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Messaggi del 12/07/2015

 

Un remake per La dolce vita di Fellini da ansa

Post n°12455 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Casa di produzione italo-americana ha comprato i diritti

Ora anche un mostro sacro come Federico Fellini e un film iconico come la Dolce Vita saranno assoggettati alla dura legge hollywoodiana del remake. La casa di produzione italo-americana Ambi Group ha comprato i diritti de La Dolce Vita dagli eredi di Federico Fellini e presto ne produrrà un remake. I fondatori di Ambi group, Andrea Iervolino e Monika Bacardi, scrive Hollywood Reporter, hanno in mente una versione moderna della storia raccontata dal regista romagnolo e dai protagonisti Marcello Mastroianni e Anika Ekberg, scomparsa di recente proprio a Roma all'età di 83 anni.

Nella produzione saranno affiancati da Daniele Di Lorenzo. Francesca Fellini, nipote del regista, è stata contattata diverse volte negli ultimi anni, ma ha sempre rifiutato offerte simili. "Daniele, Andrea e Monika hanno un progetto bellissimo e, considerando il loro patrimonio culturale italiano, la loro profonda approvazione e comprensione del lavoro di mio zio, credo siano i più adatti a questo ruolo", ha spiegato l'erede in un comunicato. Di Lorenzo, scrive sempre Hollywood Reporter, produrrà tramite la sua Ldm Productions mentre la Ambi si occuperà anche della distribuzione mondiale del film. "La nostra visione è quella di una storia contemporanea iconica e meritevole di premi proprio come l'originale", ha aggiunto Iervolino in un comunicato.

Di premi internazionali, La Dolce Vita ne aveva vinti due: la Palma d'Oro a Cannes nel 1960 e un Oscar per i costumi. "Marcello, come here!". Una frase celebre, un luogo immortale, la Fontana di Trevi, un'attrice, Anika Ekberg diventata un'icona. Questo e tanto altro è la Dolce Vita di Federico Fellini, l'emblema di un'epoca che di cui registi, attori, produttori cinematografici del mondo intero, Hollywood compresa, non hanno più potuto fare a meno. Difficile, difficilissimo, immaginare chi possa raccogliere dietro e davanti la macchina da presa, un'eredità così tanto complessa già entrata nel mito.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
 
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Addio a Omar Sharif da cinecittùnews

Post n°12454 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: news

Ang10/07/2015
E' morto l'attore egiziano Omar Sharif, straordinario interprete al cinema di Lawrence di Arabia e del Dottor Zivago. Aveva 83 anni. Steve Kenis, il suo agente, ha detto alla Bbc che l'attore "ha avuto un attacco di cuore questo pomeriggio in un ospedale del Cairo". Sharif era nato ad Alessandria d'Egitto il 10 aprile del 1932 e aveva vinto due Golden Globe per Lawrence d'Arabia, film per il quale aveva anche ricevuto una candidatura all'Oscar, e un altro per Il Dottor ZivagoSempre secondo quanto riferisce Kenis, gli era stato diagnosticato il morbo di Alzheimer all'inizio di quest'anno.

Sharif (il cui vero nome era Michel Dimitri Shalhoub), figlio di genitori libanesi, era nato ad Alessandria d'Egitto. Diplomato all'inglese Victoria College, laureato in matematica e fisica al Cairo, scoprì il cinema quasi per caso nel 1953 grazie al regista Youssef Chahine, che lo scelse per Lotta sul fiume. In otto anni interpretò oltre 20 film in Egitto, tra cui La castellana del Libano e I giorni dell'amore che vennero distribuiti anche in Italia; per sposare l'attrice Faten Hamama si convertì all'Islam e scelse il nome che lo accompagnerà per la vita, Omar El Sharif. 

Così si presentò a David Lean che stava scegliendo il cast per Lawrence d'Arabia nel 1961: Lean gli affidò il ruolo dello Sceriffo Alì, tra Peter O'Toole, Anthony Quinn e altri grandi nomi del cinema anglosassone. La nomination all'Oscar del '63 fu la naturale conseguenza e gli aprì le porte di Hollywood. In Italia prestò il suo fascino esotico a film come La caduta dell'impero romano, Marco Polo Gengis Khan. Poi Lean lo travestì da russo per l'adattamento del Dottor Zivago (1965). 

Il successo fu planetario, accompagnato da un Golden Globe che a sorpresa non andò di pari passo con la candidatura all'Oscar. Tra le sue successive interpretazioni vanno ricordate C'era una volta di Francesco Rosi, La notte dei generali di Anatole Litvak e Funny Girl a fianco di Barbra Streisand, della quale si innamorò subito. Nell'immaginario collettivo ha incarnato la figura di un uomo ricco, bello, famoso, adorato dalle masse e conteso dalle donne più affascinanti del pianeta. 

Oltre al francese e all'inglese imparò l'italiano, il greco e il turco. Appassionato di bridge, su cui ha pubblicato anche un manuale, era entrato nella lista dei 'top players' del gioco. "Finisci a fare una vita - ha raccontato nella sua autobiografia - in totale solitudine: alberghi, valigie, cene senza nessuno che ti metta in discussione. L'attrazione del tavolo verde per me diventò irresistibile. E ci ho sperperato delle fortune. A un certo momento ho capito e ho deciso di smettere anche con il bridge per non sentirmi prigioniero delle mie passioni. Facevo film per pagare debiti - ricorda ancora - e alla fine mi sono stufato". Nel 2005 era stato oggetto di una fatwa in occasione della sua interpretazione di San Pietro in una fiction italiana. Dopo la quale Sharif ha deciso di tornare a vivere in Egitto insieme al suo unico figlio, Tarek, e i suoi due nipoti, di cui uno - che si chiama come lui - è a sua volta attore. 

 
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Santo, un giornalista “cane da guardia” della democrazia da articolo21

Post n°12453 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

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Non mi ero reso conto della gravità della malattia di Santo. Non ero presente all’ultima festa di Articolo 21, gli amici mi hanno detto che vi aveva partecipato con la solita carica nonostante i segni della sofferenza. La sua andata ci ha colpito profondamente perché inaspettata. Il dolore per me è doppio, mancano: una telefonata, un incontro, una parola di conforto per Teresa. Ci siamo conosciuti a Torino agli inizi degli anni Ottanta, in Rai non ci siamo professionalmente incrociati: lui al tg io alle reti. La lotta per il diritto di informare e di essere informati, dopo l’editto bulgaro, ci ha fatti rincontrare e l’associazione Articolo 21 ci ha uniti. Quanti dibattiti su e giù per l’Italia.

Che Santo sia stato grande e che lascia un vuoto lo dimostrano le tante e tante testimonianze che in questi giorni sono arrivate direttamente alla famiglia e al sito di Articolo 21. Lui era un giornalista vero, in un mondo di mezze tacche, era un “cane da guardia della democrazia”, tra tanti, troppi “cani da guardia del padrone”, soprattutto dopo l’avvento di Berlusconi e il berlusconismo. So bene che in questi momenti bisognerebbe mettere da parte le polemiche, ma ricordandolo non riesco, Santo Della Volpe è stato un giornalista dalla schiena dritta, mai prima donna, mai solo a parole sempre con i fatti. Don Ciotti aveva visto giusto: solo lui sarebbe stato in grado di sostituire Roberto Morrione aLibera Informazione. Così è stato. Qualche mese fa era diventato presidente della Federazione nazionale della stampa, impegno affrontato con la solita carica e competenza. Eravamo in disaccordo, lui convinto che ci fosse spazio per cambiare non solo la Fnsi ma anche l’Ordine dei giornalisti, io convinto che la deriva è inevitabile. Una categoria che di fronte alla violenza inaudita dell’editto bulgaro nei confronti di Biagi, Santoro, Luttazzi e delle relative redazioni, non è riuscita a creare uno sciopero, una protesta. La verità sta nei fatti: se la categoria fosse stata unita e avesse realmente combattuto il berlusconismo e non solo, non ci sarebbe stata la necessità di fondare Articolo 21 e altre associazioni.  L’ultima volta che ho sentito Santo abbiamo parlato della riforma della Rai e del tentativo dei partiti di non mollare l’osso nonostante le promesse di Renzi.

Di lui ho recentemente parlato in un dibattito dedicato proprio alla riforma della legge Gasparri. La proposta, che è in discussione in commissione al Senato, prevede che nel nuovo cda della Rai un consigliere rappresenti i lavoratori dell’azienda, Santo Della Volpe sarebbe stato perfetto: conosceva la Rai come nessun altro, professionalmente ineccepibile, indipendente dai partiti, amato da tutti noi e soprattutto un uomo perbene.

11 luglio 2015

 
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Noi e la Giulia

Post n°12452 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Noi e la Giulia

Diego è un venditore di auto senza più la capacità di costernarsi, Claudio l'ex gestore di una gastronomia che ha chiuso i battenti, Fausto un piazzista televisivo inseguito dai creditori. Li accomuna il sogno di cambiare vita e un identico piano B: aprire un agriturismo - la versione per quarantenni del chiringuito ai tropici. I tre uniscono le forze per completare l'acquisto dell'immobile giusto ma devono subito affrontare mille problemi pratici, da un bagno intasato ai camorristi locali che esigono il pizzo. Nella loro avventura verranno coinvolti anche Sergio, un veterocomunista fermo al '68, ed Elisa, incinta e fuori di testa.
Basandosi sul romanzo "Giulia 1300 e altri miracoli" di Fabio Bartolomei, Edoardo Leo prosegue il suo percorso di regista-autore (oltre che di interprete) e soprattutto di cantore dei nostri tempi precari e disillusi. Chi un giorno vorrà ricordare quest'epoca dovrà confrontarsi con la sua filmografia, tanto dietro quanto davanti la cinepresa. Questa volta però il racconto è meno a fuoco di La mossa del pinguino e meno spassoso di Smetto quando voglio (per ricordare due dei film recenti che lo vedono coinvolto e il cui successo si intende bissare).
Noi e la Giulia fatica ad acquisire un suo ritmo comico, complice anche un cast che funziona individualmente ma non coralmente: Leo è centrato nel ruolo del coatto fascistone, Anna Foglietta efficace nei panni (insufficienti a coprire il pancione) della sbullonata di buon cuore e Luca Argentero recupera finalmente il suo accento torinese, che lo fa uscire dalla trappola della dizione asettica di tante sue interpretazioni precedenti. Ma viene a mancare, per chi guarda, il lavoro di squadra, quell'alchimia fatta di improvvisazioni e non sequitur che vanno da sempre ad arricchire il filone della commedia all'italiana, in particolare quella alla I soliti ignoti, in cui un gruppetto di sfigati unisce le forze per fare il colpo del secolo e invece si caccia nei guai. 
Per parafrasare una battuta del film, a Noi e la Giulia mancano le armi giuste per sfondare: battute al vetriolo, interazioni veloci fra attori troppo diversi per funzionare all'unisono, svolte narrative deliranti. Ed è un vero peccato, sia perché il percorso autoriale di Leo merita grande attenzione, sia perché la nota giusta del racconto viene toccata in una scena, ma solo una: quella in cui i membri del gruppo fanno outing dichiarandosi falliti, e si riprendendo il diritto di rivendicare il fallimento come qualcosa non di cui vergognarsi, ma su cui al contrario costruire. 
Anche la regia di Leo fa passi avanti, azzardando angolazioni di ripresa originali, giochi di sovrapposizioni e ralenti. Ma, forse a causa del forte condizionamento produttivo che la IIF di Fulvio Lucisano impone ai suoi prodotti, Leo privilegia la macchina narrativa, mostrandone troppo scopertamente gli ingranaggi, alla scelta di momenti che da soli raccontano una storia. E il cinema si nutre di quegli istanti di rivelazione, di cui Leo è perfettamente capace, se lasciato a briglia sciolta.

 
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Jurassic World

Post n°12451 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Sono trascorsi 22 anni dagli eventi di Jurassic Park e dall'incidente occorso allora, durante i quali a Isla Nublar, al largo di Costarica, si è sviluppato il progetto di John Hammond. Il parco dei divertimenti con i dinosauri come attrazioni è ora una realtà che attira orde di visitatori, ma il management della Masrani Corporation non si accontenta. Consapevole che il suo pubblico chiede sempre di più, il CEO Simon Masrani finanzia un progetto che prevede la generazione, attraverso incroci genetici, di una nuova specie di dinosauro, mai esistita prima. Il suo nome è Indominus rex, la sua caratteristica principale quella di unire la ferocia delle lucertole carnivore e un'intelligenza molto più sviluppata. Ma qualcosa sfugge al controllo dei gestori del parco e Indominus rex diventa una minaccia letale per i 20 mila visitatori di Jurassic World.
Le porte del parco si spalancano e provano a realizzare il sogno incompiuto di 22 anni prima, oltre a cercare di rivitalizzare un franchise dato per disperso nella babele di blockbuster odierni. Assumendosi diversi rischi: dopo tutto questo tempo saranno ancora cool i dinosauri? Faranno ancora paura?
Lo sforzo profuso da Amblin Entertainment e Legendary Pictures in termini di marketing è massiccio e fa leva sull'incrollabile fascinazione dei più piccoli per le lucertole giganti. Ma il semi-carneade Colin Trevorrow prova a ragionare su più livelli: se da un lato si rivolge ai ragazzini e alla realizzazione dei loro sogni - inutile negare l'effetto disneyano-horror della sequenza del mosasauro che divora lo squalo - dall'altro prova a imbastire una metafora sullo scontro generazionale tra verità e finzione, analogico e digitale, natura ed esperimenti genetici. Con la paradossale, ma non inconsueta, predilezione per la purezza del passato, in un film tecnologicamente spinto a velocità folle verso il futuro, con un 3D abbondante e una CGI invasiva, benché competente. Al di là della semplicità allegorica e del fatto che il saccheggio nei confronti del Godzilla di Edwards e dello scontro da kaiju eiga tra lucertolone e M.U.T.O. pare evidente, la competizione per ristabilire chi sia il predatore alfa e chi sia in cima alla catena alimentare convince e guida un epilogo trascinante. Che ha l'ulteriore merito di avvalersi di un elemento "dormiente" del plot, trasformato in risolutivo deus ex machina.
Il risultato, tutt'altro che ovvio, accontenta piccoli fan (irresistibile l'attrazione delle girosfere), animalisti, evoluzionisti e semplici nostalgici. Merito anche di buone scelte di casting, tali da correggere storture o manchevolezze di uno script talvolta troppo elementare: la coppia Chris Pratt-Bryce Howard funziona, con il primo sempre più candidato (dopo Guardiani della Galassia e The LEGO Movie) al ruolo di nuovo Harrison Ford, adattato alla consapevolezza dei propri limiti e al cinismo post-tutto della contemporaneità. Meno bene Irrfan Khan (Vita di Pi), mix di stereotipi sul mecenate vittima delle sue stesse ambizioni, e Vincent D'Onofrio (Full Metal Jacket), fuori giri sin dalla prima apparizione nei panni di un villain che pare un cliché vivente - ovviamente militare e scriteriatamente guerrafondaio - più antico degli stessi dinosauri. Nonostante l'abbandono della direzione da parte di Spielberg, a progetto ancora in uno stato embrionale, Colin Trevorrow risolve una impasse complicata, confermando le ottime impressioni lasciate dall'incursione nella sci-fi di Safety Not Guaranteed e cancellando (anche a livello di plot) il ricordo del secondo e del terzo episodio della serie, deludentissime prosecuzioni del capostipite.

 
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8 e mezzo

Post n°12450 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: STORIA

 
Locandina 8 ½

Guido è un regista, quarantenne, un po' stanco. Tutto ciò che lo riguarda è stanco: il rapporto con la moglie, col suo produttore, con gli amici, persino con l'amante. Naturalmente l'ispirazione si è fatta sottile, le idee sono rare e astratte, la pigrizia avanza. Ha fatto costruire un'immensa e costosa impalcatura che forse servirà per un film di fantasia, forse. Infatti lo stesso Guido non sa perché l'abbia fatta costruire. Intorno a lui si muovono tutti i "fenomeni" del cinema: tecnici che urlano, amanti di produttori, velleitari che propongono sceneggiature, anziane attrici che aspirano a un ultimo colpo di coda. Guido rincorre idea dopo idea, tutte scialbe e abbandonate. Un critico di cinema dal linguaggio inverosimilmente ermetico gli smonta una per una tutte le iniziative. Cerca un po' d'aiuto in un alto prelato, che in risposta alle sue angosce gli parla di cardellini. Per fortuna la sua fantasia può correre liberamente nel passato, nell'età dell'adolescenza, nella sua prima terra ai tempi della scuola e delle prime sensazioni. I timori, i misteri, le curiosità, le prime eccitanti trasgressioni. Gli episodi reali e quelli della memoria si alternano in una vetrina di caratteri che davvero non si possono dimenticare: il papà nel sogno, l'amico con l'amante giovane, la maga che gli legge nel pensiero la formula "Asa nisi masa". Infine ecco il grande girotondo da fiera, con tutti i personaggi che si tengono per mano, che gli girano intorno: tutto continua ed è vitale, ed è inutile drammatizzare sul grande palcoscenico della vita. Otto e mezzo è da molti ritenuto la più alta espressione di Fellini, più ancora della Dolce vita. Qui tutto si compie, tutti i misteri vengono identificati. Il mondo del regista si evolve da (più o meno) reale che era, sale di dimensione per diventare tutto. Tutto incredibilmente nella sua "prima persona", come una sorta di paradiso e inferno efficacissimi, onnicomprensivi: il cinema di Fellini è complice, misterioso e ruffiano, blasfemo e religioso, è puttaniere e crea disagio, è eroico e vigliacco, è uomo e donna, qualunquista, apolitico, periferico, olimpico e provinciale. Ma la soglia di fantasia, magia e sortilegio è altissima, raggiungibile solo da Fellini. Premio Oscar.

 
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