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Quell’Orso di Willem Dafoe da ilcinematografo

Post n°14309 pubblicato il 25 Febbraio 2018 da Ladridicinema
 

"Grandi produzioni o opere indipendenti non fa differenza: quello che conta è che ogni film riesca a cambiare lo sguardo sul mondo che avevo fino a quel punto". Intervista all'attore americano, che a Berlino 68 riceve il premio alla carriera
22 febbraio 2018
Quell’Orso di Willem DafoeWillem Dafoe

È andato all’attore americano Willem Dafoe l’Orso d’Oro alla carriera del Festival di Berlino. L’attore dallo sguardo e dalla mimica senza eguali, è uno dei volti più marcati di Hollywood. Una star, ma capace di illuminare un film anche dalla seconda fila di un ensemble di stelle.

Uno stile che gli ha fatto conquistare tre nomination agli Oscar come Miglior attore non protagonista per l’iconico dramma sul Vietnam Platoon di Oliver Stone del 1986, per il tributo al genio di Friedrich Wilhelm Murnau su un possibile dietro le quinte del film Nosferatu del 1922,  L’ombra del vampiro (2000) e per la pellicola indipendente  attualmente in corsa, The Florida Project (Un sogno chiamato Florida, in Italia dal 29 marzo).

Il 4 marzo Dafoe ha davvero ottime chance di ricevere finalmente la sua prima statuetta. Anche per questo l’atmosfera al Berlinale Palast alla serata di gala in suo onore era particolarmente festosa e tesa. Nel programma della Berlinale c’è anche un omaggio dedicato a lui con dieci film in cartellone. Lo abbiamo incontrato prima della premiazione.

Mister Dafoe, la pellicola Vivere e morire a L.A. che l’ha consacrata attore di caratura mondiale, ha trent’anni. Nella sua carriera ha lavorato finora in oltre cento film. Ci pensa ancora agli inizi?

Si, alcuni film mi sono oggi ancora molto vicini. A cominciare da Vivere e morire a L.A. Si ricorda di Darlanne Fluegel in quel film?

È l’informatrice del suo antagonista, William Peterson.

Ho saputo da poco, e per caso, che è morta. Era malata di Alzheimer da tempo. Uno choc, avevamo più o meno la stessa età. I miei film mi ricordano le fasi della vita che ho attraversato: le difficoltà iniziali, il mio innamoramento, la gioia di un successo, il dolore per una perdita. I titoli dei miei film sono anche quelli dei capitoli della mia vita.

Quali ricordi la legano al successo di Vivere e morire a L.A.?

All’epoca lavoravo ogni giorno con il Wooster Group, la compagnia di teatro sperimentale di New York, di cui sono anche co fondatore. Mi sentivo ancora un attore di teatro e solo quello. Friedkin venne da me per dirmi che stava preparando un film che voleva assolutamente fosse recitato da volti sconosciuti. Solo così, questa la sua tesi, lo spettatore può immedesimarsi nel suo personaggio senza riserve. Questo approccio è uno strumento che ho fatto mio da allora. Da spettatore trovo affascinante non sapere nulla dell’interprete. Ovviamente è assurdo immaginare di presentarmi oggi da sconosciuto davanti a una macchina da presa. Ma è quello che mi aspetto dai lavori degli altri se devono conquistarmi. Nel recente The Florida Project di Sean Baker, la mia aspettativa si è addirittura concretizzata, in quanto sono circondato da un cast di attori non professionisti. Persone meravigliose, ma non attori. Un’esperienza di grande ispirazione.

Per The Florida Project è nominato all’Oscar per la terza volta. Nella pellicola è il portiere di un motel vicino a DisneyWorld dove vivono giovani famiglie senza dimora. Non ha pensato che il suo nome potesse distogliere l’attenzione dagli altri interpreti?

Sean Baker è seguito da un pubblico molto fedele, anche se piccolo. Ho lavorato in tanti film dove il mio nome era in cima ai credits senza che ciò abbia reso il numero di spettatori minimamente più grande. Purtroppo.

Prima di The Florida Project era consapevole di cavarsela così bene sul set con i bambini?

Amo lavorare con i bambini. E lo sapevo già a teatro. Se da un punto di vista tecnico i bambini sono naturalmente limitati, quello che li rende magici è l’assoluta libertà che sanno esprimere. Iniziano semplicemente a recitare quando li si incoraggia a iniziare. Quando sono davanti la camera sono in un loro mondo, separato da tutto il resto, in un modo così totale che nessun attore professionista potrà mai conoscere. E portano sul set un caos contagioso che fa bene a tutti.

È un attore che impiega molto il corpo. È stata dura tenere il passo con l’energia dei tanti bambini del film?

Il bello di The Florida Project è che il mio ruolo in un certo senso riflette le condizioni di lavoro di un set manager. Il mio personaggio è responsabile per l’ordine e il funzionamento delle cose. Il mio approccio al ruolo è stato così molto pragmatico e tranquillo. Naturalmente non intervenivo quando c’erano i momenti di gioia incontrollata. Lì stavo a osservare. E fermavo il mio lavoro.

Prima di iniziare le riprese ha vissuto per qualche mese in diversi motel della Florida. Si prepara sempre in modo così accurato ai suoi ruoli?

Dipende dal progetto. In genere mi resta sempre un sapore in bocca un po’ amaro quando professionisti dell’industria dell’intrattenimento cercano di rappresentare aspetti della società come la povertà o la classe operaia. Anche io ho fatto errori in passato. L’atteggiamento, la posa, nei confronti di questi milieu può scivolare facilmente nella presunzione. Il che è inutile e dannoso al pari di una simpatia eccessiva o della compassione. Quello che ho voluto fare prima di iniziare questo film è stato conoscere storie di vita da vicino, biografie ascoltate dall’altra parte della parete.

            The Florida Project

Sul grande schermo si ha spesso l’impressione che a interessarle di più non sia tanto la tecnica quanto l’espressione, la fisicità dei personaggi che interpreta.

Sono con un piede a Hollywood, e con l’altro nel cinema indipendente. Sono consapevole di quello che si aspetta quest’industria, ma sono anche rimasto in parte molto naif, nonostante il numero di film che ho fatto. Amo osservare come certe pellicole riescano a cambiare lo sguardo sul mondo che avevo avuto fino a quel punto. La fisicità è tutto. Da attore mi affascina l’idea di vivere un’avventura che venga immortalata da una macchina da presa. Per questo vorrei tanto lavorare col regista messicano Carlos Reygadas. Gliel’ho anche proposto recentemente a un festival. Lui però ha gentilmente rifiutato con la motivazione che lavora esclusivamente con attori non professionisti. E ho pensato: sarebbe la mia occasione tanto agognata! Perché sono un attore professionista che vorrebbe essere di nuovo un profano.

Cambia continuamente tra grandi studios e produzioni indipendenti. Ne vale ancora la pena?

Onestamente non lo so. Vivo tra Roma e New York e non sono un grande conoscitore degli ingranaggi interni di Hollywood. Quello che so è che voglio mantenermi molte possibilità aperte. I miei biglietti da visita sono i miei film. Finché ne esisteranno delle copie in giro sicuramente non resterò disoccupato. Qualcuno mi offrirà una parte.

Il paesaggio cinematografico americano sta cambiando a una velocità drammatica. Finanziare piccoli film sta diventando una missione impossibile. Vede l’esito di questo cambiamento?

Vivo con le conseguenze che si fanno sentire ora. Sul futuro non posso dire nulla. Nessuno può prevederlo. Ormai anche i grandi studios stanno sparendo e l’industria è dominata sempre più da persone che di cinema sanno poco o nulla. Hollywood è dominato da franchising, e piattaforme di streaming come Amazon o Netflix lo stanno ormai inglobando. Dove tutto questo porterà è difficile a dirsi. Sicuramente il nostro rapporto con il cinema è già cambiato profondamente.

 

Simone Porrovecchio
 
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