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Messaggi del 03/09/2015

 

Box-Office Italia: un altro milione per Minions lunedì da badtaste

Post n°12524 pubblicato il 03 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

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Il film sale così a 8.2 milioni di euro in cinque giorni, con 1.2 milioni di spettatori. Ricordiamo che nel mondo il film ha raccolto finora oltre un miliardo di dollari.

Al secondo posto, ben distanziato, troviamo Mission: Impossible – Rogue Nation, con 113mila euro e 3.8 milioni di euro complessivi.

Chiude il podio Ant-Man, con 52mila euro e 4.2 milioni di euro complessivi. 

 
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Film nelle sale da oggi

Post n°12523 pubblicato il 03 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

 

 

 

 
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Mattarella alla Biennale da cinecittà news

Post n°12522 pubblicato il 03 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Cr. P.03/09/2015
VENEZIA - "Faccio gli auguri al cinema, ai quattro registi italiani in concorso ma anche agli stranieri. Io amo il cinema, quello classico e quello contemporaneo, delle nuove generazioni". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, poco prima di entrare nel Palazzo del Cinema per la cerimonia di apertura della 72ma Mostra del Cinema di Venezia. Davanti ai giornalisti il presidente si è soffermato solo pochi istanti spiegando di non voler parlare di temi di attualità politica. "Di questo non parliamo, parliamo solo di cinema". 

L'appello ad un'Europa accogliente con i migranti fatto dal regista messicano Alfonso Cuaron durante la cerimonia di apertura non è passato inosservato. ''E' stato un richiamo davvero ammirevole e fatto in maniera persuasiva'', ha commentato il presidente della Repubblica all'uscita dalla sala, dopo la proiezione diEverest che ha giudicato "un film emozionante". 

Mattarella, che aveva accanto il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini, è arrivato poco prima dell'inizio del galà direttamente dall'aeroporto di Venezia. L'apertura della Mostra è stata la prima tappa di una breve visita nella città proseguita con l'esplorazione della Biennale Arte. Accompagnato dalla figlia Laura, Mattarella considera questa visita come un piccolo svago in "un'estate passata in gran parte lavorando". 

"Attenti allo spirito dei tempi ma non lo confondiamo con gli idoli del giorno", ha detto il presidente della Biennale Paolo Baratta rivolgendosi a lui per raccontare l'azione dell'istituzione culturale veneziana impegnata a leggere quanto ci accade intorno "con occhio dilatato". 

Stamani poi Mattarella ha fatto visita alla Biennale d'Arte. "Venga qui a completare il mio disegno". E' l'insolito invito rivoltogli da uno dei bambini che stava usando matite e pennelli nella sala dedicata ai programmi educativi per i più piccoli. Il presidente non si è sottratto e ha completato il disegno. Nel racconto di Paolo Baratta, Mattarella "ha partecipato con grande intensità alle singole sale, all'Arsenale in particolare, che è un luogo, un percorso fatto di opere e di immagini molto significative". Ad accompagnare Mattarella, oltre a Baratta, il ministro Dario Franceschini, il presidente del Veneto Luca Zaia, il sindaco Luigi Brugnaro e il curatore della Biennale d'Arte Okwui Enwezor. A colpire il presidente, spiega Baratta, soprattutto "il senso dell'incalzare della storia e dei suoi avvenimenti, il tempo e la vita, il tempo e l'uomo". Il presidente della Biennale spiega di aver fatto i complimenti a Mattarella "per la sua capacità di comunicazione, nella scelta di poche parole, pochi aggettivi, ma tutti misurati e incisivi". Nel percorso espositivo il presidente della Repubblica è stato molto colpito da una installazione cilena che mostra in diretta, via webcam, dei fuscelli di metallo con campanelle che oscillano al vento, "fortemente espressiva". "Gli è piaciuto poi moltissimo il progetto Biennale College - conclude Baratta - e ci siamo soffermati sul sistema educativo italiano e su quanto sia importante aggiungere al sistema sistema tradizionale la formazione esperienziale e l'imparar facendo, lavorando con i maestri".

 
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Mark Ruffalo: "Spero che il Papa raddrizzi i torti dei preti pedofili"

Post n°12521 pubblicato il 03 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Cristiana Paternò03/09/2015
VENEZIA - È una vera e propria lezione di giornalismo,Spotlight, il film di Thomas McCarthy (L’ospite inatteso) fuori concorso qui alla Mostra. Basato su una storia vera – come una gran parte dei titoli di quest’anno – narra con stile solido e piglio tradizionale l’indagine compiuta nel 2001 e 2002 dal Boston Globe per smascherare la pratica degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica. Non qualche mela marcia ma decine di preti pedofili coperti dalle alte gerarchie. Il cardinal Law – oggi canonico di Santa Maria Maggiore dopo il trasferimento a Roma - insabbiò per decenni con l’aiuto di avvocati conniventi e pochi spiccioli di risarcimento, limitandosi a trasferire i colpevoli da una parrocchia all'altra. Le vittime erano quasi sempre bambini (maschi, ma anche qualche femmina) cresciuti in famiglie povere o da genitori separati con scarse capacità di reazione.  

Un migliaio di casi raccontati dal Boston Globe in seicento articoli costruiti con un certosino e inflessibile lavoro di giornalismo investigativo e senza cedere alle lusinghe o alle velate minacce dell’ambiente cattolico. Con la missione di andare oltre la cronaca locale e colpire l'intero sistema. Racconta McCarthy: "Sono stati i miei due produttori a propormi questa storia, alla sceneggiatura ho lavorato con Josh Singer facendo molte ricerche e parlando con tanti sopravvissuti agli abusi dei preti. Tutti ci dicevano di un doppio tradimento, oltre all'abuso fisico c'era stato un abuso spirituale perché i colpevoli erano preti e rappresentavano la religione di cui loro si fidavano. Quindi si sono sentiti abbandonati, hanno messo in discussione la loro fede, si sono sentiti in colpa, molti di loro si sono rifugiati nelle droghe e nell'alcol, qualcuno si è suicidato. La pedofilia dei preti è un crimine diabolico perpetrato su vittime innocenti proprio da chi dovrebbe difenderle".  

Sono parole durissime e il cineasta, nonostante il bubbone sia ormai esploso, si dichiara pessimista. "Vengo da una famiglia cattolica, sono andato a scuola a Boston, ho amici che sono stati vittime di abusi, sono legato a questa storia in modo molto personale". E aggiunge: "So che nella Chiesa ci sono anche cose buone e buone persone e adesso Papa Francesco accende qualche speranza". Su questo sono d'accordo anche i suoi attori, Stanley Tucci, che nel film è l'avvocato armeno, un po' un cavallo pazzo, che difende molte delle vittime, personaggio chiave perché ha in mano i documenti, secretati dal tribunale, che inchiodano il Cardinale alle sue responsabilità, per esempio la lettera di una madre a cui lui non darà mai risposta. Per Tucci "il nuovo papa è straordinario, sta portando la Chiesa nel XXI secolo e può essere la persona che fermerà questi abusi". Ancor più convinto Mark Ruffalo, che nel film è un cronista che non si arrende mai: "Francesco sulla questione pedofilia ha fatto scelte importanti e decisive. Spero che il Vaticano prenda davvero l'iniziativa di tentare di riparare a quello che è successo. Non mi riferisco ai compensi monetari per le vittime ma a tutte le persone che credono nella Chiesa e la cui fede è stata offesa, intaccata e colpita da queste vicende''. E ancora: ''Quello che è successo ai bambini è terribile, ma il fatto che ciò abbia diminuito la credibilità della Chiesa come istituzione è altrettanto terribile. Bisogna recuperare e curare questi bambini feriti che ora sono adulti, ma è necessario anche rassicurare le coscienze di chi crede e continua ad avere fiducia nella Chiesa''. 

Per l'attore, 47enne, due volte candidato all'Oscar (I ragazzi stanno bene Foxcatcher) "non c'è una responsabilità solo della Chiesa ma di tutta la comunità di Boston: gli agenti di polizia, gli avvocati, i politici e persino i giornalisti. Tutti in qualche modo sapevano ma hanno chiuso gli occhi per non vedere qualcosa di scomodo''.  E' di nuovo Thomas McCarthy a prendere la parola: "Sinceramente non mi aspetto alcuna reazione da parte cattolica anche perché non penso che il film sia un attacco alla Chiesa e poi sono tutte cose documentate e forse parlarne può essere fonte di guarigione". 

Spotlight è il nuovo Watergate, tante sono le similitudini, anche la celebre inchiesta di Bob Woodward e Carl Bernstein del Washington Post passò dalla realtà allo schermo... “Tutti gli uomini del presidente è un film importantissimo – dice il regista – ma sono anche altri i film sul giornalismo investigativo che abbiamo avuto come fonte di ispirazione, specialmente quelli di Sidney Lumet con la loro grande onestà, però abbiamo anche cercato di trovare la nostra strada autonoma”.  

Anche perché dagli anni '70 ad oggi le cose sono molto cambiate nel mondo del giornalismo con l'avvento di internet. Il gruppo Spotlight, con la sua capacità di dedicarsi per mesi e mesi alla stessa inchiesta senza pressioni da parte dell'editore, senza orari, senza condizionamenti, esiste ancora. "Miracolosamente - dice McCarthy - perché il giornalismo e stato decimato, non solo negli Usa, ma ovunque, però loro ci sono ancora. Il giornalismo investigativo può avere un impatto straordinario ma non sono certo di quanto il pubblico capisca il valore della libertà di stampa per la democrazia. E' così importante che ci siano dei cronisti locali, nei posti di polizia, nei tribunali, là dove la corruzione viene a galla e invece spesso vengono smantellati". Mentre per Ruffalo: "Molti giornalisti investigativi sono passati a internet, in futuro le inchieste saranno finanziate dai lettori e forse saranno ancora più libere".

E ancora sulle possibili reazioni quando il film - che da Venezia andrà al Festival di Toronto - uscirà negli Usa. "C'è stato un silenzio assordante attorno a questa storia, che ormai è di pubblico dominio e non può essere negata. Ha già avuto un grosso impatto sulle coscienze. Boston è una città piena di chiese, ce ne sono ad ogni angolo, ma oggi molte sono chiuse o si sono svuotate. Chiuse per pagare i danni ai sopravvissuti o perché il potere si è sgretolato e la gente ha smesso di andare in chiesa". 

Anche per Mark Ruffalo: "La gente non va più in chiesa in tutti i paesi cattolici a causa di questi scandali. Spero che il Papa veda questo film, che il Vaticano usi questa denuncia come occasione per raddrizzare i torti, anche nei confronti di chi ha perso la fede. Spero che Papa e Vaticano usino questo film cosi sobrio per curare le ferite che la Chiesa stessa ha subito". 

L'inchiesta del Boston Globe ha ottenuto il Premio Pulitzer ma McCarthy non ne ha fatto menzione nei titoli di coda del film. "Un premio, benché importante, non ha l’impatto di chi ha vissuto queste vicende sulla propria pelle". E a chi gli chiede se il vero problema della Chiesa cattolica non sia il celibato, risponde così: "Su questo ciascuno ha la sua opinione personale. Io non voglio collegare celibato e pedofilia, di sicuro ci sono molti preti che vorrebbero sposarsi, anche molti preti gay, e su questo la Chiesa dovrà aprirsi". 

Nell'ottimo cast di Spotlight, che uscirà con la Bim nei primi mesi del 2016, anche il caporedattore Michael Keaton e la giornalista Rachel McAdams, il nuovo direttore del Boston Globe Liev Schreiber, ebreo e dunque per nulla interessato a coprire le gerarchie cattoliche.

 
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Il ‘Leviatano’ di Rodrigo Plá apre Orizzonti

Post n°12520 pubblicato il 03 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Andrea Gugliemino02/09/2015
Ad inaugurare il concorso Orizzonti è il dramma surrealeUn monstruo de mil cabezas dell’uruguayano Rodrigo Plá, che nel 2007 si era affermato a livello internazionale on il lungometraggio d’esordio La zona, pluripremiato in numerosi festival. Il film mette in scena con asciuttezza una parabola sociale di denuncia dell’inefficienza e la corruzione di una società che guarda solo al profitto. Una donna che, per un errore tecnico, non riesce a ottenere il lasciapassare per l’assicurazione medica che spetterebbe a suo marito, gravemente malato di cancro, impugna una pistola e con la forza della disperazione mette sotto giogo i responsabili. 

In soli 75 minuti, i protagonisti di un comune caso di malasanità diventano gli eroi negativi di una paradossale vicenda di cronaca nera, che si colora di tragedia. Il ricorso alle convenzioni del thrilling si piegano all’esigenza di denunciare il mostro dalle mille teste – una burocrazia dalle sfumature kafkiane - che minaccia la vita dei cittadini comuni. Nell’impossibilità di difendere altrimenti i propri diritti di fronte all’irresponsabilità morale di chi detiene il potere di controllo, all’individuo non resta che reagire in maniera distorta e autolesionista. Laura Santullo, moglie del regista, è sceneggiatrice del film, tratto da un suo romanzo: “varie esperienze della mia vita che si sono sommate e che ricordavo – dice – mi hanno spinto a realizzare questa storia”. “Nel libro – dice il regista – tutti parlano in prima persona e rispetto alla trama ciascun personaggio assume un punto di vista differente. Mi sembrava realistico e ho voluto mantenere questo aspetto nella pellicola, e ha aiutato a moderare la tensione drammatica spingendo lo spettatore a immaginare diverse soluzioni possibili. Non c’è una linea radicale.  Abbiamo giocato con la narrazione, lavorando anche di improvvisazione. La sceneggiatura è stata costruita piano piano, mentre Laura leggeva il libro e gli attori pian piano inserivano degli elementi nuovi. 

E’ un film che parla di gente comune, dell’incapacità di vivere un lutto. Jana Raluy, attrice teatrale, copre il ruolo della protagonista: “Mio padre è morto di cancro – dice –quindi identificarsi non è stato difficile. La protagonista non premedita di fare del male a nessuno, è semplicemente disperata e schiava delle sue stesse azioni”. “Né abbiamo cambiato troppe cose rispetto al romanzo – aggiunge di nuovo il regista – ci sono delle differenze minimali ma tutto sommato la trama è fedele, compreso il finale ‘aperto’. Non volevamo che lo spettatore avesse una soluzione a portata di mano. Può empatizzare con la protagonista ma in definitiva prendere un’arma e puntarla contro qualcuno non è certo una scelta normale. I personaggi sono appunto in condizioni di fare delle scelte e sbagliare, e questo è interessante. Credo che il film abbia la lunghezza giusta per il suo equilibrio. Certo se qualcuno mi avesse chiesto di farlo più lungo, pur di entrare nel Concorso principale, l’avrei fatto. Ma sono contento comunque, il pubblico di Venezia è meraviglioso e lo spazio anche, e poi mi ha portato fortuna già una volta”.  

 
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Baltasar Kormakur: "La natura come effetto speciale"

Post n°12519 pubblicato il 03 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Cristiana Paternò02/09/2015
VENEZIA -  La domanda è perché? Perché decidi di tentare la scalata alla montagna più alta del mondo, di avventurarti in quella "zona morta", sopra gli 8.000 metri, in cui il corpo umano comincia a morire. Perché spendi 65mila dollari per fare una "vacanza" che potrebbe ragionevolmente costarti la vita: l'aria è così rarefatta, povera di ossigeno, che rischi l'edema cerebrale, la temperatura sotto i 30° e oltre ti porta in breve all'ipotermia, la neve ti acceca... Quando un giornalista fa la stessa domanda al gruppo di alpinisti, alcuni piuttosto improvvisati, che sta per affrontare l'impresa, le risposte sono varie, ma girano tutte attorno al concetto di fuga. Fuga da un matrimonio che credi finito o dalla banalità del lavoro di postino, alla ricerca del tuo momento di eroismo personale. 

Il film di Baltasar Kormàkur che apre Venezia 72, fuori concorso, non va troppo in profondità nel rispondere a questa domanda. Il regista islandese sembra essersi soprattutto innamorato della sfida produttiva (ci sono voluti molti anni e vari tentativi per arrivare al risultato compiuto). Quella di girare in condizioni proibitive creando emozione senza ricorrere a troppi effetti speciali e computer. "Questa è una storia vera e ho cercato di restare fedele alla realtà", insiste. E racconta di aver attinto alla sua esperienza di bambino: "Vivevo in una fattoria isolata e per andare a scuola dovevo affrontare spesso le bufere di neve". Ispirandosi principalmente al libro del giornalista Jon Krakauer (lo stesso di Into the Wild), Everest, che dal 24 settembre sarà in sala con la Universal, racconta con elementi di melodramma privato la tragedia alpinistica accaduta il 10 maggio del 1996, quando morirono cinque scalatori e tre soccorritori nel corso di una scalata alla cima più alta del mondo. Rob Hall (Jason Clarke), a capo della neozelandese Adventure Consultants, cerca di portare in vetta sani e salvi i suoi clienti: agisce con scrupolo affidandosi anche ai consigli di una dottoressa per verificare le condizioni psicofisiche dei membri del gruppo, tra cui anche una donna. Il suo rivale, l'americano Scott Fischer (Jake Gyllenhaal), un alpinista ubriacone e incosciente a capo della Mountain Madness (mai nome fu più azzeccato), sembra prendere più alla leggera l'impresa. Le cordate si affollano tra i vari campi base, in una versione poco romantica e molto commerciale dell'alpinismo.

Ma l'Everest non perdona. La vetta più alta del mondo è a 8.848 metri sopra il livello del mare ... la quota di crociera di un aereo. Ci vuole la bombola di ossigeno per stare lassù perché anche il più banale movimento porta allo stremo delle forze. Gli sherpa nepalesi se la cavano, ma gli occidentali rischiano di sottovalutare il pericolo. E poi le condizioni climatiche possono cambiare da un momento all'altro. E infatti è proprio un'improvvisa e violentissima bufera - insieme alle decisioni sbagliate di alcuni, dettate dalla voglia di raggiungere a tutti i costi la vetta - a provocare la tragedia in cui perdono la vita sia Rob Hall che Scott Fischer, mentre un altro componente della cordata, Beck (interpretato da Josh Brolin), verrà salvato in extremis nonostante il congelamento (ma perderà il naso e le mani). 

"Ho portato davvero i miei attori in Nepal, prima a Katmandu e poi al campo base - racconta ancora Kormakur - ma dopo poco hanno cominciato a stare male e abbiamo optato per le Dolomiti, siamo stati in Val Senales e poi a Cinecittà e negli studi di Pinewood. Però avevo le immagini dell'Everest girate nel 2014, anche durante una valanga". Everest non ha la densità mistica di un altro suo film di sopravvivenza, l'intenso The Deep, in cui raccontava la storia vera di un pescatore islandese che riuscì a sopravvivere nel mare gelato per ore dialogando con un gabbiano e con Dio. "Everest è una storia epica e intima allo stesso tempo che racconta anche il potere della montagna", sottolinea il regista che spesso usa a scopo drammaturgico il rapporto tra gli scalatori e le donne rimaste a casa ad aspettare (Keira Knightley e Robin Wright). E aggiunge: "In montagna ciò che conta è la parte più vera di noi stessi, capisci chi sei dentro la natura e nella tua relazione con la natura. Quindi possiamo dire che Everest è la metafora di qualsiasi altra situazione estrema". 

Tutti gli attori presenti, Gyllenhaal, Josh Brolin, Jason Clarke, John Hawkes ed Emily Watson, che ha il ruolo dell'assistente di Rob Hall, una sorta di angelo del campo base, parlano della grande sfida fisica comportata dalle riprese e della responsabilità di dare vita a personaggi reali, che in molti casi non ci sono più. "I figli di Scott Fischer - racconta Gyllenhaal - mi hanno contattato preoccupati del ritratto che avrei dato del padre". E Brolin incalza: "Speriamo che quando le persone coinvolte vedranno il film possano riconoscersi. Mi sono chiesto tutto il tempo se quello che facevo fosse giusto". Emily Watson, infine, rivela di aver parlato con la vera Helen via Skype mentre faceva il film: "Mi ha fatto sentire le registrazioni delle loro conversazioni telefoniche, è stato come toccare con mano la verità".

 
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Tra dopoguerra e boom economico i gangster anarchici e ribelli di De Maria

Post n°12518 pubblicato il 03 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Stefano Stefanutto Rosa03/09/2015
La banda Cavallero, Ezio Barbieri, Paolo Casaroli, Luciano De Maria,Horst Fantazzini, Luciano Lutring, sono i protagonisti di Italian Gangsters (Orizzonti) distribuito e prodotto da Luce Cinecittà
VENEZIA. La banda  Cavallero, Ezio Barbieri, il ‘Robin Hood’ del quartiere Isola, Paolo Casaroli, ‘il Dillinger bolognese’, Luciano De Maria, Horst Fantazzini, ‘il bandito gentile’, Luciano Lutring ‘il solista del mitra’, sono i protagonisti di Italian Gangsters di Renato De Mariain concorso a Orizzonti, prodotto da Luce Cinecittà, che lo distribuisce anche, in associazione con Minerva Pictures.
Va in scena una stagione della malavita ormai lontana anni luce da quella che vedremo prossimamente in Suburra. Una malavita le cui imprese s’intrecciano con lo sforzo immane di un paese che esce dalle macerie della guerra, rinasce e conosce il boom economico. La parabola di questi banditi, diventati leggenda nell’immaginario popolare con le loro sfide temerarie ma anche sanguinose al sistema, accompagna le trasformazioni sociali.

Il racconto, intenso e in presa diretta, di queste biografie così particolari - dalla prima rapina all’arresto, dal carcere al rientro nella società civile - è affidato a monologhi, interpretati da attori teatrali, basati su libri autobiografici, interviste e testimonianze raccolte da famosi giornalisti.
A commento visivo delle loro gesta, i filmati d’epoca, le immagini di quegli anni dell’Archivio Luce e Home Movies, delleTeche Rai. E ancora brani di film di genere, circa una trentina, soprattutto poliziotteschi, grazie alla library di Rarovideo .

Come nasce questo film?
Dall’incontro con Roberto Cicutto  che mi ha chiesto di realizzare un lavoro con i materiali dell’Archivio Luce, partendo da un punto di vista originale. Così ho proposto una storia di questi gangster dal dopoguerra, dagli anni della ricostruzione al boom economico, attraverso le loro biografie. Erano allora figure molto popolari di cui si occupavano giornalisti come Montanelli, Biagi, Bocca, Buzzati. Raccontare questo elemento pop della loro fama, poteva essere anche la ricostruzione di un pezzo di storia italiana ma anche di immaginario collettivo.

C’è stato altro nell’accettare questa sfida artistica?
Il mio interesse, fin dall’adolescenza, per il genere crime e hard boiled, nonché la passione per i B-movies italiani. E poi perché alcune di quelle storie all’epoca mi avevano affascinato, anche grazie ai film di Carlo Lizzani Svegliati e uccidi e Banditi a Milano, e quello di Florestano Vancini La banda Casaroli.

Il suo film non restituisce solo delle biografie criminali?
E’ uno spunto per raccontare un’Italia irripetibile che veniva fuori dalla tragedia della guerra, caratterizzata da una grande crescita, da una struttura sociale più compatta, da un’identità nazionale più forte. Insomma un‘Italia che aveva speranza.

Nella scelta dei banditi, ne ha perso qualcuno per strada?
Il periodo scelto va dagli anni ’40 ai ’60, avevamo previsto di inserire anche Renato Vallanzasca, cresciuto nel mito di Lutring, ma rappresenta già un altro tipo di malavita collegata all’occupazione del territorio, a bande più strutturate e poi incrocia l’inizio del terrorismo. Abbiamo anche provato a inserire dei banditi romani come Lallo lo zoppo della banda dei Testaccini, quelli che sono stati spazzati via dalla banda della Magliana. Il suo monologo era molto bello, ma estremamente ferrato, non in sintonia con il tono del racconto di questi sei gangster.

Dunque tutto accade al Nord, tra Milano, Bologna e Torino.
Al Centro e al Sud c’erano la mafia e bande che controllavano già il territorio, mentre al Nord quasi tutti i sei protagonisti sono figli della Resistenza, spesso le loro armi sono quelle non restituite dai partigiani. Si tratta di giovani che non sono riusciti a rientrare nella vita normale alla fine della guerra.

Che cosa li accomuna?
Una sorta di individualismo anarchico, di ribellione nei confronti di una società che chiede loro di lavorare con una paga bassa. Si ribellano per un anno di vita alla grande, ma non per un progetto.

Ha una preferenza per uno dei sei banditi?
Ognuno ha il suo punto di fascino. La storia particolare di Cavallero con il suo sogno di comunismo, legato però anche a questo suo ego incredibile, un figlio di proletari che dovrebbe diventare operaio e invece si sente “un drago”. Lutring romanticissimo, ovviamente sono attratto dal fascino letterario del racconto, perché non dimentichiamo che questi uomini hanno ucciso. E poi Casaroli di cui mi ha parlato un amico scrittore che lo andava a trovare nella sua libreria, aperta una volta uscito dal carcere. O Barbieri che rubava e poi andava a distribuire la refurtiva nel suo quartiere.

Oggi la criminalità è molto differente.
Il mio film segnala questa diversità, perché la malavita odierna nasce negli anni ’80 dalla commistione con la politica. Soprattutto è conquista del territorio, dominio della città, intesa come affari su tutto, con il permesso e la connivenza dello Stato.

Quanto materiale ha visionato?
E’ stato un lavoro molto lungo, non tanto con gli attori con i quali ho girato in pochi giorni. Per costruire i monologhi, insieme a due giovani appena usciti dal Centro sperimentale, abbiamo letto libri, articoli, interviste. Abbiamo visionato molto materiale già digitalizzato dell’Archivio Luce, delle Teche Rai, e dell’Archivio Home Movies di Bologna che raccoglie super 8 familiari, documenti intimi e privati. E infine fondamentale la ricca library di Minerva Pictures, Rarovideo, in particolare alcuni film di Di Leo, Deodato, Bava, ma anche di Petri, Antonioni, Bellocchio e Sautet.

Ha scelto tutti attori di teatro per i sei personaggi.
Mi sono affidato a interpreti non cinematografici sconosciuti perché volevo dei lunghi flussi di coscienza. All’inizio ho pensato ad attori che conoscevo, poi abbiamo preferito uno stacco netto, perché la faccia sconosciuta ti consente un’identificazione più forte. L’impostazione dei monologhi è teatrale e li ho girati nel buio di un immenso teatro scelto perché volevo questa profondità da cui emergevano, come da un passato molto lontano. Abbiamo estratto dai libri questa loro lingua spontanea, per quanto filtrata dagli scrittori, quel loro atteggiamento un po’ spavaldo e arrogante. Monologhi di 9/10 pagine tutti girati senza interruzioni con piani sequenza larghi, poi medi, poi stretti.

C’è un legame con le sue precedenti opere, come La prima linea?
Il filo conduttore c’è anche con Paz! La vita oscena perché è evidente che sono interessato a quella linea d’ombra, cioè al passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Sono attratto da quelle persone che non riescono a diventare adulte  e questo passaggio lo rendano narrazione, tragica alcune volte come in La prima linea o fumettistica come in Paz!. Anche il mio primo film Hotel paura racconta di una persona licenziata che non riesce più a rientrare nel mondo del lavoro e diventa barbone. C’è sempre dunque questo confronto tra l’individuo e la società.

Progetti futuri?
Un gangster movie la cui sceneggiatura è quasi terminata, legato a questo lavoro e ispirato a un bandito reale, con ambientazione negli anni ’80 ma contemporanei. Sarà il racconto della sua conquista del territorio a Milano. Per la televisione riprendo a lavorare con il produttore Pietro Valsecchi che mi ha chiesto di collaborare con un altro regista a Squadra Antimafia 8 con un cast rinnovato.

 
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