Creato da: Ladridicinema il 15/05/2007
Blog di cinema, cultura e comunicazione

sito   

 

Monicelli, senza cultura in Italia...

 
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Settembre 2015 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
  1 2 3 4 5 6
7 8 9 10 11 12 13
14 15 16 17 18 19 20
21 22 23 24 25 26 27
28 29 30        
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

tutto il materiale di questo blog può essere liberamente preso, basta citarci nel momento in cui una parte del blog è stata usata.
Ladridicinema

 
 

Ultimi commenti

Contatta l'autore

Nickname: Ladridicinema
Se copi, violi le regole della Community Sesso: M
Età: 39
Prov: RM
 
Citazioni nei Blog Amici: 28
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

FILM PREFERITI

Detenuto in attesa di giudizio, Il grande dittatore, Braveheart, Eyes wide shut, I cento passi, I diari della motocicletta, Il marchese del Grillo, Il miglio verde, Il piccolo diavolo, Il postino, Il regista di matrimoni, Il signore degli anelli, La grande guerra, La leggenda del pianista sull'oceano, La mala education, La vita è bella, Nuovo cinema paradiso, Quei bravi ragazzi, Roma città aperta, Romanzo criminale, Rugantino, Un borghese piccolo piccolo, Piano solo, Youth without Youth, Fantasia, Il re leone, Ratatouille, I vicerè, Saturno contro, Il padrino, Volver, Lupin e il castello di cagliostro, Il divo, Che - Guerrilla, Che-The Argentine, Milk, Nell'anno del signore, Ladri di biciclette, Le fate ignoranti, Milk, Alì, La meglio gioventù, C'era una volta in America, Il pianista, La caduta, Quando sei nato non puoi più nasconderti, Le vite degli altri, Baaria, Basta che funzioni, I vicerè, La tela animata, Il caso mattei, Salvatore Giuliano, La grande bellezza, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Todo Modo, Z - L'orgia del potere

 

Ultime visite al Blog

acer.250AVV_PORFIRIORUBIROSATEMPESTA_NELLA_MENTESense.8cassetta2surfinia60monellaccio19iltuocognatino1mario_fiyprefazione09LiledeLumiLMiele.Speziato0Ladridicinemarossella1900.rvita.perez
 

Tag

 
 

classifica 

 

Messaggi di Settembre 2015

 

Sangue del mio sangue

Post n°12635 pubblicato il 30 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Sangue del mio sangue,ultimo film di Marco Bellocchio e in concorso al festival di Venezia 2015, è l'ennesimo film personale e intimo dell'autore in cui ancora una volta riporta tutti gli elementi tipici del suo cinema, dalla famiglia borghese, alle tragedie familiari, passando per i toni "anticlericali" fino alle tensioni familiari e sociali tipiche della provincia e del provincialismo italiano.
Sangue del mio sangue è ambientato tra due epoche: il Seicento e i giorni nostri. Federico, soldato e cavaliere, bussa alla porta di un convento per riabilitare la memoria di Fabrizio, fratello sacerdote morto suicida. Per riabilitarlo viene accusata una giovane suora, Benedetta, che secondo l'Inquisizione lo avrebbe sedotto tramite il diavolo, in quanto strega. Dopo aver superato "le prove" di innocenza, verrà sconfitta dalla prova del fuoco e condannata alla prigione perpetua e murata viva in una cella del convento. Graziata 
trent'anni dopo da Federico, diventato cardinale, Benedetta incrocerà di nuovo il suo sguardo, piombandolo a terra. Bobbio, ai giorni nostri. Federico, è un ispettore del Ministero, bussa allo stesso convento accompagnato da un miliardario russo che vorrebbe acquistare l'antico complesso. Apparentemente abbandonato il convento è abitato da un conte, che ha abbandonato i vivi fingendosi morto. Il conte lascia la sua cella di notte e attraversa il paese interrogando amici e nemici sullo stato delle cose, che cambiano sotto la spinta della modernità. Viene definito quindi un vampiro che si aggira di notte creando un mito, che forse mito non è.
"Non mi sono preoccupato affatto dell'architettura drammaturgica - ha sottolineato Bellocchio - e non mi interessava stabilire connessioni rigide tra il passato e il presente. Ci sono allusioni che legale le due sfere temporali: il dominio della chiesa cattolica nel Seicento paradossalmente si conclude con il dominio democristiano in Italia, che pur permettendo un relativo benessere, succhiava il sangue a quella che era una prospettiva di cambiamento".
Di conseguenza ancora una volta Bobbio è il "centro di tutto il - suo - mondo", ed è l'unico collante possibile che unisce le due storie, dove si riciclano gli stessi attori-personaggi in questo racconto tra inquietudini tra passato e presente.
Con un cast assolutamente d'élite, Bellocchio unisce il suo cinema con una vicenda prettamente "manzoniana". Un continuo richiamo al suo cinema che passa dal lutto personale del fratello già visto ne Gli occhi, la bocca, fino all'immagine della donna strega che seduce, ne La visione del Sabba; strega come emblema della femminilità che combatte gli schemi del potere maschile e poi si lascia sopraffare dalla forza delle immagini, che sono la parte più bella del film. Fino ad arrivare a L'ora di religione, e alle inquitudini della fede. 

Nel film recitano i due figli di Bellocchio, Giorgio ed Elena, e il fratello poeta Alberto. 

Il cast si completa con l'attrice ucraina Lidiya Liberman, e gli italiani Alba Rohrwacher e Roberto Herlitzka, che veste i panni del conte-vampiro.

Un cast come detto prima non da poco che però non rende onore a quest'opera particolare, dove i continui rimandi al suo cinema impediscono assieme a una difficile comprensione dell'unione di diversi generi ed epoche una buona narrazione, soprattutto se non si conosce il suo cinema e il suo pensiero.

I suoi film non vogliono rimanere legati ad una trama propriamente detta o portare avanti i loro ragionamenti attraverso binari che rispondono alla logica, ma questo è un film che lascia spiazzato. Come dice l'autore un'opera nata per caso, unendo due progetti separati, nati nel suo laboratorio di Bobbio con i suoi studenti. Va apprezzato comunque che un autore importante come lui abbia ancora questo coraggio di osare e sperimentare con una libertà narrativa e compositiva veramente sorprendente anche per un grande del cinema italiano come Marco Bellocchio.

Voto finale: 4-/5

Poster

Federico, un giovane uomo d'armi, viene sedotto come il suo gemello prete da suor Benedetta che verrà condannata ad essere murata viva nelle antiche prigioni di Bobbio. Nello stesso luogo, secoli dopo, tornerà un altro Federico, sedicente ispettore ministeriale, che scoprirà che l'edificio è ancora abitato da un misterioso conte, che vive solo di notte.

NOTE:

Presentato in concorso al Festival di Venezia 2015.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Film nelle sale da domani

Post n°12634 pubblicato il 30 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

The equalizer

Post n°12633 pubblicato il 30 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

da everyeye

Sebbene già il cinema western (soprattutto quello made in USA) avesse provveduto, quasi da sempre, ad affrontare la tematica, è impossibile negare che sia stato soprattutto in seguito al successo ottenuto da Il giustiziere della notte (1974) con Charles Bronson che la celluloide ha cominciato a popolarsi di individui interessati a fare piazza pulita di esponenti della criminalità, fornendo allo spettatore quella certa liberatoria sensazione di vendetta portata a compimento.
Un sottogenere accentuatosi ancor di più nell'ambito della Settima arte degli anni Ottanta, quando non solo, complici storici lungometraggi con protagonisti forzuti big men del calibro di Sylvester Stallone ed Arnold Schwarzenegger, si diffuse il cosiddetto machismo reaganiano, ma in televisione fecero la loro apparizione serie come The equalizer, trasmesso in Italia con il titolo Un giustiziere a New York.
Lo stesso The equalizer da cui prende le mosse il cineasta Antoine Fuqua per concepire - su script del Richard Wenk regista dell'horror Vamp (1986) e sceneggiatore de I mercenari 2 - The expendables (2012) - questo suo ritorno al grande schermo dopo l'avvincente Attacco al potere - Olympus has fallen (2013), che già sembrava rispolverare in maniera evidente il sentimento giustizialista dell'epoca di Rambo e Terminator; anche se, dando conferma di quanto sopra osservato, dichiara: "Ho considerato questo film come un ritorno al passato, sulla scia dei film western di Sergio Leone. C'è un antieroe, in una lotta, tendenzialmente riluttante e restìo ad impugnare una pistola... ma, quando ha la possibilità di aiutare gli altri, non esita a farlo. Usa tutte le sue abilità a tal fine".

Advertise
Il russo e il nero

Ed è il Denzel Washington che, già vincitore del premio Oscar come attore non protagonista inGlory - Uomini di gloria (1989), Fuqua portò nuovamente a conquistarsi l'ambita statuetta tramite il suo Training day (2001) ad incarnare la rilettura di colore di Robert McCall, il quale, appunto, era bianco nel telefilm, a differenza di cui, stavolta, si parte dalle origini. 
Un McCall che, proprio quando crede di essersi lasciato alle spalle trascorsi torbidi per condurre una vita tranquilla, incontra Teri alias Chloë Grace Moretz, ragazza minacciata da una banda di feroci malavitosi russi che l'uomo, forte delle sue abilità da sempre messe al servizio di chi cerca riscatto e contro chi brutalizza gli indifesi, non intende certo lasciare continuare ad esercitare le proprie malefatte.
Tanto da decidere di uscire dal ritiro autoimpostosi per tornare in azione all'interno di oltre due ore e dieci di visione tendenti a differire da analoghi modelli cinematografici quali Io vi troverò (2008) o The punisher (2004) a causa della loro struttura; in quanto, nonostante il movimento non risulti affatto assente, è su lenti ritmi di narrazione disturbati quando necessario dalle violente imprese del "vendicatore" che il tutto viene costruito.

Denzel in the dark

Infatti, già il primo massacro attuato tra uso di cavatappi e schizzi di liquido rosso avviene soltanto una volta superata la presentazione di diversi personaggi, riconfermando immediatamente che, come di consueto, l'autore di Shooter (2007) non lascia affatto a desiderare per quanto riguarda la ferocia delle uccisioni.
Perché, man mano che troviamo in scena anche i veterani Bill Pullman e Melissa Leo nei panni di Brian e Susan Plummer, appartenenti al passato di McCall, e che quest'ultimo si cimenta in un memorabile dialogo faccia a faccia con uno dei malviventi, in mezzo a colpi di pistola e pugni piuttosto "pesanti" non sono trapani conficcati nel cranio, taglienti frammenti di vetro e sparachiodi a latitare nella mattanza di cattivi.
Mattanza che raggiunge l'apice nella lunga, tesa sequenza da antologia che si svolge quasi del tutto al buio all'interno del grande magazzino del "fai da te" dove lavora il protagonista; nel corso di uno spettacolo non privo neppure di una colossale esplosione, ma capace di mantenersi sempre sul piano del realismo, perfino nelle esagerazioni... come, da sempre, vuole lo stile dell'apprezzabilissimo Antoine.

 

The equalizer - Il vendicatoreA tredici anni da Training day (2001), Antoine Fuqua torna a dirigere Denzel Washington nella trasposizione cinematografica del telefilm degli anni Ottanta Un giustiziere a New York, trasformando in violento eroe di colore quello che, originariamente, era un comune bianco degli Stati Uniti di Ronald Reagan. D’altra parte, mentre all’epoca era decisamente raro avere un protagonista nero - se non in coppia con un americano qualunque, come nei franchise Arma letale e 48 ore - che rappresentasse la sete di giustizia del paese, Washington sembra quasi incarnare una vera e propria rivalsa dal retrogusto antirazzista nel dedicarsi al fantasioso massacro di cattivi, di origini russe alla maniera dei tempi della Guerra Fredda. Quindi, se sentite la mancanza del cosiddetto machismo reaganiano che fece la fortuna di Stallone e Schwarzenegger, avete trovato il film che fa per voi, oltretutto non banalmente costruito sull’azione, ma dedito anche, nella giusta misura, alla costruzione dei personaggi e della attesa-tensione.

7.5

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Madagascar 3

Post n°12632 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Madagascar 3: Ricercati in Europa

Alex il leone, Marty la zebra, Melman la giraffa e Gloria l'ippopotamo, fuggiti dallo zoo di New York City e sbarcati prima in Madagascar e poi nell'Africa centrale, hanno nostalgia della Grande Mela e per questo nuotano fino a Monte Carlo, alla ricerca dell'aeroplano dei pinguini. Sul suolo francese, però, una poliziotta pronta a tutto li elegge a nemico numero uno. Scappare con il treno di un circo è la loro unica speranza: un impresario americano a Londra potrebbe comprare lo show e riportarli tutti a casa. L'esibizione, però, è tutta da inventare. 
Che quello del circo sia un tremendo cliché lo verbalizza il film stesso, ad un certo punto, ma le invenzioni sono tali e tante che presto lo scrupolo viene messo da parte e ci si gode lo spettacolo nello spettacolo, non solo perché narrativamente non occupa una misura debordante, ma anche perché il 3D è sapientemente sfruttato a questo scopo (una per tutte: l'immagine dell'anello dentro il quale salta Vitalj, la tigre). 
Nonostante gag e battute non siano numerosi come nei capitoli precedenti e l'umorismo sfrenato lasci in generale il posto ad una commedia più tenera (il che potrebbe anche essere una traccia di Noah Baumbach alla sceneggiatura), aumentano le incursioni nella comicità surreale, non più solo grazie alla squadra dei pinguini ma anche all'arcinemico di turno, la poliziotta DuBois, mossa non certo da una missione per conto della legge ma solo dal desiderio sfrenato di appendere la testa di un leone alla propria parete. Sopra tutti, come sempre, sebbene il terzo capitolo gli riservi molte meno "pose", è il re dei lemuri Julien: personaggio straordinario, la cui partecipazione al gruppo è ingiustificata come tutto quel che fa e che dice, e la cui imprevedibilità, che è la chiave della sua bellezza, questa volta lo porta ad innamorarsi romanticamente di un orso in bicicletta col tutù. 
Il film chiude il cerchio rientrando alla base, anche se ciò non basterà ad impedire che i nostri vengano spediti al Polo o su Marte, se la convenienza economica lo richiederà, ma non è per questo un capitolo minore. Certo, la conoscenza pregressa dei personaggi è probabilmente indispensabile, se non si vuole rischiare di trovare i protagonisti più insipidi dei nuovi arrivati, ma mai come a questo giro l'equilibrio nell'individuazione del target di riferimento è compiuto e il film nasce classico, buono per qualsiasi età.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Basta che funzioni

Post n°12631 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Partire, stare per un po' lontano da casa è giusto. Ed è altrettanto piacevole il sapore del ritorno, proprio laddove siamo nati e cresciuti. Ma a volte è necessario anche tornare, per ritrovare se stessi. E così, dopo quattro anni nel Vecchio Continente, diviso tra la cupa e delittuosa Londra e la solare e (si fa per dire) focosa Barcellona, Woody Allen torna (momentaneamente) nella sua amata New York. Torna a casa. E con la sua 44° prova dietro la macchina da presa torna a convincere e, sostenuto da un ottimo cast, a divertire. 


Basato su una sceneggiatura scritta dallo stesso Allen nel lontano 1970 per l'attore comico ebreo Zero Mostele, e non priva (come sempre) di qualche spunto autobiografico, "Whatever Works" racconta la storia di Boris, uno scienziato sessantenne, che deluso dalla vita tenta il suicido, ma fallisce. Decide così di abbandonare gli agi della vita borghese e si trasferisce nel quartiere di Chinatown, in un vecchio e trasandato appartamento, passando le giornate ad insegnare scacchi ai bambini (spesso insultandoli) e fare lunghe chiacchierate polemiche ed esistenziali con vecchi amici. Incontrerà per caso una giovanissima ragazza venuta dal Sud (Melodie St. Anne Celestine), scappata di casa e decisa a trovare lavoro a New York.

A raccontarci tutta la vicenda è lo stesso protagonista, che sin dall'inizio, a volte anche in modo sfacciato (non senza un conseguente stupore dei suoi co-protagonisti), si rivolge verso il pubblico, rendendolo privato confidente dei suoi dubbi e dei suoi pensieri. Una frequente interruzione della finzione scenica, che mancava da qualche tempo e che sembra prendere quasi la forma di ammonimento, se non addirittura di testamento artistico. 

Ancora una volta Allen dirige, ma affida lo schermo al suo ennesimo (e riuscito) alter-ego, tale Larry David, classe 1947, da noi pressoché sconosciuto ma amato in patria per le serie tv "Seinfeld" (come autore) e "Curb your Enthusiasm" (come autore ed interprete). Boris è sarcastico, dissacrante, cinico, misantropo e, da buon ipocondriaco, vittima di frequenti attacchi di panico. Boris, ancora una volta, è Woody. E sembra provenire direttamente dal classico repertorio alleniano. Ed a conti fatti in questa nuova commedia c'è poco di nuovo sotto il sole. Film parlatissimo, dove vengono frullati, in un fitto mix di dialoghi, battute e lunghi monologhi, temi e situazioni care al regista newyorkese, "Whatever Works" è soprattutto un film d'interni, caldi e dai colori pastosi, dove tutto è al servizio delle parole, siano queste lunghi monologhi di sfogo del disilluso protagonista (sull'amore, sul caso e la fortuna, sulle donne, sulla società), oppure frizzanti scambi di battute (alcuni dei momenti migliori del film) tra Boris ed i genitori di Melodie. 

Ed il perfetto contraltare all'attempato Boris è proprio uno dei personaggi femminili alleniani migliori degli ultimi anni (assieme all'Amanda di "Anything Else"). Interpretato con convinzione e dolcezza dalla bella Evan Rachel Wood, Melodie, giovane che viene dal Mississipi, solare ed un pò sempliciotta, ricorda molto l'ingenua prostituta Mira Sorvino, protagonista assoluta de "La dea dell'amore". Così, l'arrivo del tutto casuale nella vita di Boris di questa imprevedibile meteora offre ad Allen lo spunto di partenza per parlare a ruota libera. Non facciamoci illusioni: in una vita dominata dal caso e dal caos ("L'universo si esaurisce. Perché noi non dovremmo?"), anche dall'amore (che come ogni cosa non è infinito) possiamo solo aspettarci che, almeno, funzioni (basta quello, in fondo). La transitorietà dei rapporti (assolutamente folli nelle loro dinamica imprevedibilità). E ancora: i genitori venuti dalla campagna (tra cui una splendida Patricia Clarkson), invadenti ed un po' bigotti, che scoprono la loro vera ed inaspettata natura solo nella stimolante New York (fatto sottolineato con non poco cinismo ed ironia).

Da un abitudinario come il buon vecchio Woody, a 73 anni e dopo una carriera come la sua, non possiamo aspettarci cambiamenti epocali. Ma di sicuro "Whatever Works" ha un sapore fresco, diverte e passa dolcemente sotto pelle. E noi possiamo accontentarci di questo, dovremmo averlo imparato oramai. Basta che funzioni. Whatever Works.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Ali

Post n°12630 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Dimensione testo: caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi

locandina del film ALI'

Immagine tratta dal film ALI'

Immagine tratta dal film ALI'

Immagine tratta dal film ALI'

Immagine tratta dal film ALI'

Immagine tratta dal film ALI'
 

Questo indimenticabile film di Micheal Mann, uscito nel 2001 in USA, è stato molto celebrato dalla critica cinematografica occidentale e osannato dai fanpiù accesi di Cassius Clay ma non ha avuto il successo di pubblico che forse meritava, deludendo gran parte delle aspettative dei produttori e dello stesso regista.
Costato più di 200 miliardi di lire è stato girato tra gli Stati Uniti e lo stato africano dello Zambia, a Kinshasa, in un arco di tempo piuttosto lungo della durata di circa due anni che ha permesso una cura tecnica e ideativa di grande efficacia. Il film è indubbiamente apprezzabile anche per il rigore biografico su Cassius Clay, per alcuni tratti trascritto in stile documentario, e per la fotografia a volte veramente straordinaria, ricca di inquadrature che destano stupore e in cui sono racchiuse immagini esteticamente sempre ben studiate, capaci di inserirsi armoniosamente nell'atmosfera narrativa voluta dalla sceneggiatura. Una fotografia che ha contribuito - insieme a una musica puntualissima nel rafforzare con le sue intonazioni drammatiche i momenti più salienti del film - alla creazione di un ambiente filmico suggestivo e incantevole, forse raro in un film sportivo, capace di moltiplicare le trepidazioni dei momenti più caldi della narrazione.
Una ripresa fotografica indubbiamente sempre di alto livello qualitativo, ricca di soggetti sociali veri, autentici, che hanno fatto risuonare con le immagini-documento le parti più significative della vita africana di Kinshasa.

"Alì" è un film di qualità anche per come l'autore ha costruito la sceneggiatura, basata su riferimenti storici e culturali precisi che hanno consentito di edificare un profilo realistico e di forte spessore psicologico del campione nero, trasmettendo un immagine di Cassius Clay lontana dal rumore del mito popolare e congiunta a un contesto storico e politico formulato con chiarezza, nonostante le difficoltà a comporlo per immagini a causa della sua non facile interpretazione.
Un contesto storico drammaticamente problematico, in cui Mann si sofferma con una attenzione quasi maniacale sulle mancanze etiche più specifiche del sociale americano, quello interclassista e interrazziale, da sempre misteriosamente intessuto di potere politico e clientele elettorali legate al ceto più debole situato nelle fasce della popolazione emarginata. Mann ne rivisita per l'occasione, in modo crudo, tutte le sue più numerose sfaccettature e contraddizioni, trattenendosi in quei punti più prossimi al dramma.
Nonostante le iniezioni di un realismo letterario sobrio, scarno, privo di effetti sofisticati o ricercati, Mann è riuscito a fare dello spettacolo tipicamente cinematografico forse senza mai ricercarlo del tutto, semplicemente mantenendosi fedele al personaggio protagonista del film così come esso appariva allora direttamente al pubblico negli stadi o attraverso i media televisivi, nulla aggiungendo o togliendo ma continuamente interpretando o intuendo qualcosa di Alì che si affacciava tra le pieghe di un'esistenza gloriosa ma sofferta, a volte pasticciata, a tratti annebbiata da crisi depressive, e formulando le proprie idee analitiche per ipotesi senza mai trascendere in affermazioni categoriche o univoche, cercando costantemente di presentare il suo pensiero in uno stile geometrico, rigoroso, fatto di deduzioni logiche meditate con cura, capaci di illuminare quanto, all'epoca, alla maggior parte delle persone risultava oscuro nella biografia privata e pubblica del campione nero.
Il film non trascura la parte più psicologica del campione, soffermandosi nei suoi registri consci e inconsci maggiormente tormentati e significativi.
Cassiu Clay (Muhammed Alì) appare nel film come un pugile nero molto discusso, un leggendario personaggio dai modi mistici e polemici, inquieto e passionale, rude, a volte ieratico e grave nel suo difficile compito di risollevare con i meriti sportivi la troppo contenuta spiritualità dei neri musulmani d'America, spesso depressi e apatici nel richiedere, nelle opportune sedi istituzionali, il rispetto dei propri diritti da tempo acquisiti sulla carta.

Cassius Clay, attraverso Micheal Mann, è ricordato come un atleta particolare non solo per essere stato ripetutamente e in modo alternato - dopo forzate soste di combattimento - campione del mondo dei pesi massimi di boxe, ma anche per il suo fervido e originale credo religioso musulmano, quello più vicino all'associazione dell'amico Malcom X. Un credo mai del tutto astratto o utopico, collegato per punti di fede a un'idea di Dio concreta, congiunta per molti aspetti alla vita del mondo terreno, a un sostanziale rapporto fede e giustizia teso a una relazione con Dio ricca di implicazioni anche pratiche, per esempio progetti precisi a sostegno della causa americana dei neri o della lotta per raggiungere pari opportunità sociali tra razze diverse. Un credo di grande impatto sociale che, come il film evidenzia, è stato pubblicamente sostenuto da Clay in ogni circostanza, anche nei momenti di maggior gloria personale o forte sfiducia nelle istituzioni pugilistiche.
Il film mostra come Alì abbia vissuto da bianco gli agi offertigli dalla ricchezza guadagnata con la boxe, e da nero la sua spiritualità religiosa più sentita, quella che gli dava forza per sostenere pubblicamente la sua identità storica di uomo nero libero seppur schiavo nel suo immaginario più recondito di un passato umiliante che ritornava brutalmente, ossessionandolo, quando le espressioni verbali e gestuali di un certo razzismo dell'America più buia si facevano sentire insistentemente, soprattutto alla vigilia degli incontri importanti. Il film si intrattiene anche sulle contraddizioni più palesi della personalità di Alì, ad esempio su come non sia riuscito a vivere la sua vita intima e pubblica con il necessario decoro richiesto dalla sua religione musulmana. Troppe erano infatti le sfiducie preconcette nelle relazioni con i bianchi, che portavano inevitabilmente a delle rotture, e i pregiudizi paralizzanti verso tutti gli amministratori bianchi delle istituzioni americane. Questi aspetti isolavano Alì dal mondo che più contava nevrotizzandolo ancor di più e portandolo ad errori gravi, pagati nel privato più intimo.
Alì pur sposato non rinuncerà agli agi e alle libere relazioni d'amore con numerose donne attratte dalla sua bellezza atletica e dalla sua notorietà, finendo per subire una continua campagna denigratoria che alimenterà il senso di colpa per le sue origini. La nevrosi del campione nero finirà spesso per aggravarsi in forme di depressione delirante, condizionando gran parte della sua vita e procurandogli grossi problemi nella capacità di gestire razionalmente il suo grande successo.

Il personaggio Clay, come risulta dal film, era scomodo alle maggiori istituzioni politiche americane, soprattutto nel periodo del suo maggior successo sportivo, durante il quale veniva costantemente sorvegliato dai servizi segreti americani e da spie specializzate in penetrazioni di gruppo, con l'intento di cogliere sia l'influenza di Clay nel temibile mondo dei neri metropolitani sia le ripercussioni mediatiche del suo comportamento nell'opinione pubblica più in generale.
Cassius Clay, come ben precisato dalla pellicola, nel periodo d'oro della sua boxe era ricevuto ufficialmente dai governi africani e da uomini diplomatici di vari paesi che vedevano in lui un vero e proprio referente politico, di grande impatto mediatico, fino a quando, con la sua sprezzante ironia, scivolerà nel baratro della giustizia americana. Alì rifiuta nel 1966 di arruolarsi nell'esercito degli Stati Uniti e combattere nel Vietnam. La decisione gli procurerà una condanna di 5 anni di reclusione e la perdita della licenza di pugile irritando successivamente, forse per l'arroganza e lo snobismo dimostrato verso le più importanti istituzioni giuridiche americane, lo stesso capo musulmano della Nazione dell'Islam che ne decreterà l'espulsione dall'associazione religiosa a tempo indeterminato, seppur con una spiegazione non del tutto chiara. Tale spiegazione ha fatto pensare a un tornaconto, dello sfortunato episodio giudiziario, a favore della Nazione dell'Islam, ad un uso cioè ambiguo della figura del Clay mediatico; il campione dei pesi massimi verrà infatti cacciato con motivazioni non del tutto pertinenti ai fatti, quali il suo presunto scarso interesse al culto di Dio e l'esaltazione sportiva per la boxe troppo intrecciata con una euforica e scandalosa vita mondana. Clay abbandonato da tutti finisce in povertà, restando drammaticamente in attesa dell'esito del suo ricorso alla Corte Suprema per la condanna di cinque anni, inflittagli dai magistrati bianchi con giudizio unanime.

Il regista prende in considerazione gli anni della vita di Clay che vanno dal 1964 al 1974. Gli incontri sul ring, impersonati per Clay da un Will Smith sopra le righe, sempre ben aderente alla parte verbale e gestuale più spettacolare che il pugile nero amava esibire negli stadi, sono tatticamente veri e rappresentati con una credibilità a volte stupefacente che riproduce gli stili e le tecniche del boxare di allora. Una forma di realismo indubbiamente gradita, encomiabile, che premia la professionalità di un regista un po' sottovalutato dalla critica nonostante film come "Heat - La sfida" 1995, "Insider - Dietro la verità" (1999), "Manhunter - Frammenti di un omicidio" (1986), "Collateral" (2004) e, successivamente, "Miami Vice", girati spesso in digitale con forti manipolazioni di tipo espressionistico delle immagini, attuate con tavolozze elettroniche - paragonabili in un certo senso a quelle usate dai pittori - sui colori e i toni dello sfondo delle scene per trasmettere la propria poetica cinematografica.
In Alì le scene sul ring sono al top della storia del cinema pugilistico, contribuendo a dare al film di Mann uno spessore fotografico-sportivo inedito che ne alimenta la suggestione e l'illusione ottica, fino al punto di ipnotizzare l'immaginario dello spettatore più restio a identificarsi con i personaggi più celebri del mondo della boxe.

Occorre dire che il film, pur essendo caratterizzato da lunghe riprese sportive, prende in considerazione, interpretandone anche le connessioni più sociali e culturali, un'estesa parte del pensiero del campione risultando così un'opera filmica attraversata da istanze filosofiche, etiche e religiose. Il regista americano ha voluto soffermarsi con questa pregevole opera filmica sullo spaccato più profondo della vita di Cassius Clay, usando la boxe solo come un pretesto di tipo spettacolare capace di fare breccia nella mente più chiusa del pubblico portando avanti un discorso di fondo molto aperto, completamente diverso dalle comuni attese, legato soprattutto alla psicologia più profonda del personaggio e alle contraddizioni più evidenti di un mondo pugilistico che già allora evidenziava pesanti cadute etiche, in una società fortemente malata di corruzione e intessuta di un protagonismo patologico, non a caso di tipo individualistico.
Mann studia per intero un personaggio indubbiamente singolare, seguendone ogni fase cruciale della vita, compreso gli amori coniugali e trasgressivi, il divorzio, la fede e l'adesione dottrinale e politica con Malcom X fino alla rottura, le relazioni amichevoli e quelle ambigue, sottolineando alla fine le subdole vessazioni subite da Clay da parte di uomini torbidi e arroganti, sempre pronti a sfruttare le sue debolezze nevrotiche e le ingenuità più infantili, specialmente quelle impregnate di miti primitivi che danno nel film un immagine di Clay complessa, prima di allora del tutto sconosciuta ai più.
Mann, fortemente ispirato dall'aura mediatica rilasciata dal personaggio Clay, costruisce una biografica a tutto campo del campione, mai ordinaria o banale, sempre capace di mettere a fuoco i fatti più noti e sensazionali della vita di Clay senza rinunciare a quelle spiegazioni un po' più multiformi tese ad evidenziare gli aspetti bui di un'epoca difficile caratterizzata, tra altre cose, da gravi problemi razziali e di intolleranza verso il diverso nonostante la presenza di una carta costituzionale all'avanguardia, basata su saldi principi etici, consolidati, che poteva garantire a ogni cittadino diritti mai raggiunti prima.

Figlio di un pittore e di una donna di fede Battista, Cassius Clay nasce a Louisville, Kentucky, USA il 17 Gennaio del 1942.
A coronamento di una lodevole carriera da dilettante conquista alle Olimpiadi di Roma la medaglia d'oro nella categoria dei pesi medio massimi. Siamo nel 1960 e il film inizia qui, con le sue prime imprese da professionista.
Allenato da Angelo Dundee, Clay arriverà al mondiale dei massimi a soli ventidue anni battendo il nero Sonny Liston, da alcuni definito il campione sostenuto dalla mafia, per KO alla settima ripresa. Subito dopo la corona mondiale Clay annuncia la sua conversione all'Islam e l'assunzione di un nome diverso, Muhammad Alì, con la motivazione che il suo nome originario apparteneva a quello dato genericamente dai padroni agli schiavi.
Nel 1966, nonostante quattro anni prima fosse stato riformato, viene chiamato alle armi per partecipare alla guerra nel Vietnam ma oppone un fermo quanto vano rifiuto, affermando di essere un ministro della religione islamica. Verrà condannato.
Dopo la condanna Alì sospende i combattimenti ritirandosi dalla boxe. Torna a combattere nel 1971, dopo essere stato assolto dalla Corte Suprema dal reato di reticenza alla leva, grazie a delle irregolarità nelle procedure attuate per raccogliere informazioni sull'accusa del suo caso. Vince diversi incontri ma perde l'importante sfida con Frazier, ai punti, e riesce a tornare campione del mondo AMB solo nel 1974 mettendo KO George Foreman a Kinshasa, che in precedenza aveva battuto Frazier per KO. Lo scontro di Kinshasa nello Zambia sarà ricordato come un grandissimo evento sportivo e ispirerà un grande film documentario come "Quando eravamo re".

Il film finisce con il trionfo di Clay su Foreman a Kinshasa, osannato dalla folla, una vittoria per nulla scontata nei pronostici a causa dell'età di Clay. L'incontro è memorabile. Clay fa tutto di testa sua, non ascolta sul ring i consigli dei suoi tecnici e adotta una tattica capolavoro che stupisce il mondo. Si lascia attaccare dal potentissimo Foreman stando appoggiato con la schiena sulle corde del ring, muovendosi solo lungo di esse, chiuso su se stesso in una difesa ferrea e impenetrabile, usando le robuste ed elastiche corde del quadrato per attutire i colpi dell'avversario.
Foreman cerca a più riprese di indebolirlo ai fianchi per provare ad aprire dei varchi frontali e metterlo KO ma la sua tattica risulta vana. Clay, all'ottava ripresa, vista la perdita di potenza dei colpi di Foreman, passa al contrattacco costringendo Foreman a stare al centro del ring e bersagliandolo con una serie di jab e montanti micidiali che mettono in poco tempo KO il detentore del titolo.

Il declino di Clay cominciò nel 1978, quando perse per KO tecnico con il giovane Larry Holmes all'undicesima ripresa. Clay disputò il suo ultimo incontro nel 1981, in seguito si dedicò alla diffusione della religione islamica e a numerose iniziative di pace per il mondo.

Alle Olimpiade americane di Atlanta, nel 1996, Muhammad Alì riuscirà a coinvolgere di nuovo tutto il mondo accendendo, tremante per la malattia del morbo di Parkinson, la fiamma che inaugura i giochi.
Secondo alcune fonti giornalistiche e televisive sembra che in questi ultimi anni Alì si sia convertito alla religione cristiana Battista.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

The big wedding

Post n°12629 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Big Wedding

Alejandro è innamorato di Missy e sta per sposarla. Figlio adottivo di Don e Ellie Griffin, separati da vent'anni, non sa come dire alla madre biologica e profondamente cattolica che suo padre (con)vive con un'altra donna e sua madre è un'ebrea-buddista, che pratica il sesso tantrico e vanta un orgasmo di nove minuti. Ma i suoi problemi non finiscono qui e nemmeno la sua famiglia che comprende un fratello medico di trent'anni deciso finalmente a perdere la verginità e una sorella sull'orlo di una crisi matrimoniale. Missy, da par suo, non è messa meglio, il padre ha problemi col fisco e la madre col proprio corpo che 'restaura' a suon di dollari. Nonostante tutto, nonostante tutti e nonostante un prete dogmatico col vizio della bottiglia, Alejandro e Missy arriveranno al giorno delle nozze, che coi fiori d'arancio riserva sorprese, rivelazioni, chiarimenti e scioglimenti felici. 
Riunire in un film Robert De Niro, Susan Sarandon e Diane Keaton è probabilmente il solo merito della comedy of remarriage di Justin Zackham, sceneggiatore, realizzatore e produttore di Big Wedding. Remake del film francese Mon frère se marie, la commedia di Zackham sembra piuttosto la versione stonata diMamma Mia, senza musica e danza naturalmente. Amanda Seyfried recita di nuovo il ruolo della fidanzata bionda e sensibile alle prese con un tourbillon di confessioni e sentimenti, conciliati davanti all'altare. Strutturato sull'equivoco, la finzione sostenuta dai genitori dello sposo a uso della madre biologica, Big Wedding accumula situazioni ovvie e 'celebra' uno e due matrimoni, muovendosi grevemente tra conflitti, deviazioni e riconsacrazioni. 
D'altra parte il matrimonio, come la commedia romantica, è un terreno di scontro, una mascherata dell'identità che sfrutta ogni ricaduta umoristica. Senza fare schermo a qualche tristezza e giocando la carta del sesso disinibito in famiglia, Big Weddinginfila direzioni note e finisce in un precipizio di smorfie, incidenti e sipari farseschi, che abbattano gli attori più giovani e mortificano i veterani. Abbonato al ruolo di seduttore azzimato, De Niro impersona ancora una volta il marito bolso e mascalzone, civettuole e intraprendenti sono invece le consorti legittime, o meno, di Susan Sarandon e Diane Keaton, trincerata nel suo immancabile tailleur pantalone, nella verve impudente e nella ribadita indipendenza economica. Più a suo agio Susan Sarandon interpreta il personaggio che rilancia e scioglie i dubbi amorosi, aggirando comicamente gli ostacoli della menzogna a cui è costretta per amore di un figlio acquisito e la sconsideratezza di un compagno mai impalmato. Intorno a loro schiamazza una compagnia di 'piccoli' attori da cui scampiamo la brillante Katherine Heigl, architrave solida e mai ingombrante di una costruzione corale, capace di dare rilievo a pensieri e azioni del suo personaggio. 
Justin Zackham prova a scuotere il wedding movie e il perbenismo borghese con la comicità grossolana e attraverso personaggi (e situazioni) 'trasgressive'. Ma il politicamente scorretto finisce per essere un marchio da esibire piuttosto che una reale provocazione, concludendo con l'immancabile redenzione degli infedeli e il paradosso della felicità perfetta. A ciascuno è dato riconoscere il proprio compagno o la propria compagna, trattenere accanto a se gli oggetti della propria affezione e trovare il proprio posto nel mondo, o almeno nel giardino dei Griffin, non meno incantato di un bosco fiabesco.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Cose nostre

Post n°12628 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Cose nostre - Malavita

Decisosi a parlare e mandare in galera tutta la sua famiglia (o almeno quelli che ha lasciato in vita) assieme al proprio clan, il boss mafioso Giovanni Manzoni è continuamente trasferito da una casa all'altra e da un'identità fittizia all'altra per il programma protezione testimoni dell'FBI. Arrivato con la moglie, la figlia adolescente e il figlio di poco più piccolo in un paesino della Francia, tenterà di sopprimere la sua natura mentre i suoi parenti si integrano a modo proprio con l'ambiente locale.
Intanto in una galera americana, uno dei molti capi che ha fatto incarcerare con la sua testimonianza non smette di cercarlo per chiudere i conti.
C'è il tocco di Martin Scorsese su Cose nostre - Malavita, film di cui è produttore esecutivo e che infatti non ha i soliti toni eccessivi di Luc Besson ma un'inedita (per il regista francese) vicinanza ai temi narrati. Il quadro della famiglia di Cose nostre è infatti un film di mafia post-Soprano, in cui i malavitosi sono persone insospettabilmente normali ma capaci di perpetrare azioni truci nella stessa maniera in cui si va al lavoro ogni giorno. Ma diversamente dal solito il ritratto è contaminato da un affetto, una nostalgia e al tempo stesso un autentico terrore del crimine italoamericano che paiono venire dall'immaginario scorsesiano.
Il calco ufficiale è il romanzo "Malavita" di Tonino Benacquista, quello non ufficiale sembra invece l'unione di In Bruges e Quei bravi ragazzi (che in un momento di metacinema sfiorato viene proiettato davanti al protagonista interpretato da Robert De Niro). È impossibile infatti non notare un certo piacere filmico nel manipolare la trama e i personaggi che compongono la famiglia del film in modo che oscillino in continuazione tra dramma e commedia, tra risata e tensione, facendosi forza di un'ambientazione inusuale (il paesino della Francia del nord) utilizzata con una chiave satirica che ricorda il film di McDonagh. Al tempo stesso è anche evidente come uno dei punti chiave della trama sia la discesa del boss, il suo essere ridotto al rango di persona normale, privato dei privilegi, del rispetto e della deferenza che sono dovuti ad un criminale del suo rango e costretto a subire i consueti soprusi di tutti i giorni invece che imporli agli altri, come accade all'Henry Hill di Ray Liotta.
Non c'è quindi molto di originale nel film di Besson, che da sempre è più un abile masticatore di cinema altrui che un creatore originale, tuttavia questa volta il miscuglio è più bilanciato e armonioso del solito. Superando la chimera dell'originalità a tutti i costi, Besson riesce a saltare dall'high school movie alle sparatorie in mezzo alle strade, dai dialoghi screwball dei due coniugi a quelli noir tra De Niro e Tommy Lee Jones, con un'agilità che non fa sentire nessuna fatica al pubblico, anzi esalta le qualità del film.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

La maschera di ferro

Post n°12627 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

I classici di Alexandre Dumas (padre) hanno generato svariati adattamenti cinematografici, e i romanzi più saccheggiati sono stati sicuramente quelli dedicati ai tre moschettieri. Dalle prime trasposizioni, risalenti addirittura al cinema muto, sino al cult del 1948 con protagonisti Gene Kelly e Van Heflin e dimenticando la recente reinterpretazione di Paul W.S. Anderson, D'Artagnan e soci hanno più volte calcato il grande schermo con alterne fortune. Tra le produzioni più ambiziose dedicate al mitico quartetto, nonché tra quelle che si prende più libertà rispetto alla fonte originaria, va sicuramente inserita La maschera di ferro, film del 1998 diretto dall'allora esordienteRandall Wallace, candidato all'Oscar tre anni prima per aver scritto la sceneggiatura di Braveheart - Cuore impavidodi Mel Gibson. Non è sempre scontato per un'opera prima avere a disposizione un cast così ricco come in questo caso: ad interpretare i moschettieri troviamo infatti nomi del calibro di John Malkovich (Athos), Jeremy Irons(Aramis), Gerard Depardieu (Porthos) e Gabriel Byrne (D'Artagnan), mentre a vestire i panni del Re Luigi e di suo fratello gemello Filippo è un Leonardo di Caprio all'apice del successo nel suo primo lavoro post-Titanic.

Tutti per uno, uno per tutti

In una Francia sull'orlo della povertà, Re Luigi XIV vive nel lusso infischiandosene del benessere del suo popolo, che sembra in procinto di iniziare una rivoluzione. A far da consigliere al regnante vi è D'Artagnan, diventato dopo anni il comandante dei moschettieri. Quando Luigi XIV chiede ad Aramis, che ha ora preso la via ecclesiastica, di scovare e uccidere il capo dei Gesuiti che starebbe tramando un complotto, il moschettiere decide di richiamare a convegno gli amici di un tempo. Infatti a tessere la cospirazione gesuita è proprio lo stesso Aramis, che ora propone ai vecchi compagni di appoggiarlo in un'eroica impresa: sostituire il Re. Porthos e Athos, quest'ultimo in astio contro il sovrano che ritiene colpevole della morte del figlio Raoul, accettano subito mentre D'Artagnan decide di rimanere fedele al proprio Re, senza però tradire gli amici. Il piano di Aramis sembra riuscire, e si scopre un'incredibile verità: l'uomo rinchiuso da anni nelle prigioni della Bastiglia con indosso una maschera di ferro è infatti il fratello gemello di Luigi...

Libertà

Se siete tra coloro che ritengono la fedeltà all'opera originale un dovere morale, soprattutto parlando di tali capolavori della letteratura popolare (in questo caso usato nell'accezione più positiva possibile del termine), i motivi per storcere il naso saranno non pochi. Il regista, anche autore della sceneggiatura, prende soprattutto spunto dall'ultimo romanzo della saga (il migliore per chi scrive) Il visconte di Bragelonne, finendo però per cambiare sin troppi particolari importanti e arrivando addirittura a rivelare una segreta relazione sentimentale tra il guascone più famoso della storia e la Regina Madre. Lo stesso epilogo trova un cambiamento cruciale che lascia alquanto perplessi e non rende giustizia alle pagine scritte. Altra curiosità che stona è la differenza di età degli interpreti di D'Artagnan e Athos: Byrne infatti è ben quattro anni più vecchio di Malkovich, cosa che si nota visibilmente e che lascia perlomeno interdetti. Se invece siete tra quelli che danno poca importanza a questi "dettagli" o semplicemente non avete ancor avuto occasione di farvi trasportare dall'epica di Dumas, il film rimane un godibile feuilleton che, nonostante risvolti narrativi non sempre perfetti anche escludendo quanto detto sopra, riesce ad offrire due ore piacevoli grazie alla giusta dose di avventura, divertimento e dramma storico. Un cappa e spada che registicamente guarda ai grandi classici del genere, con un vago sapore retrò e una minuziosa cura per la messa in scena, soprattutto per ciò che concerne costumi e scenografie, di buon impatto estetico e non privi di una certa eleganza. Con una colonna sonora suggestiva a suggellare il pathos delle scene più avvincenti e interpretazioni di gran classe (di fronte ad interpreti maiuscoli come Irons, Depardieu, Malkovich e Byrne il giovane di Caprio si conferma attore già maturo a dispetto dell'età, convincente nel doppio ruolo) il titolo va sicuramente annoverato tra le produzioni più gradevoli riguardanti quel periodo storico realizzate negli anni '90.

Advertise

La maschera di ferroPer certi versi controverso nella sceneggiatura, con cambiamenti tali da far inorridire i puristi di Dumas,La maschera di ferro (ispirato, come il romanzo da cui è tratto, a una leggenda realmente diffusa ai tempi) è un cappa e spada senza infamia e senza lode che si fa apprezzare per l'ottima cura scenografica/visiva e per le interpretazioni dei suoi protagonisti. In attesa di veder realizzato su grande schermo un'opera che renda veramente giustizia al capitolo conclusivo delle avventure dei tre moschettieri, il memorabile Il visconte di Bragelonne, ci si può anche accontentare.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Dallas bUYERS CLUB

Post n°12626 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Dallas Buyers Club

Ron Woodroof vive come se non ci fosse un domani, non credendo alla medicina ma professando solo la religione della droga e dell'alcol. La scoperta di non avere realmente un domani a causa della contrazione del virus HIV apre un calvario di medicinali poco testati e molto inefficaci, fino all'estrema soluzione di sconfinare in Messico alla ricerca di cure alternative. Lì verrà a conoscenza dell'esistenza di farmaci e cure più efficaci, ma non approvate negli Stati Uniti, che deciderà di cominciare ad importare e vendere a tutti coloro i quali ne abbiano bisogno, iniziando un braccio di ferro legale con il proprio paese.
Nel percorso attraverso le fiamme costituito da un male lento e letale come quello portato dal virus HIV esiste un che di religioso. I più bigotti hanno individuato nella malattia a cui il virus porta (che essendo venerea si trasmette anche attraverso il sesso e che ha colpito molto gli omosessuali) una punizione divina per atteggiamenti contrari alla morale promulgata dalla Bibbia, Jean-Marc Vallée invece usa l'abisso dell'aspettativa di morte a causa dell'HIV per raccontare un percorso di santità.
Ron Woodroof come i grandi santi dell'antico testamento parte dalla posizione più deprecabile, preda di tutti i principali vizi e colmo d'odio verso chiunque non sia come lui, ma la prossimità alla morte lo costringerà a rivedere la propria intolleranza e ad aprirsi a un commercio e una benevolenza verso il prossimo che sono la caratteristica portante della santità.
Dunque, benchè Dallas buyers club sia assolutamente privo di metafore direttamente religiose, è innegabile il suo lavoro di ribaltamento di uno tra i più odiosi luoghi comuni omofobi, attraverso un eterosessuale che si apre al prossimo, facendosi portatore di salvezza e vita contro un sistema che sembra negarla.
Tutto questo scontro e questo percorso di rinegoziazione del ruolo degli eterosessuali nella lunga battaglia per ottenere cure efficaci e tempestive contro il virus HIV (che per molti versi ha riguardato soprattutto gli omosessuali), il film lo gioca sul fisico emaciato e smagrito di Matthew McConaughey che tra chili persi e un trucco molto efficace mostra, con le varie fasi della propria salute, il senso stesso della purificazione umana sulla sua faccia.
L'attore benedetto da William Friedkin (con il suo Killer Joe è cominciata per lui una seconda carriera da attore, non più bello e scemo ma affidabile maschera d'intensità) ha un film sulle sue spalle, che da lui pretende e ottiene anche troppe impennate di qualità strappalacrime e prendiapplausi ma in cambio non gli fornisce quel che dovrebbe.
Dallas buyers club è infatti un racconto sentimentale molto ruffiano, che cavalca l'esaltazione della reale battaglia per la conquista del proprio diritto alla vita da parte di un uomo che compie tutto il percorso da deprecabile fino ad adorabile, un eroe pieno di difetti e dunque ancor più amabile, decisamente meno interessante, complesso o profondo di quanto l'interpretazione di McConaughey non cerchi di farlo apparire.
Inoltre, per andare appresso al suo protagonista sempre e comunque, cercando nel suo corpo la soluzione di ogni scena e l'esaltazione di ogni passaggio importante, Jean-Marc Vallée trascura il resto del cast nonchè della storia. Ne fanno le spese specialmente Jared Leto e Jennifer Garner a cui vengono lasciati solo scampoli ininfluenti che li trasformano in meri condimenti degli assolo del protagonista.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Giordano Bruno

Post n°12625 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

da http://robydickfilms.blogspot.it/2010/12/giordano-bruno.html

 

1973, Giuliano Montaldo.

Penso mi comprenderete se non mi metto certo io a fare la biografia di un simile personaggio. Prendo qualche pezzo dalla pagina wiki che ne parla, farò poi qualche considerazione sul film:

«È dunque l'universo uno, infinito, immobile; una è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo et ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e perciò infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato e per conseguenza immobile; questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto; non si genera perché non è altro essere che lui possa derivare o aspettare, atteso che abbia tutto l'essere; non si corrompe perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa; non può sminuire o crescere, atteso che è infinito, a cui non si può aggiungere, così è da cui non si può sottrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili»
(Giordano Bruno, De la causa, principio et uno, 1584)

Giordano Bruno, al secolo Filippo Bruno (Nola, 1548 – Roma, 17 febbraio 1600), fu un filosofo, scrittore e frate domenicano italiano, condannato al rogo dall'Inquisizione cattolica per eresia.
Tra i punti chiave della sua concezione filosofica, che fondeva neoplatonismo e arti mnemoniche con influssi ebraici e cabalistici, la pluralità dei mondi, l'infinità dell'universo ed il rifiuto della transustanziazione. Il suo pensiero presenta un'accentuazione dell'infinitezza divina sconosciuta ai neoplatonismi precedenti. Con notevoli prestiti da Nicola Cusano, Giordano Bruno elabora una nuova teologia dove Dio è intelletto creatore e ordinatore di tutto ciò che è in natura, ma egli è nello stesso tempo Natura stessa divinizzata, in un'inscindibile unità panteistica di pensiero e materia.


Terminate le citazioni, sul film ho da dire solo una parola a giudizio: CULT. Perché è bellissimo e fatto con particolare attenzione, perché ci sono costumi ed impegno di mezzi importanti, perché ci sono attori notevolissimi col "solito" Volonté a giganteggiare come protagonista, ma soprattutto perché (e scado nel personale ma dopotutto questo è e sarà sempre il mio modo di vedere i film) io ho una assoluta venerazione e stima profonda per il personaggio che fu Giordano Bruno, tanto che alla mia prima visita da "adulto" di Roma la sua statua a Campo de' Fiori (a dx l'immagine) fu tappa obbligatoria con tanto di sosta in meditazione!

Apro una parentesi da blogger più che da recensore.
Giordano, è il secondo nome del mio terzo figlio. Sarebbe dovuto essere il primo per mia ferma volontà, ma poi, con la donna sul letto di sgravio... si sa come vanno certe cose. Il mio verso di lui è un amore che risale all'infanzia. Avevo 10 anni quando ne lessi per puro caso, sulla pagina culturale di un giornale. All'epoca ero cattolico praticante, ne chiesi conto al prete, vi risparmio le vacue ed evacuabili risposte, in capo ad una settimana ero diventato un anticristo mangiapreti, pieno di rabbia. Ero un bambino, ora la rabbia la controllo un po' meglio. In ogni caso fu grazie a lui che aprii gli occhi, non sul fatto di avere o meno fede, ma su ciò che fu, che era e, diciamolo!, ancora è la chiesa, con modalità punitive certo diverse ma non meno efficaci nell'influenzare, soprattutto in italia, politica e cultura in modo nefasto!
Ho quindi un debito di gratitudine, che non ho mai onorato con studi approfonditi. Quanto riportato da wiki è una sintesi che mi basta e mi è sempre bastata. La meditazione davanti alla sua statua è semplice: ricordare, ricordare, ricordare...
Chiusa la parentesi.

I 2 Perché che sono "più perché" di tutti però me li sono tenuti per esprimerli con questi 2 frame


Era felice Giordano Bruno a Venezia prima che quel pezzo di merda di Giovanni Mocenigo, malanima la sua e quella dei suoi successori, lo vendesse, complice il senato veneziano, all'inquisizione romana ben sapendo cosa gli sarebbe accaduto. E sono felicissimo io di come il film lo ha ritratto, nemmeno l'avessi scritta io la sceneggiatura, l'avrei fatto esattamente così tranne che forse, tale è il piacere di quell'inizio, l'avrei fatta più lunga, riducendo al limite la descrizione della sua permanenza nelle prigioni vaticane che, lo ammetto, m'han fatto soffrire e rimontare un disprezzo incontenibile per quegli assassini.
A Venezia c'era il Vero Giordano Bruno, filosofo allegro e gioviale, a suo agio con il nobile come con le puttane, e di più con queste ultime e con il popolo in generale. Parlava parimenti con tutti, la sua esposizione era semplice, chiunque compreso chi scrive lo può capire, ammirarne la lineare logica e le perfette metafore reali, basate sulla natura, sul movimento degli astri, sulla bellezza di ogni cosa, dell'ambiente. Una visione globale e locale di tutta la Vita nel senso più esteso del termine, pacifista senza se né ma, e poi anche gran bevitore, goliardico ma mai violento o becero: un uomo fantastico! Un modello di vita per me, e chiudo qua, ne scriverei pagine e pagine di elogi. Ah quanto vorrei vedere un film che mi mostra la sua vita Prima del suo sciagurato rientro in italia, quanto!! Sarebbe pieno di Intelligenza e di Gioia di Vivere!



Non è stato semplicissimo bloccare questo frame, la scena compare veritiera ma anche ad alta velocità. Non so come si chiama quell'orribile "bavaglio", un uncino che s'infila nella lingua e poi un laccio a stringerlo dietro la nuca. Stava urlando le sue verità prima di essere prelevato per il rogo, non potevano sentirlo evidentemente. Trovo sia un'immagine emblematica, fin troppo chiaro cosa simboleggia, straordinaria. Non ce la faccio quasi a parlarne, mi mette una tristezza che non posso nemmeno esprimere, avevo le lacrime che scendevano durante tutto il finale, un Uomo di tale levatura trattato in quella maniera è terribile perché tutti siamo pari verso la sofferenza fisica, ma qui si tratta di violenza verso la Cultura, il Progresso... una tristezza infinita.

Non posso non citare un altro grandissimo film su un altro grandissimo personaggio italiano, le cui scoperte tra l'altro furono fondamentali anche per la filosofia di Giordano Bruno (che poi non era solo un filosofo, nota bene!):Galileo, della Cavani. Non perdetevelo nemmeno quello! In quella rece, che lascio come l'ho scritta a suo tempo, parlo dell'inutilità della morte di Bruno, però ora, col senno di poi, so che c'ha provato a non morire, solo che aveva capito che ormai ogni sua abiura era inutile e non credibile.

Recensione dedicata ad una cara amica, devo ancora conoscerla personalmente ma abbiamo avuto proficui scambi tramite il web: Zina Crocé, che tra l'altro me ne ha consigliato la visione. Splendida persona, docente liceale ed universitaria, giornalista, saggista, si occupa di critica teatrale, scrive su "Teatro contemporaneo e Cinema", rivista fondata da Mario Verdone, e fa pure altre cose ma quelle che ho elencato sono le sue preferite. Desideravo ospitare il suo nome nel blog, finalmente c'è stata occasione.
Ciao Zina, e... in bocca al lupo per tutto!

edit 27-12-2010: pubblico mail ricevuto da Zina

Beh, devo dire che FB fa conoscere persone veramente “belle” : è il caso di Robydick, mio amico facebookkiano, col quale condivido assolutamente i concetti e le forti emozioni del film di Giuliano Montaldo. Il regista dirige magistralmente un sublime Gian Maria Volontè, solare, vitale, sanguigno, assolutamente intenso. Bruniano, appunto. 
Bruno era filosofo di cultura elevatissima, dotato di profonda sensibilità e di alta ironia, quell’ironia che gli consentiva di dare il giusto “peso” alle situazioni e alle persone, e di essere autenticamente libero, lontano da qualsivoglia sudditanza e ossequio al potere. 
L’unico ossequio che il nolano praticava, con passione assoluta, era quello verso la Filosofia, Amore per la Vita in tutte le sue forme. 
Personalmente, trovo la rappresentazione del “Bruno” di Montaldo di gran lunga migliore di quella –dello stesso filosofo- resa nell’altro film, anche questo bellissimo, citato da Roby, e cioè “Galilei”. Liliana Cavani è regista sublime, però non ha rappresentato in modo incisivo la figura del filosofo di Nola, pur avendo, però – forse per questo ?- tratteggiato in modo superbo la figura di Galileo, nella perfetta interpretazione di Giulio Brogi. 
Roby ha citato a ragion di veduta il film della Cavani : le due opere sono strettamente legate, le trame si intrecciano fortemente per l’affresco d’epoca che offrono allo spettatore nell’evidenziare, in modo drammatico, il conflitto tra chiesa, intesa come spregiudicato esercizio del potere, e Verità, valore sacro qui sacrificato sull’altare sconsacrato, grondante di sangue innocente, della vampiresca ragion di stato della chiesa, che, con lucido cinismo, umilia, tortura, uccide uomini innocenti, che hanno segnato una delle tappe più importanti nel percorso di evoluzione dell’umanità, nell’ottica di “mors tua, vita mea”.
Film-capolavoro, da utilizzare come sussidio didattico nelle scuole, per fare piazza pulita di quelle “menzogne dei millenni” predicate urbi et orbi, e aborrite da un altro grande filosofo demistificante, Friedrich Nietzsche ( a proposito, Roby : ti consiglio la recensione di un altro bellissimo film della Cavani, “Al di là del bene e del male”).
In chiosa : sotto il pontificato di Woytila Galilei è stato riabilitato...., su Bruno grava ancora la scomunica...

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Sacco e Vanzetti

Post n°12624 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

da http://robydickfilms.blogspot.it/2010/08/sacco-e-vanzetti.html

 

1971, Giuliano Montaldo.

Un film che da molto tempo avevo pronto da vedere e non mi decidevo a farlo. Questo hobby di scrivere recensioni dei film che vedo a volte è una condanna, piacevole certo, ma impegnativa in alcuni casi, come questo. Ovviamente già sapevo del tema trattato, non molto ma ne sapevo, e avevo 2 timori: il primo era l'impatto emotivo che su di me avrebbe avuto, e questo se vogliamo era il minore dei mali, in fondo è quello che vado cercando nel Cinema; il secondo era la domanda "ma come faccio a sintetizzare una trama simile nella recensione?", e questo cruccio era il più pesante.

Pochi giorni fa l'amico Giovanni Pili, autore di un blog che per me è un punto di riferimento, mi ha di fatto risolto il problema, esentandomi dalla sintesi. Faccio il saprofita e invito a leggere il suo post, "Sacco, Vanzetti e Salsedo". Certo, non è brevissimo, ma è il minimo per onorare la storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (e Andrea Salsedo). Inoltre, sul canale youtube legato al blog, è disponibile la visione dell'intero film.

Posso allora occuparmi "solo" del film. Dico subito che è nel mio Olimpo personale, anche se ammetto che è dovuto a considerazioni puramente emozionali. Mi ha toccato, e perché ciò è avvenuto? Forse perché è molto ben fatto, secondo i miei gusti. In poco meno di due ore è riuscito ad illustrare ogni dettaglio della vicenda, quella di due "eroi per caso", i "terribili anarchici", erano un operaio in un calzaturificio (Sacco) e un pescivendolo ambulante (Vanzetti). Tutto avrebbero voluto tranne che essere arrestati o diventare famosi, solo che fu loro impossibile, durante il processo-farsa, calpestare la propria dignità, e la loro fiera appartenenza al movimento anarchico fu la loro condanna. 

Quando parlavo dei 2 timori, il primo era quello emotivo. E' stato piacevolmente confermato. La rabbia e l'indignazione che m'è montata per la storia è enorme, pur già conoscendola per sommi capi, solo che è la bellezza del Cinema, immagini e suoni che ti coinvolgono, ad averle suscitate con forza. Ai sentimenti previsti se ne sono aggiunti di imprevedibili, soprattutto un grande orgoglio, da italiano, nel vedere che non abbiamo esportato oltreoceano in quel periodo solo detestabili padrini.

Siamo davanti ad uno di quei grandi film impegnati che una volta in italia si riuscivano a produrre, spesso di grande qualità. Poca concessione alla retorica, meno ancora alla spettacolarizzazione e tanta sostanza, nelle parole e nelle immagini, chiare ed inequivocabili.

Ho citato la retorica, che non è una parolaccia, dipende certe frasi da chi arrivano e in che modi, se dal cretino-predicatore di turno alla tv o da 2 umili persone, oneste e pacifiste, condannate ingiustamente a morte. Quando Vanzetti prende la parola in tribunale dopo la sentenza definitiva della condanna capitale, dopo 7 anni di processi/appelli, ogni frase che afferma è da incorniciare! Anche se non è un capolavoro di oratoria, si parla di Senso della Vita, quello con le maiuscole, mica è la canzoncina di un vaschirossi qualsiasi. Sacco prima dell'esecuzione scrive una lettera al figlio ancora piccolo, gli dice tra le varie di dividere i suoi giochi con gli altri, una frase semplice e precisa, diretta, toccante. Mi sono calate lacrime pesanti.
(E' uno spoiler, allora il discorso di Vanzetti, che ho trovato in giro, l'ho scritto in fondo alla recensione)

Eccezionale l'interpretazione di Vanzetti da parte di un'icona di questo genere di film di quei felici anni, Gian Maria Volonté, ma stupirà quella di Sacco da parte di un attore molto meno noto, Riccardo Cucciolla, premiato quest'ultimo a Cannes.
Colonna sonora di Morricone con la canzone di Joan Baez "Here's to you", canzone ora famosissima e che sicuramente ha contribuito molto, l'artista americana, alla diffusione del film nel suo paese che solo nel 1977 ha completamente riabilitato i 2 anarchici italiani.

testo: "Here's to you, Nicola and Bart / Rest forever here in our hearts / The last and final moment is yours / That agony is your triumph".

Ancora, c'è la "Ballata di Sacco e Vanzetti", sempre di Joan Baez che come dice lei stessa, nel video che segue, ha preso il testo integralmente da una lettera di Vanzetti al padre. Meravigliosa.

testo: "Father, yes I am a prisoner;
Fear not to relay my crime.
The crime is loving the forsaken,
Only silence is shame.


And now I'll tell you what's against us,
An art that's lived for centuries...
Go through the world and you will find
What's blackened all of history.
Against us is the law with its
Immensity of strength and power
- Against us is the law!
Police know how to make a man
A guilty or an innocent.
- Against us is the power of police!
The shameless lies that men have told
Will ever more be paid in gold...
- Against us is the power of the gold!
Against us is the racial hatred
And the simple fact that we're poor.


My father dear, I am a prisoner.
Don't be ashamed to tell my crime,
The crime of love and brotherhood;
And only silence is shame.


With me I have my love, my innocence,
The workers and the poor
For all of this I'm safe and strong
And hope is mine!
Rebellion, revolution don't need dollars,
They need this instead :
Imagination, suffering, light and love
And care for every human being!
You never steal, you never kill,
You are a part of hope and life.
The revolution goes from man to man
And heart to heart!
And I sense when I look at the stars
That we are children of life;
Death is small..."

Per chiudere, foto di gente di cui andar fieri.
da sx: Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco

Andrea Salsedo

Il Famoso Discorso di Vanzetti in tribunale, nel 1927 quando il Giudice dice: Bartolomeo Vanzetti, avete qualcosa da dire prima che la condanna a morte sia resa esecutiva?

Risposta: Ho da dire che sono innocente. In tutta la mia vita non ho mai rubato, non ho mai ammazzato, non ho mai versato sangue umano, io. Ho combattuto per eliminare il delitto. Primo fra tutti: lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. E se c'è una ragione per la quale sono qui è questa, e nessun'altra.
Una frase, una frase signor Katzmann, mi torna sempre alla menate: "Lei, signor Vanzetti, è venuto qui nel paese di Bengodi per arricchire".
Una frase che mi dà allegria. Io non ho mai pensato di arricchire. Non è questa la ragione per cui sto soffrendo e pagando. Sto soffrendo e pagando perché sono anarchico... e me sun anarchic! Perché sono italiano... e io sono italiano. Ma sono così convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e io per due volte potessi rinascere, rivivrei per fare esattamente le stesse cose che ho fatto.
Nicola Sacco... il mio compagno Nicola! Sì, può darsi che a parlare io vada meglio di lui. Ma quante volte, quante volte, guardandolo, pensando a lui, a quest'uomo che voi giudicate ladro e assassino, e che ammazzerete... quando le sue ossa, signor Thayer, non saranno che polvere, e i vostri nomi, le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il suo nome, il nome di Nicola Sacco, sarà ancora vivo nel cuore della gente.
(Rivolgendosi a Sacco) Noi dobbiamo ringraziarli. Senza di loro noi saremmo morti come due poveri sfruttati.
(Rivolgendosi alla giuria) Un buon calzolaio, un bravo pescivendolo, e mai in tutta la nostra vita avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini. Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati!

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Alabama Monroe

Post n°12623 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

 
Locandina Alabama Monroe - Una storia d'amore

Elise è una tatuatrice che ha inciso sul corpo la propria storia, cancellando via via i nomi degli uomini che ha amato per coprirli con nuovi tatuaggi. Didier è un cantante di musicabluegrass che suona il banjo in un gruppetto belga innamorato del mito dell'America rurale. Quando si incontrano, è amore a prima vista e il riconoscersi reciproco di dueoutsider nel Belgio conformista e ordinato. Ad unirli indissolubilmente, oltre all'attrazione profonda, è l'amore per la musica. E per la prima volta nella loro vita Elise e Didier, che si credevano destinati alla precarietà dei sentimenti, decidono di impegnarsi fino in fondo, mettendo al mondo la figlia Maybelle. Ma anche il più eterno dei vincoli può essere reversibile, e i due innamorati lo scopriranno a proprie spese.
Felix Van Groeningen, il regista fiammingo di Alabama Monroe, sceglie inequivocabilmente la strada del melodramma e spinge la narrazione al di sopra delle righe, sia nel raccontare la storia d'amore assoluta e totalizzante fra i due protagonisti, sia nell'addentrarsi coraggiosamente nell'evoluzione tragica degli eventi. Perché come nelle canzoni bluegrass che Elise e Didier cantano insieme, il dolore va consumato fino in fondo, senza mai sottrarvisi. Alabama Monroe diventa dunque la storia di due esseri umani che maneggiano sentimenti forti e vivono fino all'estremo le proprie passioni, siano esse musicali, artistiche o sentimentali. Van Groeningen però ha l'accortezza di decostruire la narrazione in modo da inframmezzare il dolore del presente con il ricordo dolcissimo e straziante del passato, attraverso continui passaggi avanti e indietro nel tempo, fino alle ultime scene che invece procedono con la linearità inesorabile di una conclusione annunciata. Dunque vediamo Elise e Didier nei vari momenti della loro storia cogliendo l'intensità e l'immediatezza del loro rapporto tanto nella gioia quanto nel dolore. E riusciamo a gestire l'andamento melodrammatico grazie alle boccate d'ossigeno fornite dai momenti sereni ripercorsi dalla storia.
I due attori protagonisti diventano Elise e Didier con un livello di autenticità e identificazione raramente visti nel cinema recente. Johan Heldenbergh, che è anche autore della pièce teatrale da lui diretta in palcoscenico su cui si basa Alabama Monroe, interpreta Didier come una creatura primordiale con un'inesauribile energia vitale e una dirompente carica rabbiosa quando la vita gli riserva il suo lato più oscuro e le politiche degli uomini non fanno nulla per aiutarlo. Veerle Baetens, vincitrice dell'European film award per il ruolo di Elise, ha una recitazione epidermica perfettamente consona ad una donna che usa la propria pelle per esprimere ogni suo sentimento.
Pluripremiato in Europa e negli Stati Uniti, principale rivale de La grande bellezza ai premi Oscar, Alabama Monroe è un film quintessenzialmente europeo nell'impianto narrativo e nella recitazione (in fiammingo), ma ispirato alla cultura folk americana e agli stilemi del cinema indipendente d'oltreoceano. Il risultato non è un'ibridazione senza carattere ma, al contrario, una testimonianza di quanto le due culture cinematografiche possano rivelarsi profondamente complementari.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Indipendence day

Post n°12622 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Independence Day

Mancano pochi giorni alle celebrazioni del Giorno dell'Indipendenza, quando, improvvisamente, il cielo su Washington è oscurato da una gigantesca astronave extraterrestre. Il governo degli Stati Uniti e l'opinione pubblica si interrogano sulle intenzioni dei visitatori dividendosi tra un fronte ostile ed un'ala pacifista. Contemporaneamente, nell'etere viene captato un misterioso segnale: è, come scopre David Levison, un conto alla rovescia che annuncia un'aggressione senza precedenti contro la Terra. Il giovane presidente Thomas J. Whitmore riesce a salvarsi in extremis, ma la Casa Bianca è polverizzata. La città è bombardata e a nulla valgono le difese dei militari, bomba atomica compresa. La svolta avviene quando il pilota Steven Hiller cattura un alieno e lo trasporta al centro di ricerche "Area 51" dove è gelosamente custodito il disco volante di "Roswell" precipitato nel 1947. Hiller e Levinson si convincono che l'unico modo per evitare la catastrofe è trasmettere un virus nella rete informatica dell'astronave madre nemica. Il vecchio, ma ancora funzionante, disco volante sarà lo strumento della riscossa. Il 4 luglio l'umanità celebra la vittoria. Gli spettacolari effetti speciali rimediano alle ingenuità di un soggetto che, nelle linee essenziali, è molto simile a quello di un film in bianco e nero del 1956, La Terra contro i dischi volanti. Le sequenze della smisurata astronave che invade il cielo e ricopre la città, e la distruzione della Casa Bianca annunciano fin dall'inizio un film ricco di emozioni visive, e il riferimento al "Dossier Roswell" - con un'implicita nota polemica alla politica dei segreti di Stato - conferiscono un tono di attualità alla storia. Concepito come un super-kolossal, il racconto sacrifica necessariamente i personaggi presentandoli come stereotipi di eroi che entrano ed escono di scena come pedine sacrificate o vincenti di una battaglia impostata al più acceso fervore patriottico. Tra gli interpreti oltre ai due divi Goldblum (Levinson) e Smith (il capitano Hiller), figurano attori con lunga frequentazione del genere: Pullman (il presidente), Loggia (il comandante Grey) e Brent Spiner (il dottor Okun) già celebre androide Data di Star Trek - Generazioni, solo per citarne alcuni. Costato 70 milioni di dollari, realizzato con più di 3.000 effetti speciali, applaudito da Bill Clinton in persona, Independence Day ha riscosso un grande successo di pubblico ...e suscitato non poche critiche: critiche rivolte non tanto all'aspetto formale della pellicola (che pure ha fatto la gioia di qualche instancabile cacciatore di errori) quanto ai possibili sottintesi messaggi politici che racchiuderebbe. Uscito a cavallo del cinquantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale e in occasione della ricorrenza del 4 luglio, il film, secondo alcuni, glorifica la coesione e la forza del popolo americano in un momento in cui l'America è impegnata, dopo la guerra del Golfo, nella missione di gendarme del mondo. L'attacco a Washington - non a caso eletta a capitale della Terra - configurerebbe in un'ottica liberatoria lo scotto per gli errori del passato, dall'onta dell'atomica sul Giappone alla guerra in Corea e in Vietnam. Ma l'equivalenza tra vittoria e spirito di iniziativa del singolo individuo (non importa se pilota o scienziato, ma meglio ancora se presidente) ribadirebbe la validità di una mitologia di frontiera sulla quale sono cresciute e crescono generazioni di americani.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

12 anni schiavo

Post n°12621 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

 
Locandina 12 anni schiavo

Stati Uniti, 1841. Solomon Northup è un musicista nero e un uomo libero nello stato di New York. Ingannato da chi credeva amico, viene drogato e venduto come schiavo a un ricco proprietario del Sud agrario e schiavista. Strappato alla sua vita, alla moglie e ai suoi bambini, Solomon infila un incubo lungo dodici anni provando sulla propria pelle la crudeltà degli uomini e la tragedia della sua gente. A colpi di frusta e di padroni vigliaccamente deboli o dannatamente degeneri, Solomon avanzerà nel cuore oscuro della storia americana provando a restare vivo e a riprendersi il suo nome. In suo soccorso arriva Bass, abolizionista canadese, che metterà fine al suo incubo. Per il suo popolo ci vorranno ancora quattro anni, una guerra civile e il proclama di emancipazione di un presidente illuminato.
Da più di un anno il cinema americano prova a fare (veramente) i conti con la mostruosità della schiavitù, peccato originale della nazione che fa il paio col genocidio indiano. LincolnDjango Unchained e 12 anni schiavo sono opere diverse e discordanti, la cui prossimità sortisce letture maggiori ed è qualcosa di più di una coincidenza. Il soggetto, affrontato, aggredito, sfidato e condiviso, sottolinea la delicatezza di una vicenda storica lontana dall'essere assorbita nel Paese di Barack Obama. Se nel film di Steven Spielberg la figura e la condizione dello schiavo è nascosta tra discorsi, proroghe e mediazioni, in quelli di Quentin Tarantino e di Steve McQueen è un visione eversiva che sfida l'impero o lo subisce per dodici anni. Distinti nelle maniere, Django è loquace e carnevalesco, Solomon è greve e silente, l'uno abbraccia l'eroismo sonante, l'altro in sordina, uno castiga, l'altro attende, i protagonisti di Jamie Foxx e Chiwetel Ejiofor condividono nondimeno un'espressione decisiva e ambigua, un'eccezionalità. Django e Solomon sono nigger speciali, schiavi fuori dal comune che finiscono proprio per questa ragione per sfuggire al destino del loro popolo. Se Tarantino riscrive il passato e libera l'invenzione concretizzando un sogno che intercetta gli avvenimenti storici attraverso il piacere soggettivo, McQueen decide per la denuncia attraverso una rappresentazione esplicita, esibita, oscena, che mira evidentemente a risvegliare la coscienza intorpidita dello spettatore. 
Adattamento del romanzo omonimo e biografico di Solomon Northup, di cui il regista britannico contempla i dodici anni del titolo e affida alle didascalie conclusive la battaglia legale sostenuta e persa dall'autore contro gli uomini che lo hanno rapito e venduto, 12 anni schiavo corrisponde perfettamente l'ossessione di McQueen: lo svilimento progressivo del corpo sottomesso alla violenza del mondo. Dentro un affresco romanzesco e un infernale meccanismo kafkiano, un uomo dispera di ritrovare la propria libertà, rassegnandosi giorno dopo giorno alla schiavitù, sopportando torture fisiche e psicologiche sulla carne e nell'anima, che il padrone di turno vuole annullare. Come in Hunger e poi in Shame, che descrivono l'oppressione e l'isolamento, l'universo carcerario il primo, la dipendenza sessuale il secondo, in 12 anni schiavo la messa in scena si rivela virtuosa e discutibile, ostinata ad avanzare, a vedere e a sentire tutto. Indifferente al fuori campo e alla rinuncia ma fedele ai suoi 'motivi' (supplizio, assoggettamento, alienazione, agonia), McQueen ci (ri)propone percosse, fustigazioni, violazioni, torture che trovano in un piano sequenza infinito un compiacimento sadico ed estremo, appendendo il protagonista ad una corda e lasciandolo in equilibrio sulla punta dei piedi, disperatamente puntati per evitare il soffocamento. E nella 'durata' il regista ottiene il malessere dello spettatore a cui sbatte letteralmente in faccia la responsabilità di questa Storia. Senza cedere alla pietas e preferendo l'intimidazione. Il sovraccarico drammatico, l'addizione di orrori, la pesantezza dei corpi martirizzati dalla violenza e dai frequenti colpi di scena, che si appagano soltanto nei (malickiani) piani notturni e nelle stasi irreali della Louisiana, finiscono per essere l'argomento privilegiato della sua requisitoria e per trascurarne la dimensione sostanziale. Radicata nel fervore positivista, che forniva spiegazioni scientifiche allo schiavismo e produceva una classificazione barbara degli esseri umani, la schiavitù aveva un carattere istituzionale e rispondeva a bisogni economici precisi. Disporre di altri uomini per arricchirsi o per soddisfare perversioni e pulsioni era la deplorevole conseguenza. McQueen liquida la complessità del passato e di un sistema abominevole a favore della sua spettacolarizzazione e dei suoi effetti perversi, tutti incarnati dallo schiavista sadico e compulsivo di Michael Fassbender, interprete per la terza volta del pensiero ossessivo dell'autore.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

I Pooh si lasciano dopo 50 anni di successi da la stampa

Post n°12620 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

La loro storia si concluderà con una “reunion” con gli ex Stefano D’Orazio e Riccardo Fogli) e con due concerti evento a Milano e Roma nel 2016

La formazione storica dei Pooh

28/09/2015
DANIELA LANNI

È ufficiale. Dopo 50 anni di successi e canzoni memorabili i Pooh hanno deciso di sciogliersi definitivamente il prossimo anno. Il gruppo musicale, nato il 28 gennaio del 1966, celebre per aver scritto alcuni fra i più grandi successi discografici a 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Box Office, Inside Out ancora al primo posto

Post n°12619 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Box Office Italia
In Italia nessuna delle nuove entrate riesce a scalfire il dominio di Inside Out, che per la seconda settimana mantiene la prima posizione in scioltezza, perdendo solo il 7% rispetto allo scorso weekend. Il film Pixar arriva a quota 13 milioni e potrebbe avere la forza per superare i Minions (arrivati a 22 milioni e che hanno aggiunto altri 600mila euro al loro totale). Tutto dipenderà dalle prossime due settimane, ma la nostra sensazione è che il testa a testa potrebbe terminare 25 a 24 milioni per il film Pixar. Colossi dell'animazione a parte, parte bene Everest, che supera nettamente il milione di euro, mentre faticano parecchio Sicario e Magic Mike XXL. Partenze senza energia per The Green Inferno e The Transporter Legacy, mentre gli italiani reggono solo conTutte lo vogliono. La prossima settimana l'unico film di un certo spessore commerciale è Sopravvissuto - The Martian, ma Inside Out resta inscalfibile. 

Box Office USA
In America, nell'anno dei record, arriva anche quello per il miglior esordio di sempre per un film a settembre: lo stabilisce, battendo sè stesso, Hotel Transylvania 2, che 47.5 milioni migliora, anche se di poco, il dato del primo film. Buona partenza anche per Lo stagista inaspettato, mentre sembra essersi già sgonfiato Maze Runner - La fuga arrivato a 51 milioni di dollari. A metà classifica troviamo Everest e Black Mass, con dati buoni ma non eccezionali, mentre prossimi a salutare la top ten ci sono The Visit e War Room, che hanno fatto la felicità dei rispettivi produttori avendo incassato 52 e 55 milioni a fronte di spese di produzione di soli 5 e 3 milioni. In coda appare la new entry The Green Inferno e l'incredibile Sicario che viaggia con una media per sala di 30.000 dollari. La prossima settimana Sicario aumenta sensibilmente le sale a sua disposizione e arriva Sopravvissuto - The Martian di Ridley Scott

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Sale laziali che parteciperanno ai cinema days

Post n°12618 pubblicato il 28 Settembre 2015 da Ladridicinema
 
Tag: eventi

Lazio

 

CINEMA ETRUSCO

Via della Caserma, 32, Tarquinia VT

Scopri programmazione

 

UCI-CINEMAS PARCO LEONARDO

Via Gian Lorenzo Bernini, 20-22, 00054 Fiumicino RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ASTORIA

Via Giacomo Matteotti, 8, 00042 Anzio RM

Scopri programmazione

 

CINEMA MODERNO

Piazza della Pace, 5, 42 Anzio RM

Scopri programmazione

 

CINEMA MODERNO

Via Marconi, Bolsena, VT

Scopri programmazione

 

CINEMA FLORIDA

Via Ferretti, 103 – Civita Castellana, VT

Scopri programmazione

 

CINEMA EXCELSIOR

Via Cassia in Frazione la Botte, 277, 01019 Vetralla VT

Scopri programmazione

 

CINEMA POLITEAMA

Largo Augusto Panizza, 5, 00044 Frascati RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ARISTON

Piazza della Libertà, 19, 04024 Gaeta LT

Scopri programmazione

 

CINEMA CYNTHIANUM

Viale Giuseppe Mazzini, 6, Genzano di Roma RM

Scopri programmazione

 

CINEMA OXER

Via Mario Lauro Pietrosanti, 124, 04100 Latina LT

Scopri programmazione

 

CINEMA MANCINI

Via Giacomo Matteotti, 55, 15 Monterotondo RM

Scopri programmazione

 

CINELAND

Viale dei Romagnoli, 515, 00121 Lido di Ostia RM

Scopri programmazione

 

CINEMA FLORIDA

Piazza Guglielmo Marconi, 21, Soriano Nel Cimino VT

Scopri programmazione

 

CINEMA AUGUSTO

Via Torre di Nibbio, 04029 Sperlonga, LT

Scopri programmazione

 

CINEMA RIO MULTISALA

Via del Rio, 19, Terracina LT

Scopri programmazione

 

CINEMA TRENTO

Via Del Santuario, 51, 01100 Viterbo

Scopri programmazione

 

ROMA

 

CINEMA NUOVO SACHER

Largo Ascianghi, 1, 00192 Roma

Scopri programmazione

 

UCI CINEMAS MARCONI

Via Enrico Fermi, 161, Roma RM

Scopri programmazione

 

UCI CINEMAS PORTE DI ROMA

Centro Commerciale Porta di Roma, Via delle Vigne Nuove, Roma

Scopri programmazione

 

THE SPACE GUIDONIA

Via Antonio De Curtis, 00012 RM

Scopri programmazione

 

THE SPACE ROMA CENTRO

Piazza della Repubblica, Roma RM

Scopri programmazione

 

THE SPACE ROMA MAGLIANA

Viale Parco de Medici, 148, 148 Roma

Scopri programmazione

 

STARDUST VILLAGE

Via di Decima, 72, 00144 Roma

Scopri programmazione

 

STARPLEX 

Via della Lucchina, 90, 00135 Roma

Scopri programmazione

 

CINEMA ANDROMEDA

Via Mattia Battistini, 195, 00167 Roma

Scopri programmazione

 

CINEMA ADMIRAL

Piazza Verbano, 5, 199 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ADRIANO

Piazza Cavour, 22, 00193 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ALHAMBRA

Via Pier delle Vigne, 4, 165 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA AMBASSADE

Via Accademia degli Agiati, 57, 00147 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ANTARES

Viale Adriatico, 15, 00141 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ATLANTIC

Via Tuscolana, 745, 00174 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA BARBERINI

Piazza Barberini, 24/26, 00187 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA BRODWAY

Via dei Narcisi, 36, 172 Roma RM

Scopri programmazione

 

CINEMA DORIA

Via Andrea Doria, 52, 00192 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA EUROPA

Corso D’Italia, 107, 00198 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA FARNESE PERSOL

Piazza Campo de’ Fiori, 56, 00186 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA GALAXY

Via Pietro Maffi, 10, 168 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA INTRASTEVERE

Vicolo Moroni, 3, 00153 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA JOLLY

Via Giano della Bella, 4, 162 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA LUX

Via Massaciuccoli, 31, 00199 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ODEON

Piazza Stefano Jacini, 22, 00191 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA REALE

Piazza Sidney Sonnino, 9, Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ROYAL

Via Emanuele Filiberto, 175, 185 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA SAVOY

Via Bergamo, 25, 198 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA TIBUR

Via degli Etruschi, 36, 185 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA TRIANON

Via Muzio Scevola, 99, 00100 Roma, RM

Scopri programmazione

 

CINEMA ALCAZAR

Via Cardinale Merry del Val, 14, 153 Roma, RM

Scopri programmazion

 

EDEN MULTISALA

Piazza Cola di Rienzo, 74, 00192 Roma, RM

Scopri programmazione

 

ROXY MULTISALA

Via Luigi Luciani, 52, 00197 Roma, RM

 

Scopri programmazione

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

vogliamo il vero made in italy http://www.change.org/veromadeinitaly

Post n°12617 pubblicato il 27 Settembre 2015 da Ladridicinema

Ma secondo voi quando vi comprate un sugo pronto con su scritto "prodotto in Italia" o “Made in Italy”, dentro cosa c'è? Perché se è MADE IN ITALY vien da pensare che dentro ci siano pomodori italiani. E invece non è così! Perché per diventare Made in Italy, per la legge italiana, basta che la lavorazione sostanziale sia fatta in Italia. E "sostanziale", sostanzialmente, non vuol dire nulla! Abbiamo scoperto che potremmo comprarci un sugo pronto fatto con il 100% di pomodoro cinese, ma con su scritto “Made in Italy”. E visto che i controlli in dogana sono pochi e le leggi su metalli pesanti e fitofarmaci sono molto diverse tra i vari paesi del mondo, rischiamo di mangiarci una marea di schifezze senza neanche saperlo. Chiediamo che su TUTTI i prodotti alimentari inscatolati venga dichiarata la provenienza degli ingredienti, come si fa per l'olio extravergine di oliva e pochissimi altri alimenti inscatolati, per cui bisogna scrivere la provenienza: Italia, UE, extra UE. Poi sarà il consumatore a decidere. Vogliamo il VERO “Made in Italy”.
LETTERA A
Presidente del Consiglio Matteo Renzi
Ministero dell'Agricoltura Maurizio Martina
Ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi
Vogliamo il VERO "Made in Italy"

Ma secondo voi quando vi comprate un sugo pronto con su scritto "prodotto in Italia" o “Made in Italy”, dentro cosa c'è?

Perché se è MADE IN ITALY vien da pensare che dentro ci siano pomodori italiani. E invece non è così!

Perché per diventare Made in Italy, per la legge italiana, basta che la lavorazione sostanziale, sia fatta in Italia.

E "sostanziale", sostanzialmente non vuol dire nulla!

Abbiamo scoperto che potremmo comprarci un sugo pronto fatto con il 100% di pomodoro cinese, ma con su scritto “Made in Italy”.

E visto che i controlli in dogana sono pochi e le leggi su metalli pesanti e fitofarmaci sono molto diverse tra i vari paesi del mondo, rischiamo di mangiarci una marea di schifezze senza neanche saperlo.

Chiediamo che su TUTTI i prodotti alimentari inscatolati venga dichiarata la provenienza degli ingredienti, come si fa per l'olio extravergine di oliva e pochissimi altri alimenti inscatolati, per cui bisogna scrivere la provenienza: Italia, UE, extra UE.

Poi sarà il consumatore a decidere.

Vogliamo il VERO “Made in Italy”.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963