordo con la linea dell’Internazionale, aggiunse che non condivideva il provvedimento di espulsione dei “tre”. Eppure Gennaro Gramsci, appena rientrò a Parigi, disse a gramsciantonyTogliatti tutto il contrario. Sostenne che Antonio era perfettamente d’accordo con il partito, smentì le voci sul suo dissenso. Spiegò poi che era preoccupato, che temeva, nel clima di intolleranza che si era ormai creato nel partito, che anche Antonio venisse colpito da misure disciplinari, che fosse messo al bando. Per questo aveva mentito. Credeva che se avesse detto la verità sarebbero seguite delle conseguenze spiacevoli per il fratello in prigione. Conseguenze anche pratiche, materiali. Perché era il partito, attraverso Tatiana, la cognata di Antonio, che provvedeva a far pervenire a Gramsci qualche medicina, qualche pacco di viveri, qualche piccola somma di denaro, e soprattutto i libri senza i quali Antonio si sarebbe davvero sentito solo e perduto. Comunque il partito conobbe ugualmente la realtà. Fu proprio Athos Lisa, appena scarcerato, a inviare un rapporto al centro di Parigi, per avvertire che Antonio aveva addirittura iniziato un lavoro di educazione politica tra i compagni in carcere, con l’intento di formare nuovi quadri estranei al settarismo e al massimalismo. Lisa avvertì inoltre che l’atteggiamento di Gramsci aveva suscitato la reazione di una parte dei compagni che componevano il direttivo della cellula carceraria, e che alcuni, accusandolo di opportunismo socialdemocratico, erano giunti a chiedere la sua espulsione dal partito.

 
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