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Messaggi del 02/09/2014

 

Il dilemma morale su "I nostri ragazzi" da cinecittànews

Post n°11693 pubblicato il 02 Settembre 2014 da Ladridicinema
 

Michela Greco02/09/2014
VENEZIA - Buona accoglienza, al Lido, per I nostri ragazzi, il nuovo film di Ivano De Matteo presentato oggi alla stampa nella sezione Giornate degli Autori. Dopo la tragica storia di un uomo che sprofonda nell'indigenza e vede la sua famiglia sgretolarsi narrata con Gli equilibristi, De Matteo ha affrontato un altro dramma familiare, stavolta tratto da un romanzo. Partendo da La cena di Herman Koch, il regista ha messo in scena le dinamiche di due famiglie romane molto agiate, quella del cinico avvocato penalista Massimo e della moglie Sofia (Alessandro Gassman e Barbora Bobulova) e quella del pediatra impegnato, marito di Clara (Luigi Lo Cascio e Giovanna Mezzogiorno) e fratello di Massimo. Due coppie che rappresentano due visioni della vita alternative e che si confrontano una volta al mese per una tradizionale cena in un ristorante di lusso. I loro argomenti sono poco più che un rumore di fondo che riempie il vuoto di una frequentazione che sfida l'incompatibilità, finché non saranno costretti ad affrontare un dilemma morale: i loro figli, insieme, hanno commesso un crimine, e il dubbio è se coprirli o far loro affrontare le responsabilità del caso.

"E' un dramma familiare, che presenta un grosso conflitto fra le ragioni dei sentimenti, del cuore e dell'amore in contrapposizione alla morale, alla giustizia, alla coscienza", aveva detto all'Ansa De Matteo. "Più che giustificare o condannare i due ragazzi, mi interessava il dubbio etico e di giustizia con cui si confrontano i protagonisti, una provocazione da cui nessuno può sentirsi escluso - ha detto il regista  - in nessun ambiente sociale né luogo. Ciascuno può dare una risposta personale, i due fratelli e le due famiglie la dovranno dare e non sara' univoca. Certo in nessun caso potra' essere a cuor leggero. C'è tutto il dolore dentro, in qualunque modo reagiamo". Ambientato a Roma, tra i Parioli e Prati, I nostri ragazzi è prodotto daRodeo Drive con Rai Cinema, che fu artefice anche de Il capitale umano di Virzì, un film con cui ha molte parentele. 

 
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Gabriele Salvatores: "Cari politici, questa è l'Italia"

Post n°11692 pubblicato il 02 Settembre 2014 da Ladridicinema
 

Cristiana Paternò02/09/2014
Sarà in sala per un solo giorno, il 23 settembre, il film che raccoglie centinaia di filmati spontanei degli italiani presentato alla Mostra fuori concorso
VENEZIA – 627 italiani da 0 a 104 anni sono i protagonisti e gli autori di Italy in a day – Un giorno da italiani. E i titoli di coda li citano tutti, uno per uno. Film collettivo anche se con una forte impronta d’autore, quello che Gabriele Salvatores ha portato al Lido, fuori concorso, prodotto da Indiana Productions con Rai Cinema. L’idea arriva daRidley Scott, che ne aveva già fatto, con Life in a day, una versione internazionale: chiedere alle persone comuni di accendere telecamere, smartphone e telefonini sabato 26 ottobre 2013. All’appello hanno risposto in tantissimi: sono arrivati 44.197 video, oltre 2.200 ore di messaggi nella bottiglia. Un censimento delle emozioni a cui il regista premio Oscar, che domani riceverà a Venezia il Premio Bianchi del Sngci e mostrerà alcune immagini del nuovo film Il ragazzo invisibile, ha dato un ritmo e una direzione. Il risultato è un documentario a tratti divertente, a tratti commovente, che ritrae tanti momenti della giornata, dal risveglio al tramonto: momenti privatissimi e collettivi. Dalle manifestazioni di piazza all’incontro tra un figlio e l’anziana mamma malata di Alzheimer, dal medico che cura i bambini cardiopatici in Africa al testimone di giustizia che si è ribellato contro l’estorsione e vive segregato in casa a Palmi. Ci sono le nascite e la morte, una proposta di matrimonio e vari compleanni. Un uomo che non esce più di casa da quando sta in pensione e gli appassionati di parapendio. 

Su tutti “veglia” l’astronauta italiano Luca Parmitano che volteggia sulle nostre teste dallo spazio.
Sì, è un leit motiv del film insieme alla ragazza che tiene la testa sotto la coperta e al giovane che sta viaggiando nell’oceano su una nave carica di container. Anche quella è un’astronave. E dentro c'è la mia passione per il viaggio.

Cos’hanno di speciale queste immagini? 
Ci sono alcune riprese che non avrei potuto realizzare nella finzione. Come la mamma malata di Alzheimer che parla con il figlio, che si chiama Gabriele come me. Questa è la forza dell'esperimento, toccare la realtà delle cose. Ma non basta avere una macchina da presa per fare il regista, devi avere uno sguardo. Lo sguardo è il montaggio, è quella l’anima di un film. In un tempo come il nostro in cui le immagini riempiono tutti gli spazi, il montaggio fa la differenza. Per questo sono contento che oggi a Venezia venga premiata la più grande montatrice contemporanea, Thelma Schoonmaker. 

Cosa avete eliminato e perché? 
Le cose tecnicamente sbagliate e le cose finte, costruite. Mi aspettavo più trash, come si vede sui social network. Mi aspettavo più rabbia, invece ce n’è poca. E poi colpisce l’assenza totale dei ricchi. Forse è il sintomo di un paese in cui ognuno lotta per sé. 

È un’Italia segnata dalla crisi ma non sconfitta. 
Non è un’Italia che si piange addosso. C'è un'immagine di futuro. È un’Italia ferita e sofferente, però con dignità. Ci sono i tanti giovani costretti a emigrare all’estero. La crisi economica fa nascere dei demoni, delle paure e porta a stare attaccato al proprio orticello. Ma le persone non sono depresse. Semmai il rischio che corriamo è l’l'indifferenza, il chiudersi tutti nel proprio bunker antiatomico.

Italy in day è molto diverso dalla versione di Ridley Scott? 
Quello andava più nella direzione di Koyaanisqatsi, con un montaggio rapido, videoclipparo. Noi abbiamo cercato di stare legati alle storie delle persone piuttosto che agli effetti e alla spettacolarità. 

Le piace la definizione che ha dato qualcuno di selfie degli italiani? 
Non sono d'accordo. Qui non c'è la voglia di mostrarsi, ma quella di raccontare. Pensate che Ridley Scott ha ricevuto 15mila filmati da tutto il mondo, mentre noi ben 44mila. Allora o noi italiani siamo esibizionisti o abbiamo tanta voglia di raccontarci. 

Come avete coinvolto l'astronauta Luca Parmitano? 
Durante il lavoro di preparazione, in cui la produzione ha contattato le carceri e gli ospedali per avere le liberatorie, abbiamo sentito anche lui. Mi è piaciuto molto Gravity e volevo avere queste immagini dall’alto che ci ricordano quanto siamo piccoli. Ci sono 150 milioni di galassie, noi a paragone siamo pulviscolo, ma se ti avvicini alle persone le storie di ognuno sono fondamentali. 

Perché avete scelto proprio la data del 26 ottobre? 
Era un sabato, il sabato è un momento di pausa in cui c’è tempo di raccontare qualcosa di te. In un giorno feriale avremmo avuto più filmati sul mondo del lavoro. 

Non ci sono immagini girate da lei? 
No, per pudore. Anche il fatto che molti video si rivolgessero direttamente a me, mi ha fatto un po’ paura e ho scelto di non metterli. 

Cosa pensa della rete? 
Già in Nirvana nel ‘96 parlavo della rete, quando ancora nessuno sapeva bene di cosa si trattasse veramente. Allora avevo una grande fiducia in questa terra aperta, invece è diventato un supermercato. Nel web c’è una falsa libertà. Non credo nella democrazia diretta, non credo che il pubblico abbia sempre ragione e neppure che basti avere una chitarra per essere un musicista. 

Pensa che il film abbia qualcosa da dire anche ai politici? 
Sì, vorrei che qualche politico lo vedesse. Perché le persone chiedono la possibilità di una vita dignitosa ed è quello che dovrebbero fare i politici. Tutti abbiamo diritto alla felicità a livello sociale. Avevano ragione le femministe quando dicevano: vogliamo il pane ma anche le rose. Puoi risolvere il problema del PIL, ma se manca l’immaginazione, il desiderio di infinito per dirla con Martone, non serve... Desideriamo cose a volte necessarie ma anche troppo piccole. Bisogna desiderare di volare, altrimenti la vita diventa pura sopravvivenza. 

Come sarà distribuito il film? 
Uscirà nelle sale come evento martedì 23 settembre, con 01 Distribution, per essere poi messo in onda da Raitre in prima serata sabato 27 settembre. Stare solo un giorno in sala è una possibile immagine del futuro del cinema. Ci sono tanti pubblici e i ragazzi non guardano più la tv e neanche Sky, bisogna pensare delle alternative. 

Vorrebbe continuare questa ricerca? 
Sì, forse vorrei far raccontare l’Italia dagli stranieri.

 
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Davide Ferrario: il demone del progresso, dall’acciaio al nucleare

Post n°11691 pubblicato il 02 Settembre 2014 da Ladridicinema
 

 

Andrea Guglielmino02/09/2014
VENEZIA – “La zuppa del demonio” è il termine usato da Dino Buzzati in un commento al documentario industriale Il pianeta acciaio, del 1964, per descrivere le lavorazioni dell’altoforno.
Il demonio è il progresso, seducente e al contempo spaventoso. Oggi Davide Ferrario riprende l’espressione per titolare il suo documentario, Fuori Concorso a Venezia 71, interamente realizzato con materiali d’archivio. Bastano le immagini (anche di grande valore cinematografico, come una lunga panoramica dall'alto dell'interno dell'Italsider poi diventata Ilva) e i commenti originari o quelli successivi, fra gli altri, di Ermanno Rea e Giorgio Bocca, per raccontare un'epoca di fiducia nel progresso, con la corsa a lasciarsi alle spalle la guerra, la fame, puntando sull'industria. Dai Cinefiat ai documentari sulle diverse filosofie di Olivetti e delle aziende pubbliche. “Non è la prima volta che lo faccio – dice il regista – nel 1992 realizzai una serie televisiva in sei puntate, American Supermarket, che fu venduta in tutto il mondo. Si trattava del montaggio di filmati educativi, spot, documentari, promozionali, film di governo Usa degli anni ’40 e ’50: tutto senza una parola di commento, lasciando al montaggio e alla musica la costruzione del senso. Sono affascinato dalla retorica del discorso filmico originale: mi piace pensare che si possa prendere quel codice e orientarlo per fargli dire qualcosa di personale”. 

Come nasce l’idea del film? 

E’ merito di Sergio Toffetti, Direttore dell'Archivio Nazionale Cinema d'Impresa di Ivrea, che ha insistito perché dessi un’occhiata ai loro materiali. Così mi è venuta l’intuizione di raccontare la storia del progresso del Novecento, o meglio, dell’idea di progresso. 

Un bel mosaico di immagini, suoni e citazioni letterarie. L’idea che emerge è quella di una natura dalle risorse illimitate, senza alcuna preoccupazione per l’ambiente… 

Racconto un periodo, fino agli anni ’70, in cui quell’idea non esisteva. Come vedete ci sono scene del film in cui gettano carcasse di auto nel ‘mare nostrum’. Anche nei temi che ci facevano scrivere, l’idea di base era che la natura non fosse qualcosa di buono da rispettare, ma qualcosa di cattivo e pericoloso, da dominare. Oggi ovviamente non si può pensare all’industria senza considerare l’impatto ambientale. La preoccupazione di allora era, casomai, che le macchine potessero prendere il posto dell’uomo, e soppiantarlo nella sua funzione di lavoratore. Solo nei ’70, su cui il film si chiude, arriva la crisi dell’industria petrolifera e con essa i primi cenni di ambientalismo. 

L’utopia dello sviluppo senza limiti ha segnato un’intera generazione… 

Esattamente. Potevi essere di destra o di sinistra, ma si pensava che il progresso “avesse sempre ragione”, che fosse un bene in sé. L’Italia del dopoguerra ha interamente aderito a questo modo di ragionare. 

Ma cos’è, esattamente, il progresso? Un’idea oppure un contenitore da riempire con sfumature e varianti? All’inizio del film il progresso è “l’acciaio”. Alla fine il nucleare. 


Abbiamo voluto raccontare il Novecento, il secolo breve. Quello che ne emerge è la mutazione antropologica, quasi pasoliniana. Cambia il mondo. Ci siamo fermati dove c’era una cesura storica, ma il progresso è andato avanti entrando nell’era della digitalizzazione e dell’informatica. Se ci fa caso, ogni decennio ha il suo ‘look’, dall’acciaio al nucleare, ma dagli anni ’90, l’era della digitalizzazione e della virtualizzazione, il look non è cambiato. Sarebbe una pista interessante per una nuova ricerca. 

In cosa un film di montaggio è un film di Davide Ferrario? 

Per quanto mi riguarda non cambia nulla, il montaggio è cinema. Film di finzione o documentario, anche se si tratta di materiale altrui. L’importante è rispettare la natura del filmato originale, non usarlo per fargli dire altro. A almeno, se decidi di farlo, che sia chiaro che lo stai facendo. Per questo non ho voluto insistere su sfumature ironiche, anche quando si poteva. E’ anche un modo per ridare vita a materiale che rischia di diventare vecchio. Naturalmente è stato anche un lavoro di gruppo. Ad esempio nella ricerca del materiale. A volte ci metti un po’ anche a capire di cosa si tratti, come appunto in quella scena pazzesca delle macchine buttate nell’oceano. 

C’è anche un tributo ai lavoratori… 

I film che ho usato erano prodotti dalle aziende, c’è una retorica dell’epica imprenditoriale, col concetto di ‘impresa mondo’ che pretende di gestire la vita dei suoi dipendenti 24 ore su 24, dal lavoro allo svago. Ma si capisce che senza i lavoratori nulla sarebbe stato possibile. Le battaglie sindacali si facevano sulle retribuzioni e le condizioni di lavoro, ma il lavoro in quanto tale, opera realizzata, apparteneva a tutti. Questo senso comunitario oggi non esiste più, l’impersonalità dal lavoro moderno lo ha cancellato. 

Progetti per il futuro?

Ho in mente due nuovi film di finzione, ma prima realizzerò altri due progetti fuori formato. Uno su un balletto,Sexxx, creato da Matteo Levaggi per il Balletto Teatro di Torino, e un altro sullo scrittore, pittore e critico d'arte John Berger
 
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Saverio Costanzo, quando il cibo diventa horror

Post n°11690 pubblicato il 02 Settembre 2014 da Ladridicinema
 

Cristiana Paternò31/08/2014
In concorso a Venezia 'Hungry Hearts' con Alba Rohrwacher e Adam Driver, storia di una giovane coppia di genitori e dell'ossessione per il cibo
VENEZIA – Il quarto film di Saverio Costanzo è un’immersione verticale nei fantasmi e nelle ossessioni di una giovane coppia di fronte alla nascita di un figlio. Un bambino speciale, come pensa la mamma Mina (Alba Rohrwacher), convinta di doverlo proteggere dalla contaminazione del mondo, tenendolo lontano dai raggi del sole e nutrendolo solo con semi e verdure. Ma il padre Jude (Adam Driver), pur molto innamorato, inizia a dubitare di queste scelte e quando un medico, da cui è andato di nascosto, gli spiega che il neonato rischia gravi conseguenze per la malnutrizione, esplode una battaglia all’interno della coppia in cui viene coinvolta anche la madre di lui (Roberta Maxwell), pronta a tutto per "difendere" il nipote. Girato in gran parte ambienti claustrofobici con forti accenti da horror, Hungry Hearts trasporta la vicenda narrata nel romanzo diMarco Franzoso, Il bambino indaco (Einaudi), a cui il film si ispira, dall’Italia a New York, esasperandone la rarefazione e l’atmosfera da incubo. Applaudito dai giornalisti al Lido, dove è in concorso, il film uscirà in sala con 01 a gennaio 2015. 

Costanzo, cosa l’ha avvicinata a questa storia dopo "La solitudine dei numeri primi"? 
Ho letto il libro, che inizialmente mi ha respinto pur attraendomi. Un anno e mezzo dopo mi sono riavvicinato e ho iniziato a scrivere, cosciente del rischio di morbosità e della necessità di una drammaturgia forte. Ho provato a scrivere senza giudicare questi tre personaggi, la madre, il padre e la nonna, guardandoli con dolcezza. Attraverso di loro ho potuto osservare anche il mio ruolo di padre con minor senso critico e con maggior passione. È stato un film catartico anche per la mia storia personale. Ma tutto questo senza alcun ragionamento, in modo istintivo. 

Ha incontrato Marco Franzoso? 
Mai incontrato, ci siamo scritti solo dopo che ha visto il film. 

Perché ha spostato la vicenda a New York raccontando l’amore tra un’impiegata dell’ambasciata italiana e un ingegnere americano dal loro primo incontro casuale fino al matrimonio e alla maternità? 
Non è che volessi fare l'americano... Volevo mostrare l’isolamento totale del personaggio di Mina in una città violenta. Ho abitato io stesso a New York e provavo sentimenti molto simili, a volte era come combattere una battaglia. È una città che non si fa dimenticare, dove se hai i soldi tutto è facile, ma se hai meno mezzi tutto è complicato. 

Mentre le due figure femminili, materne, appaiono come fortemente disturbate, il padre sembra avere un maggiore equilibrio nel rapporto col piccolo. 
È un padre come oggi ce ne sono tanti, che collabora alla vita familiare e si occupa del bambino. Ed è un uomo innamorato – vorrei sottolineare che il film è una storia d'amore. Anche Mina ama, ma il suo è un amore che non riesce a contenere, anche la nonna è così… Il film racconta i due personaggi nello spazio in cui diventano genitori, cosa non facile. 

Non vede in Mina una persona disturbata, ai limiti della follia? 
Non ho mai pensato che Mina fosse pazza né che potesse fare del male al bambino, lei era il nostro eroe e dovevamo raccontarla fino in fondo. Verso la fine del film porta il bambino sulla spiaggia, per lei è un mettere i piedi per terra, l’inizio di un cambiamento, poi la vita interviene. 

Come ha scelto Adam Driver, che vedremo protagonista di "Star Wars Episode VII" accanto a Harrison Ford e nel nuovo film di Scorsese "Silence"? 
L’avevo visto in Girls e il nostro è stato un grande incontro. Lui ha un’idea della recitazione molto autentica. 

L’ossessione per il cibo è molto contemporanea  e condivisa da tante persone in varie forme, senza arrivare a quelle più estreme. 
Tutti noi non facciamo altro che domandarci che cosa mangiare. Forse sentiamo che il mondo fuori è tossico, ma questa è sociologia ed essendo sociologo di formazione vorrei evitare discorsi troppo generici. Quanto a me, mangio tutto e amo molto anche il Big Mac, devo dire che porto i miei figli una volta al mese da McDonald’s. 

Pensa che i vegani si sentiranno colpiti nel vivo? Che ci sarà qualche polemica? 
Uno psicologo recentemente invitava le mamme vegane ad essere compassionevoli verso le nonne che qualche volta danno un omogeneizzato di carne al bambino. Questo perché spesso chi fa scelte radicali diventa come sordo, si irrigidisce. La radicalità senza senso dell'umorismo, l’ideologia ferrea ha ucciso milioni di persone, bisogna anche avere cuore e amare se stessi. Ma questo film non è contro niente e nessuno. 

Ha rielaborato il personaggio della nonna, interpretata da Roberta Maxwell, vero?
 
Nel libro il personaggio della nonna era molto italiano, io l’ho un po’ indurito e reso più americano nella sceneggiatura, ma poi l’ho adattato a Roberta e l’ho di nuovo addolcito. Questa donna, che ha avuto un marito cacciatore, è scaltra, intelligente, e convinta di essere nel giusto. Forse è stata una madre poco sollecita e adesso si prende una rivincita sul nipote. 

Aveva qualche film di riferimento girando? 
No, se non un approccio spregiudicato alla Cassavetes: i suoi film erano azioni di ribellione a quel sistema che lo nutriva. Il film procede come se le scene fossero strappate, come se dicessi allo spettatore: hai visto abbastanza, ora andiamo avanti. 

Il film ha un budget relativamente ridotto e uno stile che lo può accomunare al cinema indipendente americano. 
È coprodotto da Wildside con Rai Cinema, ma essendo a basso budget, girato in quattro settimane, c’è stata maggiore elasticità da parte della Rai. Ho girato in 16 mm e continuerò il più possibile a usare la pellicola, è una linea seguita da alcuni registi, tra cui ad esempio Alice Rohrwacher. Sono stato l’operatore del film, non è il mio mestiere, ma questo mi ha permesso di trovare una maggiore autenticità e anche gli errori sono funzionali. 

Cosa pensa del cinema d’autore italiano? 
Amo le cose forti e devo dire sinceramente che tanta roba non mi piace, ma ci sono una decina di autori che seguo. La crisi, per quanto nefasta, ha aiutato a fare una selezione. Anche Hungry Hearts è frutto della crisi. Rimbocchiamoci le maniche. Fare un cinema libero è un privilegio ma ci si deve prendere la responsabilità e il cinema italiano spesso non lo fa. 

 
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Mario Martone: il mio Leopardi, un moderno ribelle

Post n°11689 pubblicato il 02 Settembre 2014 da Ladridicinema
 

Stefano Stefanutto Rosa01/09/2014
"Il giovane favoloso viene da un cantiere ottocentesco cominciato 10 anni fa e Noi credevamo ne ha segnato l’apertura", così il regista parla del terzo film italiano in Concorso con Elio Germano
VENEZIA. Mario Martone torna a indagare e rileggere il passato italiano, dopo le vicende del Risorgimento narrate nel precedente Noi credevamo, presentato in Concorso a Venezia 67, per attingere elementi utili a interpretare il presente. Con Il giovane favoloso - titolo ispirato dalla scrittrice Anna Maria Ortese in visita alla tomba di Giacomo Leopardi collocata nel Parco Vergiliano a Piedigrotta - affronta la contemporaneità della riflessione dell’intellettuale e poeta recanatese. Peraltro Martone già teatro aveva messo in scena il testo leopardiano "Operette morali", in tournée teatrale per tre anni, anche a New York e Parigi. 

Il film, terzo titolo italiano in Concorso, restituisce la forza e l’attualità dei testi e del pensiero di Leopardi ripercorrendo i momenti essenziali della vita del poeta e scrittore. A interpretarlo è Elio Germano impegnato in una prova non facile, quella di restituire innanzitutto quel corpo sofferente fin da giovanissimo, e poi il furore creativo, la depressione, la forza polemica, le fughe, gli abbandoni. Tutto nell’arco di una breve ma intensa esistenza che si dipana dalla ricca biblioteca paterna di Recanati, luogo di “studio matto e disperatissimo” e prigione da cui scappare, alla Napoli del colera e del Vesuvio. Una città dove, secondo il regista, Leopardi trova più facilmente conforto ed empatia, grazie anche alle cure dell’amico Antonio Ranieri (Michele Riondino), esule napoletano.
In mezzo ci sono alcuni ‘capitoli’ che rivelano il percorso esistenziale, creativo e culturale dell’artista: Firenze con la delusione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis) e Roma con il definitivo distacco dai parenti. Una vita tutta intrecciata con la scrittura e le sue opere, di cui il protagonista Elio Germano ci propone brani e versi, mentre il suo corpo sempre più sofferente si rattrappisce, si chiude in se stesso, insofferente del soffocante clima familiare e dei salotti conformisti. Un intellettuale profetico, preveggente in conflitto con i sostenitori delle ‘magnifiche sorti e progressive’.

Il film, in sala con 01 dal 16 ottobre, è costato 7 milioni e mezzo di cui circa due milioni messi a disposizione dagli imprenditori marchigiani. Nell'ottimo cast figurano anche: Valerio Binasco, Paolo Graziosi, Massimo Popolizio, Iaia Forte e Isabella Ragonese. 

Perché un film sulla vita di Leopardi?
Viene da un percorso lungo, da un cantiere cominciato 10 anni fa,  che non avrei mai pensato di aprire perché quel secolo da giovane non è che mi attraesse e invece il film Noi credevamo ha segnato l’apertura di questo cantiere ottocentesco. E sempre durante questo tempo la voce di Leopardi mi sosteneva, così ho messo in scena le "Operette morali" e sorprendentemente lo spettacolo ha avuto un grande riscontro di pubblico. Mi ha dato così il coraggio di affrontare la sfida del film, anche se combattuto visti i possibili rischi.

Come si è rapportato con i testi leopardiani?
Con Ippolita di Majo ho scritto la sceneggiatura utilizzando le lettere, le poesie, lo "Zibaldone", gli scritti giovanili, tutto ciò che c’è nel film, anche dal punto di vista drammaturgico, deriva dalle parole di Leopardi e da quelle che gli venivano rivolte. C’è poi questo intenso rapporto tra la scrittura e il corpo. Quello che lui scrive è tutto autobiografico, ha una temperatura non solo intellettuale, ma umana, vibratile, ribelle. Perciò i suoi testi nel film non sono uno sfondo letterario, ma fanno parte dell’azione del personaggio: quante volte le poesie come "L’infinito" o "Aspasia" sono state agite sul set.

Il suo film propone un Leopardi moderno, contemporaneo.
Leopardi sente da subito tutte le gabbie che nella vita di ciascuno si formano trascorsa la ‘fanciullezza’ - la famiglia, la scuola, il lavoro - e che si vivono venendo a patti, indossando le maschere di cui parla nelle “Operette morali”. Lui rompe queste gabbie, e ne paga il prezzo preferendo che la sua anima viva. Da lì la scrittura, il pensiero generati per rompere qualsiasi gabbia, anche quella della sua malattia. Per non parlare del rapporto con l’illusione amorosa, tutte sfide che la vita ti mette davanti e dunque le infelicità.

E Leopardi come si rapporta?
Spingendo verso la vita, trovando una chiave di senso alla propria esistenza. E quando non ha più niente da perdere, durante il soggiorno a Napoli, sente la vita con tanta forza. E allora per vedere questo film non c’è bisogno di leggere un suo verso o conoscere la storia italiana dell’800, ma di ‘anema e core’, è tutto lì.

La parte napoletana sembra quella più libera per Leopardi e anche per il regista?
Ho affrontato un percorso. La prima parte, “dentro dipinta gabbia”, è la casa affrescata e questa biblioteca borgesiana che diventa una prigione con questi libri monocromi verticali e questi mattoncini orizzontali tipici delle cittadine marchigiane, insomma questo insieme di libri e muri. Una prigione dove per la prima volta metto in scena una famiglia. Poi la parte morbida di Firenze e questo rapporto con l’amore, l’illusione e questa libertà che conquista dieci anni dopo, dove tutto è più libero, ma altre sono le ombre che appaiono. Poi la parte romana che mi sta molto a cuore. E poi Napoli dove Leopardi non ha niente da perdere e più il suo pensiero s'innalza più il suo corpo si rattrappisce. Entra in rapporto con la città, la natura, e questa famiglia stranissima, opposta a quella di Recanati, composta dalla sorella di Ranieri, il vecchio greco, il cuoco. E poi si finisce sotto il Vesuvio e lì è caso fino a un certo punto, c’è qualcosa di fatale nella sua vita. Insomma è un viaggio.

C’è chi ha visto un rapporto omosessuale tra il poeta e l’amico Ranieri. Lei come l’ha affrontato?
Con una scelta insieme estetica ed etica, cioè di stare a quello che le carte raccontano, siano esse di Leopardi o di altri che scrivono di lui. Non abbiamo sovrapposto interpretazioni, lasciando che le scene alludessero o lasciassero libero lo spettatore d’interpretare, perché Leopardi da solo bastava.

La figura dell'amico Antonio Ranieri ha parecchi detrattori, lei non è tra questi.
Ranieri viene considerato da alcuni un approfittatore. Io l’ho conosciuto in Noi credevamo perché, dopo la morte di Leopardi, diventa amico di Cristina di Belgioioso con la quale ha un’intensa corrispondenza e si rivela uomo solido, forte con un intenso spirito meridionalista. Ranieri viene poi criticato per avere scritto un libro, “Sette anni di sodalizio”, in cui parla per lo più della malattia del poeta e dell’assistenza fornita. Lo ritengo invece un aspetto importante perché la malattia fa parte della vita di Leopardi, non si capisce la sua scrittura se non a partire proprio dal suo corpo e dalla sua esperienza vitale. E ciò lo rende un autore così vicino a noi.

L’apparizione del femminiello napoletano nell’iniziazione sessuale di Leopardi è un fatto vero o inventato?
E’ l’unica scena che non ha a che fare con le carte leopardiane, ma è un’altra carta poetica di Enzo Moscato, “Partitura” dedicato a Leopardi a Napoli e immagina la scena in cui Ranieri conduce l’amico in questo lupanare dove avviene l’incontro con un ermafrodito. E’ l’unica libertà che mi sono concesso. Ci sono molte soglie nella sua vita che avrei potuto oltrepassare. La nostra decisione, mia e della sceneggiatrice, è stata di quella di non varcarle, di stare insieme allo spettatore. Ranieri raccontando il sodalizio con l’amico scrive “Leopardi è morto casto” e per tanti così mette fine a tutte le chiacchiere sulla loro amicizia. Chi lo può dire? Comunque non ha importanza. E’ importante mostrare queste soglie.

Che rapporto c’è tra questo film e il precedente Noi credevamo?
Tutto il film è guardato e raccontato storicamente con uno sguardo leopardiano con l’idea della caduta delle illusioni ideali, ma anche la forza vitale della spinta vitale che le alimentava. Insomma in tutti questi anni di cantiere ottocentesco la voce di Leopardi mi ha sempre accompagnato. Mi spingo a dire di più: oggi mi sembra che ho fatto tutti film leopardiani, mi sembra di avere lavorato tanto per arrivare a questo film.

Non crede che ci sia una vicinanza di Leopardi con la figura intellettuale di Pasolini?
E’ molto chiara la differenza tra i due, trovo invece simile la posizione di Leopardi in rapporto con la società culturale del suo tempo. Pasolini diceva di sé “io sono un tollerato”. Era mal sopportato perché non apparteneva a nessun coro, perché poteva dire qualcosa di non allineato a pensieri schierati in un senso o in un altro. E lo stesso accade a Leopardi che certo era considerato ma non rispondeva al bisogno di una società idealista di coloro che lottavano per l’Unità d’Italia. Del resto c’è uno suo sguardo feroce verso persone che hanno anche grandi meriti, ma Leopardi vedeva oltre. Oggi vediamo il risultato delle “magnifiche sorti progressive”: abbiamo tutte le macerie che le illusioni rivoluzionarie e idealiste hanno provocato. Allora non era possibile. Questo sfalsamento di Leopardi con il suo tempo gli ha provocato aspre critiche, anche dopo la sua morte.
 

 
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100+1 – Cinema e storia: nasce l’idea di ‘museo diffuso’ per l'audiovisivo

Post n°11688 pubblicato il 02 Settembre 2014 da Ladridicinema
 

Andrea Guglielmino01/09/2014
VENEZIA - Alla vigilia di una nuova stagione di "Cinema e Storia" promosso con la Regione Lazio, il progetto lanciato nel 2006 alle Giornate degli Autori da Fabio Ferzetti per riportare gli studenti in contatto con la nostra storia attraverso la diffusione del nostro cinema si arricchisce oggi di nuovi partner come la Cineteca Nazionale e di una nuova prospettiva internazionale sostenuta da Istituto Luce-Cinecittà insieme al Ministero degli Affari Esteri e alla Direzione Generale Cinema. Si è tenuto al Lido, all'Hotel Excelsior un incontro promosso da Giornate degli Autori, Regione Lazio, Istituto Luce Cinecittà, chairmen Roberto Barzanti e Roberto Cicutto e moderatori Fabio Ferzetti, Giuliana Gamba (Anac) e Giovanna Pugliese (Progetto ABC). 

A tracciare le linee di questa nuova fase è proprio Roberto Cicutto, ad di Istituto Luce – Cinecittà: “Uno dei punti importanti della mission di Luce Cinecittà è la preservazione della memoria audiovisiva italiana, ma non deve assumere odore di museo. I nostri sforzi sono tesi a dare a questo archivio un dinamismo che lo renda fruibile per ciò che è nella sua completezza: non solo la memoria storica del fascismo ma di tutta l’antropologia culturale italiana. Ciò che inizialmente era strumento di propaganda oggi segue il progredire della storia e del cinema, diventa viatico per la realizzazione e la distribuzione di opere prime e seconde. Ciò che è difficile è mettere insieme tante idee vincenti e importanti, ognuna delle quali però possa viaggiare da sola, grazie anche a vetrine importanti come Le Giornate degli Autori. L’insegnamento della cultura cinematografica può e deve andare avanti assieme a quello della storia. Ricordo quanto potessero essere noiose certe lezioni a scuola, ma poi le stesse cose che avevo imparato con tanta fatica prendevano anima, corpo e sangue quando magari le vedevo raccontate in un film. La mia idea, che spero non sia utopica, sta nel tentativo di trovare una ‘spina dorsale’ che sviluppi un progetto a cui si possa allacciare tutto ciò che possa ricostruire e far capire la storia della nostra nazione. L’Italia ha avuto la fortuna di costituire una memoria audiovisiva importante, anche se magari lo ha fatto in un momento buio della sua crescita. Ma non parlo solo del Luce: l’archivio dell’Atac, per fare un esempio, con i suoi 100 anni di storia del trasporto pubblico racconta più di Roma di quanto si possa leggere nei libri, e poi ci sono le Teche Rai. Pensiamo a una linea che da Aosta a Mazzara del Vallo attraverso immagini, nei luoghi che si ritengano opportuni allo scopo, racconti attraverso le immagini la storia del territorio, del suo rapporto con il cinema, le tradizioni culinarie, lo sviluppo industriale, come in una sorta di ‘museo diffuso’ che respiri senza chiudersi in sé. E ancora, la realizzazione di un portale a disposizione di tutti a cui rivolgersi per riscoprire la storia audiovisiva del paese, come abbiamo parzialmente fatto diffondendo su Internet migliaia di cinegiornali. Il punto di partenza sarà il centenario della Grande Guerra, che permetterà di sfruttare qualche aiuto economico. E credo fermamente che sia un format esportabile anche all’estero”. 

Su questo punto in particolare interviene Marco Tornetta, Consigliere per il Ministero degli Affari Esteri: “Per farci conoscere al meglio all’estero dobbiamo spiegare non solo chi siamo ma anche quello che eravamo. Ci sono valori universali che ci accomunano ai Turchi come ai Cinesi. La nostra realtà audiovisiva la dobbiamo far conoscere non solo agli stranieri ma anche ai 60 milioni di italiani che vivono e sono nati all’estero e che raddoppiano di fatto la nostra popolazione, e che hanno diritto di voto. Il cinema è un mezzo di comprensione immediato. Partiamo da un progetto di formazione degli insegnanti che dovranno interloquire con gli studenti, lo faremo a 360 gradi a livello mondiale. I lavori sono aperti, e sono in corso. Tra un paio d’anni ci reincontreremo per tirare le somme”. 

“Nel 2006 diffondemmo questionari nelle scuole per capire se i nostri studenti, circa il nostro cinema, erano così ignoranti come pensavamo – dice Ferzetti – e non era così: era peggio. Questo anche perché veniamo da 20 anni di desertificazione accanita della cultura in ogni campo. Si è lavorato sull’oblio e non sulla memoria. Bisogna dunque lavorare per rimettere queste memorie in circolo. La didattica non è una parolaccia ma bisogna trovare un nuovo linguaggio e nuove forme di comunicazione con i giovani che sono cresciuti in un mondo diverso dal nostro, soprattutto in rapporto all’immagine. Loro hanno costantemente in tasca una videocamera o un telefonino, noi no. Per noi il cinema era qualcosa che ‘si vedeva’. Loro dobbiamo spingerli anche a fare. Il nostro errore è stato, per un certo periodo, di non aver più considerato i giovani come interlocutori primari. Ci siamo chiusi nelle nostre rassegne, nei nostri festival, nei nostri giornali, facendo cose anche belle ma in un mondo che restava chiuso e privilegiato. Ora lavoriamo come traghettatori e traduttori”.

 
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Verdone: "Il mio lavoro? Un antidepressivo per il pubblico"

Post n°11687 pubblicato il 02 Settembre 2014 da Ladridicinema
 

Cristiana Paternò01/09/2014
VENEZIA - Carlo Verdone emozionato, quasi commosso, ma sempre ironico. Nel ricevere il Premio Bresson dalle mani del vescovo di Parma, Mons. Enrico Solmi, ricorda più volte suo padre Mario, grande critico di cinema: "Mi chiedo se merito questo premio: ci sono autori più profondi di me, più spirituali, la commedia ti limita anche se può succedere, a volte, che sia in grado di raccontare un dramma meglio di un film drammatico. Resta il fatto che assegnarmi questo riconoscimento - e lo posso dire anche a nome dei colleghi che come me fanno commedie - sia un gesto d'avanguardia". E quando sta quasi per andare via, assediato da tanti fans, aggiunge: "Il mio cinema è un antidepressivo per il pubblico. Vi ringrazio a nome di tutti quelli che fanno commedie, a volte ci sentiamo messi un po' da parte". 

E' un gran momento per lui. Ieri sera aveva ricevuto un doppio Premio Kineo come miglior film e miglior regista per Sotto una buona stella, ora arriva questo prestigioso riconoscimento che viene assegnato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e da La Rivista del Cinematografo, in accordo con il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali e il Pontificio Consiglio della Cultura, al regista che abbia dato una testimonianza significativa sulla ricerca del significato spirituale dell'esistenza. Un premio che, in 15 anni, è andato a maestri come Manoel de Oliveira e Wim Wenders. E fino ad ora solo a un altro italiano, Giuseppe Tornatore. Ma c'è di più, Verdone è il primo regista di commedia a cui viene assegnato. Quasi una rivoluzione. "Mio padre sarebbe stato davvero contento, perché penserebbe che suo figlio ce l'ha fatta. Questo è un riconoscimento enorme, che dedico con tutto il mio cuore a lui, uomo che ci ha spinto a studiare, a conoscere il bello". E proprio ripensando al padre, svela un buffo retroscena, quasi una premonizione: "Stiamo ancora mettendo a posto la sua enorme biblioteca, trasferita nella casa di campagna, qualcosa come 18.000 volumi divisi per argomenti e autori... Qualche settimana fa, insieme a mio figlio e a mio fratello Luca, ci troviamo di fronte alla sezione del cinema francese. Dopo un po' arriviamo ai volumi su Bresson, talmente tanti, una sessantina, che mi lascio andare a una sciagurata frase: 'Luca, buttiamoli 'sti Bresson, so' talmente tanti'. E lui, 'Non si può! Li ha scritti papà!' Ecco, dopo un paio di giorni mi chiamano per dirmi che ho vinto proprio il premio intitolato a Bresson. Allora ho pensato che era rimasto contento...". 

E' proprio il suo amore per la famiglia, di cui mostra spesso le difficoltà contemporanee, ad aver colpito i promotori del premio. Così il vescovo di Parma "rilegge" il regista alla luce del suo libro autobiografico "La casa sopra i portici", mentre don Ivan Maffeis, il direttore della Rivista del Cinematografo, aggiunge: "Ci ha fatto capire che un benessere fine a se stesso è inutile". Per il presidente della Biennale, Paolo Baratta, Verdone è "interprete del proprio paese", per il direttore della Mostra Alberto Barbera, "un uomo che pur godendo di un enorme popolarità non ha mai ceduto agli effetti negativi della fama, rimanendo sempre affabile e disponibile". Barbera racconta che voleva Verdone in giuria già due anni fa: "Gli avevamo proposto di farne parte, ma aveva declinato perché era sul set di Paolo Sorrentino con La grande bellezza".

Verdone dedica il premio a papà Mario, ma anche a Sergio Leone - "un uomo che mi ha capito, senza di lui non sarei qui" - al regista Franco Rossetti - "il primo a prendermi come assistente alla regia, dopo il Centro Sperimentale avevo avuto tante porte in faccia..." - a Felice Colaiacomo di Medusa "che tirò fuori i soldi per Un sacco bello". Del padre, che fu suo professore all'università, racconta di quella volta che lo bocciò. "Mi interrogò su Pabst anche se sapeva che avevo preparato Fellini". Sul suo prossimo film non si sbilancia: "Ho già un'idea sul nuovo progetto, di sicuro vorrei fare un'opera corale, perché ho un'età in cui è importante confrontarsi con i giovani, e parlerò di un argomento che nessuno ha ancora trattato. Ma prima di tutto aspetto di sapere se il mio produttore è veramente convinto, perché altrimenti nasce sempre qualche difficoltà sul set". Infine qualche spunto sul suo lavoro di giurato a Venezia 71. Tra i film italiani c'è qualcosa che l'ha convinto. "Ma devo ancora vedere il film di Martone e tanti altri film. Il bello è che andando avanti scopri un film che è più importante di quello che hai visto e 'scavalla', magari tutti sono d'accordo su uno e improvvisamente arriva come outsider e bam! Ci ricambia le idee... Questo è il divertente, però anche il delicato, quindi bisogna ragionare con molta ponderatezza, perché dobbiamo aiutare il talento vero. Gli autori hanno lavorato tanto, bisogna fare le cose bene o perlomeno onestamente". Più in generale sul lavoro e l'atmosfera in giuria, dice che "è un ruolo molto molto duro, perché la giuria è inflessibile, ognuno ha le proprie idee e le porta avanti, però è anche interessante ascoltare i pareri di chi è in disaccordo con te perché ti aiuta ad aprire un po' la mente, o riflettere su una critica dell'opera che stai vedendo: forse ti era sfuggita una cosa, e quello te la fa notare, oppure sta dicendo una sciocchezza e allora tu controbatti. Insomma questo contraddittorio è molto positivo, però è una giuria molto intellettuale e sarà molto difficile, anche se alla fine arriveremo, per forza di cose, a scegliere sicuramente il miglior film, i migliori talenti".

 
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Suha Arraf: "Il mio film apolide, odiato dagli israeliani"

Post n°11686 pubblicato il 02 Settembre 2014 da Ladridicinema
 

Ilaria Ravarino01/09/2014
Villa Touma, alla Settimana della Critica, è un film senza patria, anche se le patrie che se lo contendono sono due: Israele e Palestina
VENEZIA - "Nazionalità": nessuna. La prima particolarità diVilla Touma, alla Settimana della Critica a Venezia, è il suo essere apolide. Un film senza patria, anche se le patrie che se lo contendono sono due: Israele e Palestina. Girato dalla palestinese Suha Arraf con fondi israeliani (e non solo),Villa Touma ha fatto parlare di sé prima ancora di arrivare a Venezia, per via della decisione di Israele di ritirare i propri finanziamenti da un film ufficialmente presentato come "palestinese". Ma la querelle sulla sua appartenenza geografica - dettaglio, in questo caso, non da poco - non è l'unico motivo di interesse per un dramma che esplora, attraverso la storia di tre sorelle volontariamente rinchiuse nella gabbia dorata della loro villa, un mondo molto poco conosciuto: quello dell'alta borghesia cristiana di Ramallah. Abbiamo intervistato l'autrice. 

Da dove arriva l'idea del soggetto? 

Un giorno, quando ancora lavoravo come giornalista, sono andata a Ramallah per fare un reportage. Mi hanno consigliato di visitare il Ramallah Hotel, un piccolo albergo chiuso nel 1967, e quando ci sono entrata è stato come attivare una macchina del tempo. C'erano mobili antichi, candele dappertutto, silenzio. Mi ha accolto una signora dai grandi occhi verdi, che aveva gestito per tanto tempo l'albergo. La chiacchierata con lei è stata la scintilla che ha fatto partire il film. 

Come sarà distribuito il film? 
Non so se avrà una premiere a Ramallah. Non ce l'avrà a a Gaza, non è il momento giusto. Là hanno bisogno di cibo, di cose basilari, non di film. Vorrei farlo vedere in giro per piccoli villaggi e campi profughi, magari con una cinemobile, un furgone... 

Israele rivuole indietro i soldi del suo film. Che ne pensa? 
Ci sono un milione e mezzo di palestinesi che vivono in Israele, non c'è solo Gaza. E noi paghiamo le tasse a Israele, siamo il 20% della popolazione. Ho regolarmente fatto richiesta per accedere ai fondi, mi hanno selezionata, sono stata presa a Venezia e a Toronto. Solo che, dopo Gaza, l'immagine di Israele si è talmente rovinata che hanno pensato di usarmi per la loro propaganda. L'ho appreso dalla stampa, che avevo realizzato un film israeliano. Nessuno me l'aveva detto. 

E lei come ha reagito? 
Io dico: portatemi a processo. Dicono che ho rubato i soldi di Israele, ma vogliono solo usarmi. È un linciaggio mediatico. Tre volte al giorno finisco nelle news. Io dico: il contratto l'ho rispettato. Non c'è scritto da nessuna parte che il film è israeliano. Io sono palestinese e il film appartiene all'artista, non a uno Stato. Questo film è fatto con soldi israeliani ma anche tedeschi, americani e di privati. È una storia palestinese recitata da palestinesi, girata da una palestinese in lingua araba... ma stiamo scherzando? 

Non poteva fare a meno dei soldi israeliani? 
Ci ho provato. Ho girato per tutta l'Europa, e cosa mi rispondevano i produttori? Che la storia dei cristiani non era interessante, che non vedevano il "conflitto". I checkpoint, gli spari, i cadaveri. Ho lottato cinque anni per realizzare il film. 

Quello che è successo a Gaza come si riflette sulla sua vita? 

Oggi ogni palestinese che vive in Israele è diventato un obiettivo politico. Non posso parlare arabo a Tel Aviv senza essere insultata, gli studenti vengono picchiati, 700 persone sono state arrestate per aver manifestato contro la guerra e tanti hanno perso il lavoro solo per aver pubblicato su Facebook le loro idee. 

Ha paura? 
Sì. Ho dovuto cambiare il numero di cellulare, chiudere la pagina Facebook. Mi dicevano "araba del cazzo, vattene a Gaza". Dei gruppi fascisti hanno preso le mie foto su Facebook e le hanno usate per far girare una specie di taglia su di me. Ma per fortuna le cose stanno cambiando. Ci sono tre petizioni per difendere il mio diritto a chiamare il mio film palestinese. E una di queste è stata firmata anche da un centinaio di artisti israeliani. 

Ha mai pensato di lasciare il suo paese? 
No. Perché per me fare film nel mio paese è una lotta. Una lotta per l'identità, per i miei diritti, per la mia cittadinanza. E continuerò a farlo. 
   

 
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