Creato da: Ladridicinema il 15/05/2007
Blog di cinema, cultura e comunicazione

sito   

 

Monicelli, senza cultura in Italia...

 
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Agosto 2015 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
          1 2
3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 23
24 25 26 27 28 29 30
31            
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

tutto il materiale di questo blog può essere liberamente preso, basta citarci nel momento in cui una parte del blog è stata usata.
Ladridicinema

 
 

Ultimi commenti

Contatta l'autore

Nickname: Ladridicinema
Se copi, violi le regole della Community Sesso: M
Età: 39
Prov: RM
 
Citazioni nei Blog Amici: 28
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

FILM PREFERITI

Detenuto in attesa di giudizio, Il grande dittatore, Braveheart, Eyes wide shut, I cento passi, I diari della motocicletta, Il marchese del Grillo, Il miglio verde, Il piccolo diavolo, Il postino, Il regista di matrimoni, Il signore degli anelli, La grande guerra, La leggenda del pianista sull'oceano, La mala education, La vita è bella, Nuovo cinema paradiso, Quei bravi ragazzi, Roma città aperta, Romanzo criminale, Rugantino, Un borghese piccolo piccolo, Piano solo, Youth without Youth, Fantasia, Il re leone, Ratatouille, I vicerè, Saturno contro, Il padrino, Volver, Lupin e il castello di cagliostro, Il divo, Che - Guerrilla, Che-The Argentine, Milk, Nell'anno del signore, Ladri di biciclette, Le fate ignoranti, Milk, Alì, La meglio gioventù, C'era una volta in America, Il pianista, La caduta, Quando sei nato non puoi più nasconderti, Le vite degli altri, Baaria, Basta che funzioni, I vicerè, La tela animata, Il caso mattei, Salvatore Giuliano, La grande bellezza, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Todo Modo, Z - L'orgia del potere

 

Ultime visite al Blog

acer.250AVV_PORFIRIORUBIROSATEMPESTA_NELLA_MENTESense.8cassetta2surfinia60monellaccio19iltuocognatino1mario_fiyprefazione09LiledeLumiLMiele.Speziato0Ladridicinemarossella1900.rvita.perez
 

Tag

 
 

classifica 

 

Messaggi di Agosto 2015

 

Taxi Teheran

Post n°12517 pubblicato il 26 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Poster

Seduto al volante del suo taxi, Jafar Panahi percorre le animate strade di Teheran. In balia dei passeggeri che si susseguono e si confidano con lui, il regista tratteggia il ritratto della società iraniana di oggi, tra risate ed emozioni.

  • FOTOGRAFIAJafar Panahi
  • MONTAGGIOJafar Panahi
  • PRODUZIONE: Jafar Panahi Film Productions
  • DISTRIBUZIONE: Cinema
  • PAESE: Iran
  • DURATA82 Min

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Quando c'era Marnie

Post n°12516 pubblicato il 26 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Poster

Anna, una ragazzina timida e solitaria di 12 anni, vive in città con i genitori adottivi. Un'estate viene mandata dalla sua famiglia in una tranquilla cittadina vicina al mare ad Hokkaido. Lì Anna trascorre le giornate fantasticando tra le dune di sabbia fino a quando, in una vecchia casa disabitata, incontra Marnie, una bambina misteriosa con cui stringe subito una forte amicizia...

  • MUSICHETakatsugu Muramatsu
  • PRODUZIONE: Dentsu, Hakuhodo DY Media Partners, KDDI Corporation
  • DISTRIBUZIONE: Lucky Red
  • PAESE: Giappone
  • DURATA103 Min
SOGGETTO:

Tratto dall'omonimo classico per ragazzi della letteratura inglese scritto da Joan G. Robinson.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Il grande quaderno

Post n°12515 pubblicato il 26 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Titolo originale: A nagy füzet

Poster

Verso la fine della seconda guerra mondiale, la gente nelle grandi città è in balia dei raid aerei e della carestia. Una giovane madre disperata lascia i suoi figli, due gemelli, a casa della nonna che vive in uno sperdutissimo paese, infischiandosene del fatto che questa donna sia una alcolista inumana e crudele. Gli abitanti del villaggio la chiamano "la strega" e si racconta che abbia avvelenato il marito tempo fa. Ben accolti all'inizio, con il passare dei giorni, i gemelli comprendono che dovono imparare a cavarsela da soli nel nuovo ambiente. Si rendono conto che l'unico modo per affrontare il mondo degli adulti e la guerra assurda e disumana, è riuscire ad essere il più possibile insensibili e spietati. Imparando a rendersi liberi dallo stimolo della fame, dal dolore e dalle emozioni, saranno in grado di sopportare disagi futuri...

  • FOTOGRAFIAChristian Berger
  • MONTAGGIOSzilvia Ruszev
  • PRODUZIONE: Hunnia Filmstúdió, Intuit Pictures, Amour Fou Filmproduktion
  • DISTRIBUZIONE: Academy Two
  • PAESE: Australia, Germania, Francia, Ungheria
  • DURATA109 Min
SOGGETTO:

Tratto dal best seller di Agota Kristoff "la trilogia della città di K".

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

In un posto bellissimo

Post n°12514 pubblicato il 26 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Poster

Lucia è una donna semplice. Sposata con Andrea, negli anni ha sempre lasciato al marito la responsabilità di decidere cosa sia giusto fare in ogni situazione, dedicandosi al figlio e al suo negozio di fiori in centro. All'improvviso, la scoperta del tradimento di Andrea e l'incontro con Ahmed, un ragazzo straniero che vende oggetti per strada, stravolgono tutte le sue certezze. Lucia inizia a cambiare e a piccoli passi rientra in contatto con se stessa, trovando infine la forza di dare una svolta alla sua vita.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

La bella gente

Post n°12513 pubblicato il 26 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Poster

Alfredo è un architetto. Susanna una psicologa. Gente di cultura, gente di ampie vedute. Cinquantenni dall’aria giovanile, dalla battuta pronta e lo sguardo intelligente. Vivono a Roma ma trascorrono i fine settimana e parte dell’estate nella loro casa di campagna all’interno di una tenuta privata. Un giorno Susanna, andando in paese, resta colpita da una giovanissima prostituta che viene umiliata e picchiata da un uomo sulla stradina che porta alla statale. In un attimo la vita di Susanna cambia, ha deciso che vuole salvare quella ragazza. Salvarla per salvare i propri ideali.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Minions

Post n°12512 pubblicato il 26 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Poster

La storia di Minions inizia all'alba dei tempi. Partendo da organismi gialli unicellulari, i Minion si evolvono attraverso i secoli, perennemente al servizio del più spregevole dei padroni. Continuamente senza successo nel preservare questi maestri, dal T-Rex a Napoleone, i Minion si sono ritrovati senza qualcuno da servire e sono caduti in una profonda depressione. Ma un Minion di nome Kevin ha un piano, e lui - insieme all'adolescente ribelle Stuart e all'adorabile piccolo Bob - decide di avventurarsi nel mondo per trovare un nuovo capo malvagio da seguire per sé e i suoi fratelli. Il trio si imbarca in un viaggio emozionante che li condurrà alla loro prossima potenziale padrona, Scarlet Overkill (Sandra Bullock), la prima super-cattiva al mondo. Un viaggio che li porterà dalla gelida Antartide alla New York City del 1960, fino ad arrivare a Londra, dove dovranno affrontare la loro sfida più grande: salvare tutti i Minion ... dall'annientamento.

  • MONTAGGIOClaire Dodgson
  • MUSICHEHeitor Pereira
  • PRODUZIONE: Universal Pictures e Illumination Entertainment
  • DISTRIBUZIONE: Universal Pictures
  • PAESE: USA
  • DURATA91 Min

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Partisan

Post n°12511 pubblicato il 26 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Poster

Gregori (Vincent Cassel) è il leader carismatico di un gruppo di donne e bambini maltrattati, il loro protettore e il loro mentore. Tra le attività ordinarie e quotidiane che insegna ai bambini, c'è anche l'omicidio. I problemi sorgono quando Alexander (Jeremy Chabriel), figlio adottivo prediletto di Gregori, mette in discussione la sua autorità. Il piccolo Alexander è come ogni altro bambino: ingenuo, curioso, sveglio. Ma è anche un assassino perfettamente addestrato. Con ritmo incalzante, PARTISAN cattura lo spettatore dentro un mondo claustrofobico, governato da un codice morale deformato, dove lo sguardo si apre su visuali sconcertanti e il respiro viene a mancare.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Mirafiori Luna park

Post n°12510 pubblicato il 26 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Poster

A Mirafiori, sede storica dei primi stabilimenti della Fiat e simbolo delle lotte operaie degli anni Settanta, è tempo di riqualificazione: una vecchia fabbrica abbandonata sta per essere abbattuta per fare spazio al vicino campo da golf. Ma Carlo, Franco e Delfino, che nel capannone hanno speso buona parte della loro vita, non sono disposti a uscire di scena senza fare un ultimo tentativo per ripopolare il quartiere e riavvicinare figli e nipoti.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Film in uscita

Post n°12509 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Lupin III VS Detective Conan – Il Film, la recensione

Post n°12508 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Lupin III VS Detective Conan

 

 

Dopo il successo dello special televisivo Lupin III VS Detective Conan, i produttori giapponesi decidono di dare un seguito al cross-over, facendo incontrare il ladro gentiluomo e il bambino detective sul grande schermo. Passano quattro anni e Lupin VS Detective Conan – Il Film arriva nei cinema nipponici, risultando un prodotto ancor più convincente del primo, al punto da diventare il lungometraggio di Detective Conan col maggior incasso di sempre.

Lupin III VS Detective ConanÈ chiaro fin dal prologo che la collocazione cinematografica ci offrirà un prodotto più ambizioso del precedente, grazie a un’avvincente sequenza d’azione che porta subito i due protagonisti ad affrontarsi, dopo l’entrata a effetto di entrambi.

Lupin vuole mettere le mani su un prezioso gioiello, per salvare Fujiko da un pericoloso individuo che l’ha rapita e la libererà solo dopo aver ottenuto il suo bottino; per impedire al ladro di portare a termine la sua missione, la polizia giapponese collabora con l’ispettore Zenigata, senza riuscire però nell’intento di fermarlo.

Intanto Conan si reca assieme a Kogoro in un hotel dove è ospitato il celebre cantante italiano Emilio Baretti, che ha ricevuto una minaccia di morte nel caso in cui non accetti di annullare la data giapponese della sua tournée. La giovane celebrità non sopporta il peso di questa situazione e fugge dal suo staff, chiedendo a Ran e Sonoko di accompagnarlo in giro per la città.

Rispetto allo special televisivo, Lupin III VS Detective Conan – Il Film ha il grande merito di sfruttare nel modo migliore i personaggi delle due serie: oltre ad essere presente in misura più ampia il cast di Detective Conan, le relazioni e le situazioni che si creano durante il cross-over sono molto più interessanti. Sato si impegna a catturare Lupin nonostante sia stato il suo primo amore di gioventù, Ai e Fujiko si trovano a collaborare fianco a fianco, i Giovani Detective tentano di catturare Goemon…

Durante la visione, chi ha visto lo special TV (ancora inedito in Italia) può apprezzare alcuni rimandi ai fatti narrati in quell’episodio: un esempio sono il fatto stesso che i personaggi si conoscano, o la ripresa dello spassoso rapporto di sopportazione/collaborazione tra Conan e Jigen. Ma sorprendentemente le vicende di Vespania acquistano un’importanza sempre maggiore nella trama, fino a quando non ci si rende conto che questo film non è solo un “secondo incontro” tra Lupin e Conan, ma un vero e proprio sequel.

Considerando questo elemento, appare ancor più bizzarra la scelta di proporre il lungometraggio nelle sale italiane quando lo special TV non è ancora stato editato nella nostra lingua, e se non era all’altezza di una distribuzione cinematografica, si sarebbe potuto almeno organizzare un passaggio televisivo così da consentire agli spettatori italiani di comprendere al meglio Lupin III VS Detective Conan – Il Film

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Il processo

Post n°12507 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

RECENSIONE locandina del film IL PROCESSO


Immagine tratta dal film IL PROCESSO

Immagine tratta dal film IL PROCESSO

Immagine tratta dal film IL PROCESSO

Immagine tratta dal film IL PROCESSO

Immagine tratta dal film IL PROCESSO
 

Quando Orson Welles decide di intraprendere la ambiziosa lavorazione de "Il processo" è già da tempo fuori dal sistema hollywoodiano della produzione, considerato da lui troppo mediocre per sostenere progetti di un notevole peso artistico e culturale; dopo il fallimento commerciale di "Macbeth" nessun produttore americano, infatti, è disposto ad investire un soldo nelle sue opere.

È il 1962 quando il regista di Kenosha inizia a lavorare sulla ardita e improba traduzione cinematografica di uno dei più cruciali e complessi romanzi del novecento: "Il processo" di Franz Kafka. Il film viene girato soprattutto in Francia ed in Iugoslavia, ma alcune sequenze sono ambientate al Palazzo di giustizia di Roma - noto col nome di "Palazzaccio" - che si prestava alla "mise-en-scene" per la sua imponente struttura. Il budget della produzione è esiguo, ma nonostante la scarsità di risorse finanziarie, Welles ha la possibilità di godere di quella necessaria libertà artistica, che invece le restrizioni della RKO - una delle major americane, tra gli anni '30 e '50, nel campo della industria cinematografica - gli impedivano di avere.

Il progetto di Welles è a dir poco insidioso, a causa della grande difficoltà, per non dire impossibilità, di mettere in immagini tutti i valori, simboli, allegorie, sfumature e valenze psicologiche di cui l'opera del celebre scrittore praghese è intrisa. Basti pensare che Kafka era contrario alla raffigurazione, sulla copertina del racconto "La Metamorfosi", dell'insetto, perché riteneva che ogni rappresentazione visiva lo avrebbe inevitabilmente destituito di gran parte dei suoi intrinseci significati. Lo stesso valga per il protagonista Joseph K. (il cui nome costituisce una sorta di progressiva spersonalizzazione dell'autore che, dal Gregor Samsa de "La metamorfosi" fino al semplice K. de "Il castello", rappresenta la sua drammatica perdita d'identità; perdita che avviene in un mondo a cui sente di non appartenere), che nel romanzo non viene mai delineato fisicamente, ma solo al livello interiore per dare respiro unicamente al suo angoscioso mondo psicologico che si riversa su quello esteriore, dando luogo ad una realtà asfittica quale angusto teatro di una vita percepita come gabbia senza uscita.
Diametralmente opposta è invece la meticolosa e particolareggiata descrizione di tutti gli altri personaggi dell'opera, che nei loro connotati deformi e nei loro atteggiamenti caricaturali e parossistici rivelano un'umanità inaridita e abbruttita da una società che ha soffocato la libertà del soggetto per stiparlo in un ruolo sociale predefinito, a cui è impossibile sfuggire. Ma la gigantesca complessità del romanzo di Kafka non fa desistere Welles dal suo coraggioso proposito, e così, dopo un duro periodo di gestazione, vede la luce nell'agosto del 1962 "Le procès".

La sceneggiatura ricalca pressocché fedelmente l'impianto testuale dell'opera originale (ad eccezione del prologo e dell'epilogo).
Joseph K. è un comune cittadino, che ha un normale e rispettabile impiego e che conduce una vita tranquilla, fino a quando una mattina non irrompono nella sua camera dei loschi individui, i quali gli comunicano, senza dare alcuna spiegazione, che è in stato di arresto.
Di qui inizia l'odissea di Joseph K., durante la quale egli avrà modo di confrontarsi con svariati personaggi: i due emissari del tribunale che inizialmente lo dichiarano in arresto, gli ufficiali che hanno il compito di sorvegliarlo, la sua affittacamere, la coinquilina, lo zio, la cugina, il giudice istruttore, l'avvocato Huld e la sua assistente Leni, il commerciante Block cliente dell'avvocato, la moglie dell'usciere del tribunale, il pittore Titorelli, un sacerdote e infine i due sicari che, al termine della paradossale vicenda, lo giustizieranno. Ma nessuno di essi è capace di spiegargli le ragioni dell'accusa che pende su di lui, ma soprattutto quale sia quest'accusa che ha messo in moto l'imperscrutabile e infernale macchina della Giustizia e della Burocrazia, la quale lo porterà inesorabilmente e inesplicabilmente alla sua condanna a morte.

Il film si apre e si chiude circolarmente - prima della definitiva esecuzione - con la parabola negativa del contadino e del guardiano, illustrata superbamente dai disegni chiaro-scuri di Alexander Alexeieff con la tecnica, da lui inventata, della c.d. "Pinscreen animation" (consistente nell'inserimento su una lastra di migliaia di chiodini, illuminati di sbieco di modo da creare sulla superficie stessa della lastra un suggestivo effetto ombra). Ma come parabola negativa si configura tutta la vicenda kafkiana, e Welles è abile a imprimere questa valenza alla sua messinscena. Così, emerge chiaramente, al termine della pellicola, che il paradosso vissuto da Joseph K. non è altro che un ribaltamento del "racconto" di formazione: il percorso che egli è costretto a intraprendere, infatti, determinerà in lui il lento venire meno di tutte le certezze e di tutti i punti di riferimento della sua vita borghese; ed alla fine di esso non giungerà a ritrovare se stesso, come per fare l'esempio più eclatante succederà per Dante nella Divina Commedia, ma al contrario si scoprirà spaesato e privo di identità in una realtà a lui completamente estranea.

Welles, per quanto gli era umanamente consentito con i mezzi di cui disponeva e con le possibilità che la articolatissima polisemia del romanzo gli offriva, cercò nel miglior modo possibile di rendere giustizia, sotto il profilo figurativo, alla complessità di quest'ultimo. In tal senso, numerose sono le sequenze significative, in cui risalta una a dir poco spiccata forma espressionistica. Ad esempio, all'inizio della narrazione il protagonista si trova nella sua stanza, scenograficamente resa come una sorta di angusta cella con il soffitto basso, e le porte e la finestra ad altezza d'uomo, elementi che contribuiscono a generare il senso di asfissia di cui tutta la pellicola è pervasa; l'architettura degli edifici residenziali e degli uffici lavoro sono caratterizzati come luoghi dimessi, privi di gusto estetico, in quanto destinati ad un'umanità consacrata ad una vita senza bellezza e senza grazia; l'abitazione dell'avvocato Huld, barocca e buia, è lo specchio della Legge, allo stesso tempo arzigogolata e impenetrabile; il desco del giudice istruttore così come l'esterno del Tribunale sono invece rappresentati nella loro grandezza sproporzionata, che suggerisce l'imponenza di un sistema al cospetto del quale l'uomo non può che sentirsi un impotente ed un miserabile.

Welles fa un ottimo lavoro, anche sotto il profilo della caratterizzazione dei personaggi, riuscendo nell'impresa di dare forma ad un'umanità costituita da individui legati, come fossero marionette, ad un Forza occulta, invisibile ma costantemente incombente; in ciò emerge l'alienazione dell'uomo costretto ad agire senza conoscere l'intima ragione delle sue azioni, che all'occhio dello spettatore appaiono in tutta la loro insensatezza. Gli ispettori, il giudice istruttore, l'avvocato, il pittore Titorelli sono tutti personaggi vuoti, privi di interiorità, passivamente conformati ad una volontà superiore che deve essere accettata senza porsi domande. Anche le donne, nonostante siano animate da una interna passione, sono in realtà meri oggetti manipolati da chi tiene le fila del sistema. E quali immagini di questa aberrante alienazione sono più emblematiche, se non quella che ritrae un'umanità ormai priva di dignità e speranza, fiaccata dalla estenuante attesa del giudizio (nella quale il regista sembra riproporre lo scenario agghiacciante dei campi di concentramento); e quella della catena di montaggio del lavoro, in cui tutti sono meccanicamente assorti nella loro occupazione come fossero degli automi senza vita. Di fronte a questo stato delle cose, Joseph K. non può che arrendersi e rassegnarsi, e quando raggiungerà la consapevolezza della impossibilità di razionalizzare una realtà "labirintica", inintelleggibile e senza senso, si troverà spogliato e disorientato in mezzo alla brughiera, come fosse uno straniero in terra straniera, pronto per l'esecuzione finale (in Welles Joseph K. non viene sgozzato, ma è ucciso con della dinamite), che assurge simbolicamente a sconfitta della ragione.

Dal punto di vista narrativo, i risultati non sono paragonabili a quelli del referente letterario, che costituisce - insieme a "Il castello" - l'esempio più fulgido della capacità di Kafka di creare atmosfere insopportabilmente angoscianti; tuttavia, in alcuni momenti Welles ha il merito di avvicinarsi, quanto meno, all'originale.
A tale proposito, vanno sottolineate le sequenze immediatamente antecedenti e susseguenti all'incontro di Joseph K. con Titorelli, nelle quali il montaggio "frenetico", i luoghi stretti, lo sciamare ossessivo delle ragazzine e gli sguardi penetranti delle stesse determinano un effetto notevolmente perturbante; ma soprattutto quella in cui il ripostiglio del luogo di lavoro di Joseph K. diventa un terribile luogo di tortura, dove vengono seviziate le guardie che avevano l'incarico di sorvegliarlo, rappresentando così la trasfigurazione della realtà in incubo, secondo la percezione angosciata e allucinata del protagonista.

In defintiva "Le procès" è un film molto, forse troppo, ambizioso, perché in esso Welles si propone di tradurre visivamente l'intraducibile mondo kafkiano (qualcuno ha detto che chi decide di mettere in scena Kafka perde in partenza), dove ogni personaggio, ogni ambiente e ogni riflessione si carica di molteplici livelli interpretativi e contenutistici. Ne consegue che i cultori puristi dello scrittore di Praga potranno storcere il naso di fronte alle velleità artistiche di Welles. Ma di là da tutte le considerazioni sul merito, non possono certamente lasciare indifferenti la eccezionale perizia tecnica e la straordinaria capacità visionaria del regista americano, che nell'opera in questione rifulgono come non mai.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Mosca a newyork

Post n°12506 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Locandina

Mosca a New York (1984): Locandina

 

 

Uno dei primi film di Robin Williams è MOSCA A NEW YORK (Moscow on the Hudson,1984) con la regia di Paul Mazursky, che lo ha sceneggiato insieme a Leon Capetanos. Si tratta di una commedia agrodolce, venata di incertezze e nostalgie del protagonista, ma attuale per il tema dell’immigrazione ed i problemi che comporta. Vladimir ( R.Williams scuro e barbuto) è un giovane sassofonista russo che lavora in un circo e vive a Mosca lottando tutti i giorni con i disagi inerenti alla città, come fare file interminabili per comprare qualunque cosa, dalle scarpe, nemmeno del suo numero, alla carta igienica, considerata preziosa, all’abitare in una sola stanza isieme a madre,padre,nonno e sorella. Sul tutto incombe la minaccia di essere presi d’occhio dal K.G.B.Quando il Circo in cui lavora parte per una tournè con spettacoli a New York, la tentazione di chiedere asilo politico è forte e dopo alcune difficoltà, tentennamenti e peripezie gli riuscirà di rimanere nella sognata città. Ma iniziano i problemi dell’immigrato, senza lavoro fisso e adeguato, ospite nella casa, altrettanto angusta della sua in Russia, di un ragazzo di colore, che con un'altra persona gli daranno sostegno in una fase di sconforto e nostalgia.Il fondo lo raggiunge quando viene rapinato e una ragazza messicana, con la quale aveva intrapreso una storia, non vuole più sposarlo. La mancanza del suo lavoro fa il resto e lo fa giungere a chiedersi qualè il valore della libertà in un paese che promette felicità e protezione e poi ti trovi più a disagio che mai. Con la solidarietà dei nuovi amici e il ritrovarsi a fare il musicista sarà il primo passo verso altri eventi immaginabili.

 

La carica umana comica e dolente a tratti di Williams sono il sostegno di un film,che nel delineare le figure, e nell’approfondire problemi di vita molto gravi ,risulta dispersivo, poiché Mazursky punta più sulle gag di molteplici situazioni e la (tragi)comicità della storia. Interessante la prima parte ,parlata integralmente in  russo. Come omaggio a Robin Williams è stato valido,perché l’opera non è molto conosciuta e già è presente  e dominante il complesso talento dell’artista scomparso da poco.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Good Morning Vietnam da obbliquio

Post n°12505 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

di LUCIA PUGLIESE

PUBBLICATO IL 16 AGOSTO 2014

La recente scomparsa di Robin Williams ha toccato il cuore di molti. Non potrebbe essere diversamente per un attore che, tra la fine degli anni 80 e gli esordi del nuovo millennio,  ha accompagnato il percorso di crescita di molte generazioni. Quando eravamo bambini, Robin Williams era un Peter Pan  diventato grande troppo presto: poi siamo cresciuti un poco e si è trasformato in Keating, il nostro Capitano. Infine, quando siamo diventati adulti, Williams ci ha raccontato anche la follia e la morte: quasi ci siamo spaventati quando il suo volto benevolo è diventato quello di uno psicopatico in One Hour Photo. Su Discorsivo vogliamo però ricordarlo così: 

Locandina " Good Morning Vietnam"Good Morning, Vietnam

di Barry Levinson, con Robin Williams, Forest Whitaker, Noble Willingham, Tung Than Tran.

A metà degli anni 60 Adrian Cronauer è un aviere dell’esercito americano ed un istrionico disc-jockey.  Mentre infuria la guerra in Vietnam, Cronauer viene inviato a Saigon per occuparsi della radio delle forze armate statunitensi di stanza nel paese: le sue trasmissioni, anticonformiste ed irriverenti, gli faranno guadagnare la stima e l’affetto dei soldati ma anche le antipatie dei suoi superiori…

Nel 1979 il vero Adrian Cronauer, oggi giurista ed esperto di comunicazione, aveva proposto alla televisione americana una sit com sulla sua esperienza come dj per l’esercito USA in Vietnam,  ma si era visto rifiutare il soggetto con la motivazione che la guerra non poteva essere materia di commedia. L’intera storia del cinema e del teatro dimostrava il contrario e Cronauer non era uomo da arrendersi: il progetto di una serie televisiva si trasforma allora  in quello per un film eGood Morning, Vietnam esce nelle sale americane nel 1987, confermando (ancora una volta) che si può essere serissimi facendo ridere. 

Il regista è quel Barry Levinson che vincerà l’oscar nel 1989 per Rain Man, la sceneggiatura  è di Mitch Markovitz: Good Morning, Vietnam è divertente ed emozionante, anche se non sempre riesce a sviluppare gli spunti che crea e rimane in superficie dove ci sarebbe spazio per approfondire.Il tono è leggero, il tema  no: si ride di una risata piena e a tratti sguaiata, perchè a ben vedere, nè il soldato nè il civile sanno se il giorno successivo potranno dare il “buongiorno” al Vietnam. Il contrasto fra la tragedia e la commedia è il motore dell’azione:  così What a Wonderful World può risuonare, amara, mentre sullo schermo scorrono immagini di guerra.

Robin Williams mostra tutto il suo talento: l’attore americano era approdato al cinema da pochi anni, dopo l’esperienza televisiva di Mork e MindyGood Morning, Vietnam gli varrà già il Golden Globe e la nomination all’Oscar. Lasciato libero di improvvisare in molte scene, Williams si comporta da vero istrione: il suoAdrian Cronauer è scatenato e pungente,scorretto ed esilarante,  in grado di strappare una risata al soldato americano, al vietnamita e ovviamente allo spettatore.

Da vedere assolutamente.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Roma criminale

Post n°12504 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

 
Locandina Roma Criminale

La giovane testa calda della polizia Lanzi è il figlio di uno stimato poliziotto ucciso in un'azione anni prima, il ricordo pare non abbandonarlo mai, specie ora che l'uomo che l'ha ucciso è uscito di prigione e ha in mente un nuovo colpo. Dall'altra parte il "toretta", questo il suo nome, non si trova bene nel mondo criminale di oggi, legato com'è ad un codice etico e a valori da criminalità vecchio stampo, e anche il piano che sta mettendo a punto per conto del Colombia sembra non convincerlo fino in fondo.
Diviso equamente tra gesta dei criminali e quelle della polizia, a metà tra il senso della sfida dato dal montaggio alternato (come in Heat il criminale e il poliziotto sono molto legati, sia dal retaggio che dalla memoria di un tempo che non c'è più) e un senso dell'onore nel mondo del crimine che pare uscire dal polar francese per quanto conta più delle rapine, dei bottini e della giustizia, Roma criminale è un poliziesco di moderna concezione che rievoca di continuo un'altra epoca (ma più a parole che nei fatti).
Si intuisce bene che l'altra epoca a cui spesso fanno riferimento i personaggi, quella in cui i poliziotti erano di un'altra pasta, non è un momento della storia italiana quanto uno della storia del cinema italiano, quello per l'appunto in cui esisteva una fiorente produzione poliziesca e d'azione.
Non a caso gran parte del team creativo e realizzativo di Roma criminale viene dal mondo degli stunt e in alcuni casi si tratta di professionisti che hanno lavorato nei poliziotteschi d'epoca. E si vede. Il film di Gianluca Petrazzi contiene molta azione, inseguimenti e risse senza risparmiare in effetti clamorosi, oggetti che si spaccano, macchine che si scontrano e tutto il repertorio del caso che non vediamo quasi mai nei film italiani di oggi. Com'è lecito aspettarsi le scene sono pensate e realizzate in grande e con il corretto grado di conoscenza di come vadano fatte, tuttavia la messa in scena, il montaggio e la regia sembrano non rendergli mai giustizia. Esiste sempre l'impressione che fossero meglio di come le vediamo. Spesso infatti manca il momento dell'impatto, altre volte vediamo solo l'ultimo tratto di una corsa spettacolare, in altre ancora manca il quadro d'insieme o la percezione della velocità. È insomma confuso e difficile da capire Roma criminale e non solo nelle sequenze d'azione.
La storia in primis, benchè lineare e prevedibile, cioè battuta sui percorsi usuali del genere, non scorre bene, è raccontata con più d'una battuta d'arresto e di un momento poco chiaro, i personaggi non aiutano nè la messa in scena appare di livello come del resto la recitazione di quasi tutti i membri del cast. L'operazione Roma criminaleinfatti si basa su un budget esiguo ma non pare riuscire a farne un uso creativo a sufficienza per raggiungere la decenza, anche solo dal punto di vista dell'intrattenimento o della voglia di divertire.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Synecdoche

Post n°12503 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Synecdoche, New York

Caden Cotard, regista teatrale, sta per montare un nuovo spettacolo ma si sente frustrato. La moglie Adele lo lascia per proseguire la carriera di pittrice a Berlino portando con sé la figlioletta Olive. Madeleine, la sua analista, è più attenta alle sorti del suo nuovo libro che a quelle del suo paziente. La sua relazione con la bella Hazel è durata poco. Per di più è afflitto da una misteriosa malattia. Ossessionato dal timore di una morte imminente decide di riunire un gruppo di attori che dovranno mettere in scena la sua vita in un enorme spazio al coperto che riproduce i luoghi da lui frequentati. La scenografia si espande insieme alla sempre maggiore complessità della vita di Caden la cui figlia è caduta sotto l'influsso di Maria (amante della madre) mentre il padre non riesce a dimenticare Adele.
Charlie Kaufman, dopo una carriera ricca di riconoscimenti quale sceneggiatore (suoi sono, a puro titolo di esempio, gli script di Essere John MalkovichConfessioni di una mente pericolosaSe mi lasci ti cancello) giunge finalmente alla regia e si scopre libero di sprigionare tutta la sua creatività. A partire proprio da una figura retorica che, dichiarata nel titolo, gli permette un numero pressoché infinito di acrobazie narrative. Ne nasce un film estremamente complesso ma proprio per questo altrettanto personale e coerente.
Nella vita di Caden si riassumono le ossessioni quasi pirandelliane dell'autore il quale vorrebbe poter controllare e dirigere la propria vita così come fa con i personaggi e con gli attori chiamati a dare loro volto, voce e sentimenti. Quando poi, come in questo caso, gli attori si trovano a riprodurre la vita, sempre più ossessivamente intricata, di chi li dirige, le distanze finiscono con l'annullarsi in un gioco di raddoppiamenti che si fa sempre più intellettualmente stimolante quanto più si complica. Fino a quando la morte comincerà a far sentire realmente la propria presenza prendendo in mano la 'regia'.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Un fidanzato per mia moglie

Post n°12502 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Un fidanzato per mia moglie

La conduttrice radiofonica di una piccola emittente cagliaritana lascia la sua amata Sardegna per convolare a nozze in quel di Milano, eleggendo la capitale della moda, della finanza e degli aperitivi a nuova sede per una nuova vita. Fuori dal suo contesto, senza un vero impegno professionale, ridotta ai lavori domestici, la ex speaker va in crisi e riversa sul giovane marito, rivenditore di auto d'epoca, tutte le sue frustrazioni. Dopo qualche mese il bonario maritino non la regge più ed escogita, con la complicità del suo datore di lavoro, un "movente" per separarsi: ingaggia l'ex playboy, detto il Falco, affinché questi la seduca e la conduca per mano verso il tradimento. Ma tutto questo è il passato, raccontato al presente durante una seduta che i coniugi tengono innanzi a una psicologa matrimoniale cercando di recuperare la ragioni del loro stare insieme.
Se in Italia ci fosse una vera industria cinematografica potremmo dire che Un fidanzato per mia moglie è un film industriale. Non essendoci una vera industria cinematografica ci troviamo a dire che Un fidanzato per mia moglie vorrebbe essere un film da industria cinematografica, trovandosi ad essere un prodotto anodino e senza carattere, frutto di pensieri e azioni immaginate e agite a tavolino. Il tavolino è quello del produttore Caschetto che andando a cercare, come fanno in tanti, i successi che hanno caratterizzato le stagioni cinematografiche internazionali, nella speranza di replicarlo sul territorio italiano, s'è imbattuto nella commedia argentina campione d'incassi Un novio para mi mujer del 2008. Così, com'è leggittimo che facciano i produttori, ha pensato a un regista giovane e dotato, Davide Marengo, al quale gli ha chiesto di fare un remake del film argentino che avesse necessariamente come attori Geppi Cucciari, la nota e brava comica televisiva, Paolo e Luca, la coppia altrettanto televisiva di comici, avvalendosi in fase sceneggiature di Francesco Piccolo, scrittore, sceneggiatore e autore televisivo di successo. Insomma un produttore che prevede tutto, regia, sceneggiatura, cast e tipo di film . Roba da industria cinematografica, appunto, ad averne una! Il rischio quando si impacchettano queste operazioni a tavolino è che il film non assomigli a niente se non al remake di un successo straniero che forse aveva ragioni locali e culturali per essere stato un successo, poi svanite passando di mano in mano.
Il cinema italiano, che piaccia o meno, anche quando si tratta di commedie sofisticate o romantiche, ha ancora bisogno di un carattere di tipicità nazionale. Non parliamo di rivestire con qualche tratto locale (Milano-Cagliari), una sceneggiatura presunta internazionale, ma parliamo del movente che porta una storia ad essere raccontata al cinema in Italia. Il caso di Benvenuti al Nord, remake di un film francese, è l'eccezione che conferma la regola: la sua fortuna è data proprio dall'essere riusciti a impregnare un semplice escamotage di forti impressioni italiche. Allo stesso tempo potremmo annoverare altri casi di remake anonimi e senza carattere, o di film italiani di genere che hanno cercato uno "stile europeo" e "internazionale". Insomma, non ci mancano le idee e soprattutto non ci manca l'ispirazione per costruire storie e commedie che raccontino il nostro mondo ed è per questo motivo che, al di là del talento, uno come Checco Zalone riesce a sbancare il botteghino: parla di noi, prendendoci in giro per quel che ci piace e non ci piace essere, per quel che siamo diventati nonostante l'anima bella del Bel Paese che fu.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

I giorni contati

Post n°12501 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Locandina I giorni contati

Cesare, stagnino romano di cinquantatré anni, assiste alla morte di un coetaneo in tram. Da quel momento crede di avere i giorni contati, quindi, lascia il lavoro, cercando di recuperare il tempo perduto come meglio può. Più aperto nei confronti delle persone, si mescola alla gente in spiaggia, frequenta gli amici, cerca di riavvicinare una vecchia fiamma, torna a visitare il paese di origine. Dopo essere stato quasi coinvolto nella simulazione di un incidente tranviario, torna a fare il suo vecchio mestiere.
Il cuore del secondo film di Elio Petri è il puntuale racconto di uno scacco esistenziale, un'indagine sulla vecchiaia e sul dubbio, atroce, di aver tralasciato il meglio della vita. Condotto con una mano registica attenta al particolare, I giorni contati non mostra gracilità narrative anche a fronte di un tema esplorato più volte dal cinema d'autore europeo. Forza della sceneggiatura (del regista, Carlo Romano e Tonino Guerra) è, in gran parte, la creazione di un protagonista oltremodo credibile e vicino alla realtà, uomo gentile e disperato in modo sommesso: a fare un bilancio di vita, qui, non è un intellettuale o un artista, come accade di solito, ma un semplice idraulico, a ulteriore conferma di quanto l'esistenza sia dolorosa per chiunque.
Da un punto di vista stilistico, Petri sa mettere a frutto il bagaglio di una messa in scena di stampo naturalistico con una modalità di racconto nuova, di rottura, memore delle esperienze della Nouvelle Vague per quanto riguarda i tagli di ripresa e alcune scelte di montaggio. Se il suo cinema, d'ora in poi assumerà caratteristiche sempre più barocche, mescolando una certa visionarietà all'impegno politico, questo lavoro rappresenta un ottimo equilibrio tra una lettura della contemporaneità di vocazione neorealistica e certo cinema dello scavo interiore. Pensare a Ingmar Bergman, per una riflessione sullo scorrere del tempo come questa, risulta quasi automatico, così come trovare alcuni rimandi all'opera di Michelangelo Antonioni, al quale il cineasta guardava già per il precedente L'assassino. Nonostante sia tutto costruito intorno a Cesare, addosso al suo dialogo interiore/espresso, il film è l'evidente denuncia di un sistema capitalistico alienante in cui l'uomo è destinato a perdersi, un discorso preciso che dal particolare di un solo uomo ambisce a comprendere tutti. 
Tra gli attori prediletti del regista, Salvo Randone ha l'occasione di mettere in mostra le sue straordinarie capacità recitative in uno dei pochi ruoli da protagonista della sua carriera. In parti minori si distinguono Vittorio Caprioli e Paolo Ferrari. Vinse il 1° Premio al Festival di Mar del Plata.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

I pugni in tasca da ondacinema

Post n°12500 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

I pugni in tasca

di Marco Bellocchio

drammatico, Italia (1965)

 di Matteo De Simei

Nel 1965 Marco Bellocchio ha ventisei anni. Nella testa del giovane i pensieri e le idee si dimenano, si attorcigliano in un magma incandescente che manifestano e avvalorano i disagi di un apprendista ribelle a contatto con le prime significative conseguenze del secondo dopoguerra in Italia. L'esplosione del comunismo, l'affermazione del movimento democristiano e il ruolo della chiesa, la società pronta alla contestazione contro i poteri e contro i soffocamenti dei liberi pensieri. In questa prima metà degli anni sessanta sono i tormenti della fede e le sicurezze del focolare domestico a scuoterlo dai torpori e spingerlo all'esordio alla regia con "I pugni in tasca", intenso, bizzarro, crudele affresco di una sciagurata famiglia piacentina.

Una villa sperduta tra i fantasmi della Val Trebbia, cinque miserabili vite che la abitano. Augusto, Leone, Giulia e Sandro sono creature infelici nate dal grembo di una madre cieca e amorevolmente insensibile, soggiogata da una nutrita e al tempo stesso velata componente nichilista. Il requiem in dies irae composto da Ennio Morricone per i titoli di testa, sullo sfondo di un'oscurità lancinante, così come la successiva scenata di gelosia che Giulia trama ai danni del fratello Augusto sono le prime di una serie di esperienze e sensazioni che introiettano negli occhi di chi guarda una forte aurea di morte e di malsana affettività. In un incipit del genere richiamo e repulsione, amore e odio, desiderio e tormento si fondonono reciprocamente creando un'atmosfera grottesca e patologicamente instabile, nella quale i quattro fratelli si ritrovano uniti e al tempo stesso abbandonati dal destino di un'esistenza che non concede pace e felicità se non al di fuori della "normalità" del mondo esterno, se non al di là di quei monti così freddi e spogli da cui Augusto vorrebbe tanto scappare.


Che croce vivere in questa casa! - Conflitto e isolamento tra le mura di una "casa occupata"

Nel 1963 l'antropologo Gilbert Durand scriveva che non si può fare una storia dell'inconscio disgiunta da una storia della casa. La casa è un microcosmo in cui si materializza la rappresentazione mentale dell'immagine del corpo umano1, quindi il rapporto che l'individuo ha con l'immagine del suo "dentro". Il topos della casa diventa così tappa imprescindibile per analizzare il dramma esistenziale vissuto dai protagonisti. Abulia, impotenza e autodistruzione sono le componenti principali dei tre fratelli più piccoli, assuefatti e "imprigionati" dalle loro radici quasi come se fossero vittime di qualche misterioso incantesimo (viene alla mente l'assurda prigionia bunueliana in "L'angelo sterminatore" o rimanendo in patria la metafora della villa spoglia e sperduta nel capolavoro di Ferreri "La grande abbuffata"). Solo Augusto, cuore borghese aperto alla rivitalizzazione di una nuova società alle porte, possiede la veemenza di aspirare a una vita indipendente e ambiziosa che lo porta ad avvicinarsi alla città. La villa rappresenta il nocciolo da cui si dispiegano avvenimenti periferici come le corse automobilistiche alla Risi, le passeggiate ai bordi del fiume Trebbia, le visite al cimitero e gli incontri con le prostitute del paese. Per poi ritornare centripetamente al nocciolo, alla villa, minimo comun denominatore di ogni sequenza bellocchiana, un universo labirintico di stanze e corridoi che rimanda alla claustrofobica letteratura borgesiana o alla gotica casa degli Usher di poeniana memoria.

E invero, sembra proprio una casa dei fantasmi quella ripresa dal regista bobbiese, occupata e avvolta da misteriose entità che ne evidenziano il carattere funereo (il tragitto casa-cimitero, il triste epilogo di Leone nella vasca da bagno, la camera ardente allestita per la madre) e una psicologia del profondo che rimanda a un'analogia isomorfica casa/psiche, a un'immagine archetipica nella quale la graduale spersonalizzazione e perdita d'identità dei protagonisti è inversamente proporzionale a un'umanizzazione della casa che si ricollega all'inconscio collettivo. E' come se la villa piacentina fosse il soggetto di uno dei racconti di Cortazar, di quella "Casa occupata" che sapientemente sviscera i limiti del razionale e dell' irrazionale, della proibizione e della trasgressione. La casa (dal greco "Kas", "pelle") diviene allora il doppione materiale e mentale del corpo: dalle finestre, occhi dai quali Sandro si affaccia sull'esterno, agli organi vitali delle camere, del soggiorno, dei lunghissimi corridoi simili alle viscere umane, fino all'antropomorfismo dell'interno del camino che diviene una sorta di sacco amniotico per i giovani e inermi protagonisti. La casa intera è protagonista, essere vivente e insieme prolungamento di chi la abita.


Studi sull'oblio - Memorie di una nuova generazione, introspezioni e tracce di Antonioni

"Il '68 che voglio ricordare è quello della prima stagione. Dell' immaginazione al potere, della contestazione antiautoritaria non violenta, [...] della resistenza passiva, della liberazione sessuale, dell'emanciparsi dalle famiglie. Del reagire all'ingiustizia pacificamente. Dopo è arrivato il potere sulle canne dei fucili, la giustificazione della violenza. Fu progresso e apertura, poi soffocati dal delirio ideologico e militaresco. Purtroppo il vento libertario, in particolare contro il conservatorismo cattolico, si esaurì presto"2

In un periodo, quello del '65, nel quale società e politica cominciavano lentamente a scricchiolare per poi collassare velocemente su se stesse nei fatti risaputi del post '68, i costumi, le culture e persino le istituzioni si avviavano verso una rivoluzione radicale degli schemi del vissuto quotidiano. L'allegoria crudele di Bellocchio smosse critica e pubblico proprio perchè il regista scelse profeticamente in questo approssimarsi del caos, forse l'elemento più destabilizzante, quello più difficile da accettare, ovvero la corruzione dei rapporti familiari, la metamorfosi degenerativa delle relazioni all'interno delle mura domestiche. Sandro, con le sue difficoltà e il suo spirito ribelle, è il simbolo di una rabbia collettiva costretta a stringere i pugni nelle proprie tasche, soffocata così com'è da un contesto vincolante e destabilizzante come il rapporto amore/odio che il protagonista nutre nei confronti dei suoi cari. Per la prima volta l'autorità del padre e della madre è sovvertita, la trasgressione non è più un tabù e la borghesia materialista insidia il concetto di "normalità". Una nuova generazione è alle porte. Ed è tremendamente sofferente.

Così, dopo aver completato gli studi con una disquisizione sul cinema di Antonioni e Bresson, il coraggioso esordio di Bellocchio ricade proprio su una disamina cinica e anticonformistica del disagio personale che va proliferandosi in quegli anni. Elaborando proprio un'introspezione antonioniana dei personaggi, il regista di Bobbio palesa dinanzi agli occhi di chi guarda un ginepraio di pensieri/emozioni attraverso piccoli gesti nevrotici e ripetitivi, comportamenti al limite del patologico, sguardi oberati di male di vivere, dialoghi scarni e insani. Una figura come quella di Sandro riflette tutta la solitudine, tutta l'inettitudine sveviana, tutta la prigionia dell'uomo contemporaneo. Incapace di relazionarsi col mondo esterno (vd. la sua goffaggine nella sequenza della festa in ballo), le problematiche del ragazzo si ripercuotono metaforicamente su un livello tutto giocato da scatti improvvisi, urla nere, danze rituali, gesti infantili che ne enfatizzano allo stremo la "malattia" sociale. Per contro, Augusto vive con apparente serenità e concretezza, accettando la sfida imposta dalla nuova società di risultare a tutti i costi "normale". Per tale motivo risulta il personaggio più triste e ipocrita tra quelli inquadrati dalla macchina da presa. Come Moraldo ne "I vitelloni" di Fellini, Augusto sarà l'unico a riuscire ad andarsene dalla provicia natia. Ma a differnza del gesto coraggioso ed eroico compiuto dal personaggio felliniano, quello bellocchiano è invece avviluppato dai fantasmi di una coscienza imbrattata di sangue (senza ammetterlo, anche Augusto desidererebbe la folle idea di liberazione architettata dal fratello epilettico). Bellocchio arricchisce la complessa profondità psicologica dei personaggi presentando la figura di Giulia, ragazza sprovveduta e deviata, sessualmente attratta da Augusto e al contempo desiderata da Sandro. Se per Augusto la liberazione dalla madre collima col superamento di un ostacolo e di una vergogna socialmente riconosciute, per la sorella è motivo di un riscatto sessuale (la sequenza del falò) come comprovato dalle piccole curiosità perverse (l'interesse per la prostituta condivisa dai fratelli, gli inequivocabili gesti di natura incestuosa), e dalle condotte narcisistiche e vanitose. Tralasciando le parentesi non meno influenti di Leone e della madre, un ruolo fondamentale all'interno della pellicola è ricoperto paradossalmente da un'assenza: quella della figura paterna che destabilizza in modo compromettente le sorti del nucleo domestico. Amore negato e abbandono alimentano il livore verso una figura che Bellocchio ha più volte scandagliato anche nei suoi successivi lungometraggi ("L'ora di religione", "Vincere").


Altro Cinema - Svelamenti e patologie del post-Neorealismo

"Allora fare un film non era alla portata quasi di tutti come oggi, il cinema era ancora un'arte aristocratica, la Rai non si sognava di anticipare nulla. Il mio film, che era vietatissimo, andò in onda solo anni dopo, quando il comune senso del pudore balzò in avanti"3

Diversi anni dopo essere stato rigettato dai selezionatori della Mostra di Venezia, il film di Bellocchio assunse definitivamenti i caratteri di "film manifesto", un punto di rottura nella storia del cinema italiano pari a quello che Luchino Visconti portò a compimento con la realizzazione di "Ossessione" in cui comparivano i primi straschici del Neorealismo. Le lezioni di Rossellini e dello stesso Visconti alle porte del disagio sociale e classista del secondo dopoguerra, passando per il "vuoto" delle vite inquadrate dalla cinepresa di Antonioni, prepararono l'humus per una nuova svolta della cultura e del costume collettivo che il giovane Bellocchio raccolse prontamente al pari di un altro cineasta italiano, Marco Ferreri, presentando così allo spettatore un retrogusto cinico e grottescamente tragico che rimanda all'avanguardismo francese di quegli anni, in particolar modo all' "À bout de souffle" godardiano. A farla da padrone ora sono le patologiche perversioni di una società contemporanea in stato confusionale, dove pazzia e angoscia sono delle insite componenti della natura umana e dove la malattia dimora nella "normalità" dell'esistenza. Una prospettiva quella del post-Neorealismo, che può si apparire alienante e brutale ma che al tempo stesso si rivela rivoluzionaria ed epifanica, estremamente abile nello scardinare le latenze del sentimento umano e raggiungere le verità più profonde e irrazionali.

La ricerca patologica dei personaggi, "il rifiuto di riconoscersi in un modello di vita, l'attacco al potere, la manifestazione pura del desiderio di vivere"4 rimandano altresì a uno scambio epistolare che il Nostro ha intrattenuto con Pasolini. Quest'ultimo sottolinea come sia poco producente cercare di generare uno scandalo all'interno del mondo borghese perché la borghesia è immune a qualsiasi forma di valore civile. Bellocchio gli risponde dicendo che "[...] anche se malato, Ale è responsabile delle proprie azioni e dei propri vizi, i suoi obiettivi criminali sono già bersagli innocui, scontati, inerti [l'handicappato, la cieca, NdR], prima che arrivi lui a spingerli con la forza di un dito in una fossa che già da molto prima doveva ospitarli"5. Nessuno scandalo quindi nelle idee del regista bobbiese, solo la pura e semplice rappresentazione di una realtà sociale che genera nel protagonista una soluzione così estrema e disumana.


L'Arte in tasca - Il Cinema votato all'estetismo

Costellato di riferimenti letterari, citazioni poetiche e opere liriche, "I pugni in tasca" assurge a opera intimamente artistica, votata a un "estetismo" totale, in ogni sua accezione. Dal lirismo del bianco e nero che accentua l'effetto claustrofobico e di perenne immobilità, al superbo montaggio di Silvano Agosti, sino ai contributi sonori del Maestro Ennio Morricone, la pellicola pone ampio accento alla catarsi artistica a cominciare dal titolo, estratto dall'incipit della poesia "Ma Bohème" di Arthur Rimbaud. La subliminalità dell'arte cinematografica si fonde con la letteratura di Calvino (Sandro fa il suo ingresso in scena saltando da un albero, creando più di una semplice assonanza con le peripezie vissute dal Cosimo de "Il barone rampante" ), con le citazioni della Roma imperiale (l'inno a Roma di Orazio Flacco Quinto recitato da Sandro sul balcone di casa), con echi alle Ricordanze leopardiane ("[...] che l'età verde sarei dannato a consumare in questo natio borgo selvaggio" esclama un superbo Lou Castel sul cornicione del campanile mentre osserva dall'alto le sue radici con la campana che nel mentre scandisce lo scorrere del tempo) e raggiunge il suo climax con la Traviata verdiana che udiamo nella sequenza conclusiva. Assistere all'opera prima di Bellocchio è in definitiva anche uno spettacolo unico per la magniloquenza della sua arte audiovisiva, è un po' come contemplare a bocca aperta un dipinto di William Turner, un po' come rimanere storditi dopo essere stati colti dalla Sindrome di Stendhal per la componente psico-emozionale che l'opera artistica trasmette.


Santificazione di un eretico - Elogio della diversità e decomposizione dell'impegno morale

"Lo scopo sovversivo non era così dichiarato, anzi restò nascosto e venne fuori dall'inconscio dopo la lavorazione. Ma nessuno legò a filo diretto il film alla mia famiglia. Mia madre, con un classico preocesso di rimozione, continuò a consigliarmi di frequentare la chiesa e basta..."6

Solo cinque anni prima, nel 1960, "La dolce vita" di Fellini rivelava il suo mostro putrefatto a bordo riva, profezia crudele dei sogni di miglioramento economico (e non solo) della nazione. Bellocchio attraverso la messa in opera di una tragedia simil-greca (con toni meno onirici ma con la stessa classe ed eleganza del genio riminese) preannunciava l'ondata rivoluzionaria alle porte palesando il suo personalissimo mostro: l'ambiente cattolico. Da sempre fervente ateo, il regista riconosce nel puritanesimo provinciale l'ennesima forma di esposizione all'ipocrisia e allo squilibrio di Sandro e della società a venire. La macchina da presa si sofferma allora sui piedi del protagonista appoggiati sulla bara della madre, profanandone la sacra valenza del momento, evidenzia con tono blasfemo il segno della croce di Sandro dopo essere andato a puttane, e addirittura lo stesso Bellocchio viene inquadrato di spalle, nelle vesti del sacerdote, mentre farfuglia il funerale della (poco) compianta madre, scomodando Manzoni, latino e dialetto piacentino. E in un sacrilegio così manifesto in ambito cinematografico non può che ritornare in mente la filmografia di Luis Buñuel, non solo per quanto concerne il contesto religionso ma anche per la dissertazione in ambito politico-borghese.

Pur conservando la sua accecante forza rivoluzionaria, anche "I pugni in tasca" e con esso il suo regista, hanno dovuto fare i conti con gli anni a venire, in particolare con il riflusso sociale nato sul finire degli anni settanta, poi esploso definitivamente nei decenni a seguire e di cui ancora oggi conserviamo alcuni strascichi. Con "Gli occhi, la bocca" (1982) Bellocchio cominciava a domandarsi il perché queste ribellioni siano implose nei corpi rassegnati di generazioni future senza un minimo spirito di insurrezione. "Sul piano delle idee, e mi riferisco in particolare ai più giovani, si sente forse oggi la mancanza di una vocazione ribelle [...] Oggi in Italia non c'è un sentimento collettivo, un'idea di "movimento" soprattutto in relazione al rinnovamento del linguaggio. Lo percepisco e ne sento la mancanza"7. Fino al rinnegamento che portò il regista a denigrare polemicamente il suo capolavoro d'esordio definendolo "una ribellione parziale che oggi sicuramente non rifarei. È di un nichilismo quasi insopportabile"8.

Parole che evocano nel regista una cocente e tormentata delusione. Dov'è andato a finire quel respiro eversivo vissuto quasi mezzo secolo fa?, dove sono l'impegno, la determinazione morale, la fierezza di sentirsi diversi? In un mondo in crisi di ideali e di principi etici, l'identità coerente di Marco Bellocchio alimenta ancora oggi emozioni contrastanti. Attraverso un meticoloso studio gnoseologico e culturale, la sua arte indaga sulla debolezza dell'essere umano, lo esorta a uscire allo scoperto, alla luce del giorno, eludendo così la paura di pregiudizi e dogmi sociali. Sandro, Ernesto Picciafuocola brigatista Chiara rappresentano le pulsioni di una forza rivoluzionaria andata perduta, smarrita col tempo e oggi tristemente fossilizzata.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Ida

Post n°12499 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

 
Locandina Ida

La vicenda si svolge all inizio degli anni '60, nella grigia e soffocante Polonia dove vige stabilmente il regime comunista. Anna è una giovane novizia in attesa di diventare suora a tutti gli effetti. Vive serenamente in un convento isolato dove, essendo orfana, è stata portata in tenerissima età, durante la II Guerra Mondiale. Poche settimane prima di prendere i voti, invitata insistentemente dalla Madre Superiora, si reca a Varsavia per incontrare la sua unica parente conosciuta, la zia Wanda, che, durante il passato, non si è mai messa in contatto con lei. Quando arriva nell'appartamento della zia, si trova di fronte una cinquantenne single, intellettuale elegante e disinvolta, ma visibilmente disillusa, al limite del cinismo. Wanda appartiene all'elite del regime, essendo un magistrato, con un passato di combattente nella Resistenza antinazista e di militante del partito. È una donna che nasconde una grande sofferenza, compensando con un'attiva vita sessuale con vari partner e con il consumo di alcoolici. In breve racconta ad Anna una tremenda verità familiare: la futura suora è in realta di razza ebrea ed era una bambina chiamata Ida. Durante la guerra, la famiglia si era rifugiata nella loro piccola fattoria, ed era stata "aiutata" da alcuni contadini polacchi. Poi i genitori di Anna sono stati uccisi in circostanze misteriose. Wanda convince la nipote a recarsi dove avevano vissuto i suoi genitori per cercare di scoprire le circostanze della loro scomparsa. Per alcuni giorni le due donne vivono insieme. Anna sperimenta la novita della vita ordinaria, i piccoli piaceri e le miserie morali degli uomini. Poi scoprono terribili segreti, ritrovano le ossa dei congiunti e li seppelliscono in un cimitero ebraico in rovina a Lublino. Anna torna in convento, ma, quando apprende la notizia del suicidio di Wanda, si trasferisce nell'appartamento della zia.
Pawlikowski, regista polacco radicato in Inghilterra, conferma la sua squisita capacità di descrivere la psicologia femminile, come già nei suoi film precedenti: My summer of love e Last resort. Costruisce uno straordinario dramma intimo, esplorando le contraddizioni della fede e della vita laica, ma anche i tragici retaggi, ancora presenti, dell antisemitismo, in una epoca cruciale della storia del suo Paese. Il suo stile assolutamente privo di retorica, essenziale e ricco di tristi e genuinamente commoventi toni poetici, ricorda sia l'austerita di Robert Bresson, sia la problematicità dei primi film di Polanski e di quelli di Kieslowski. La scelta di girare in un vibrante bianco e nero, con una squisita composizione delle inquadrature, conferisce ulteriore credibilita alla storia. Le due magnifiche interpreti rivelano molto più di quello che mostrano.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Insomnia

Post n°12498 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Insomnia

L’agente Dormer (Pacino) del dipartimento di Los Angeles viene chiamato in un paese dell’Alaska per indagare sulla morte di una ragazza. Lo accompagna un collega. Collabora con lui la giovane poliziotta locale Ellie, che considera Dormer una vera leggenda. Rincorrendo nella nebbia l’ assassino, Dormer uccide incidentalmente il collega e non è nella condizione, per una certa indagine avviata dal suo dipartimento, di assumersi quella responsabilità. Dà la colpa all’assassino, che però ha visto tutto e ritiene di avere in pugno il poliziotto. I due sarebbero dunque legati dalla complicità. Si incontrano, sono costretti a proteggersi a vicenda. Ma Dormer è troppo onesto per reggere il gioco, e poi la poliziotta comincia a capire. Finisce come deve finire. Da rilevare Robin Williams che ormai si diverte nei ruoli di cattivo, come in One Hour Photo, (è lui lo psicopatico scrittore di gialli che ha ucciso la ragazza) e poi la solita performance di Pacino grande e tollerabilmente sopra le righe. L’insonnia è dovuta alla sua angoscia e al fatto che da quelle parti, in quella stagione, è sempre giorno. Il film parte meglio di come poi arrivi. Un po’ anche per il tributo al talento un po’ invadente del protagonista. E’ magnifico che l’indagine si svolga con gente che ragiona, parla e cammina, e non solo al computer. Sopra la media.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963