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Messaggi del 13/10/2016

 

Vizio di forma

Post n°13456 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 


Doc Sportello, hippie suonato che ciondola sulla spiaggia di Gordita Beach e investigatore privato a tempo perso, è avvicinato dalla sua ex Shasta Fey, che gli affida un caso complicato. Insospettita dagli intrighi attorno al suo nuovo amante, il palazzinaro Wolfmann, vuole prevenire un suo ricovero coatto. Doc non fa in tempo a cominciare le indagini che finisce per essere accusato di omicidio dall'amico-nemico Bigfoot, ispettore della Omicidi. 
Sul titolo, a volte, è bene soffermarsi (oltre che sulla locandina, quando inarrivabile come quella di Vizio di forma). Al di là della libera traduzione e semplificazione italiana, che poco o nulla significa - e che, curiosamente, sia nel libro di Thomas Pynchon che nel film tratto da esso, non trova spazio all'interno dell'opera - è il letterale "vizio intrinseco" la chiave del mistero. Che, come tale, include tanto il MacGuffin del termine tecnico del ramo assicurativo che la reale sostanza dell'opera di Pynchon e Anderson, dove "vizio intrinseco" sta per incapacità per un sistema di reggere l'instabilità centrifuga delle sue componenti interne. 
Due piani di lettura per una molteplicità psichedelica di interpretazioni degli stessi: l'Uno e il Tutto, in ordine sparso, come vuole il cinema di Paul Thomas Anderson da Ubriaco d'amore in poi. Il noir e la sua lunga discendenza di riferimenti riflessivi (Chandler via Altman, Kem Nunn via Pynchon, con aggiunta di Hunter Thompson e Dude Lebowski) diviene così avvincente esca per catturare l'interesse e aiutare a immedesimarsi tanto in Doc Sportello che nella sua nemesi Bigfoot Bjornsen, nascondendo così, attraverso un sottile e caliginoso fumo di cannabis, la parabola della seconda caduta dall'Eden, quando l'ebbrezza utopistica dei '60 si è schiantata di fronte alla cruda realtà della natura umana ad Altamont e Bel Air. 
Gli Hell's Angels omicidi e la setta satanista di Manson diventano in Vizio di forma un'unica entità e si contrappongono, con logica speculare, all'amore, che muove (più che il cielo e l'altre stelle) le onde dell'oceano e il girovagare erratico, ma lucido e con uno scopo preciso, del protagonista. Un insieme di caratteri paradigmatici fa di Doc Sportello creatura andersoniana più che pynchoniana, pecorella smarrita che si oppone con radicale indolenza al traumatico passaggio di consegne tra un'epoca e un'altra, tra l'erba e la polvere d'angelo, tra Neil Young (il brano scelto per la più romantica delle sequenze si intitola "Journey through the Past") e il decennio dell'edonismo reaganiano che verrà, tra la pellicola che esibisce orgogliosamente la sua grana e il digitale che ci seppellirà. Mai come in Vizio di forma lo sconclusionato nonsense di una trama inafferrabile e involuta è mistificatore, come la retorica di un guru, rispetto alla geometrica precisione di un'opera che intensifica la separazione di Doc dal suo, o dai suoi, doppi. 
Dalla musa-spirito guida Sortilège, voice-over che si fa carne, all'illusorio oggetto d'amore Shasta, fino al Bigfoot di un eccellente Josh Brolin. La bromance tra questi e Doc, giocata costantemente sul filo della comicità, oltre a rivelare una matrice ben più tangibile del Lebowski coeniano nell'oscuro Cisco Pike (Per 100 chili di droga) di una ruggente New Hollywood, è la dinamica pseudo-amorosa di due opposti che si attraggono, due metà che si cercano e si sostituiscono: il primo detective sempre meno improbabile e il secondo cullato e confuso dai suoi sogni di attore. Scherzi del subconscio, forse, come una clinica criminale odontoiatrica o una nave all'orizzonte che non attracca mai, che disegnano la più difficile delle trasposizioni, libera dove appare didascalica, metaforica dove appare comica, prima di chiuderla sotto il sole elusivo di una California in chiaroscuro.

 
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La banda del trucido da cinemah

Post n°13455 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

La banda del trucido
Anno: 1977
Regista: Stelvio Massi
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Italia
Data inserimento nel database: 04-12-2003


La banda del trucido. Stelvio Massi1977ITALIA.

AttoriTomas Milian, Luc Merenda, Elio Zambuto

Durata: 99’

 

 

Roma. Il commissario Ghini è alle prese con una dilagante violenza urbana. Per farsi aiutare è costretto a ricorrere a Monnezza, il gestore del ristorante La pernacchia che si cimenta anche come insegnate in una scuola per ladruncoli che rifiutano l’uso delle armi. Quando un suo uomo, Ranocchietta, è ucciso da uno al quale aveva offerto il suo servizio, il Monnezza si metterà sulle tracce dell’assassino con la stessa caparbietà del commissario Ghini.

Secondo appuntamento ufficiale con il personaggio di Monnezza (Tomas Milian autore anche dei suoi dialoghi) la cui presenza obbliga a dividere il film esattamente in due parti. Una vuole Luc Merenda (commissario Ghini) invischiato in scazzottate ed inseguimenti e l’altra Tomas Milian impastato tra parolacce e gigionerie (i due si dice non si potessero sopportare sul set). Passaggio ufficiale da un ruolo all’altro per l’attore cubano (dal cattivo sadico al delinquente buono che strappa la risata) che anche durante il film avverte lo spettatore della sua scelta (quando piange per la morte di Ranocchietto entra un suo studente che lo fa ridere e lui dice Io dovrei piagne e tu me fai ride, ho capito ho sbagliato tutto…). Nonostante le buone inquadrature e le sequenze d’azione, sembra il canto del cigno del genere, prossimo ormai anche questo alla contaminazione alla romanaccia. Sceneggiatura di Dardano Sacchetti, Elisa Briganti e Stelvio Massi; musiche riciclate dello stesso Bruno Canfora da Il trucido e lo sbirro (1976) di Umberto Lenzi, il film perde molto perché brutto in quasi tutte le volgarità di Mondezza, ma rimane interessante per molte altre sequenze ed inquadrature.

 
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Squadra antiscippo

Post n°13454 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Lo scippatore Achille Bertinari detto il “Baronetto” (Guido Mannari) deruba per errore Norman Shelley (Jack Palance), diplomatico americano con l'hobby del riciclaggio di denaro sporco. La scottante refurtiva (cinque milioni di dollari) è fonte di grossi guai: il maresciallo Nico Giraldi (Tomas Milian) cercherà di evitare il peggio.

Prima apparizione sul grande schermo per l'ex galeotto Nico Giraldi, nato sulla scia del successo di “Monnezza” (protagonista di Il trucido e lo sbirro del 1976 e La banda del gobbo del 1977, diretti da Umberto Lenzi, e di La banda del trucido, 1977, di Stelvio Massi). La sceneggiatura evita gli eccessi che diventeranno in seguito il marchio di fabbrica del personaggio, limitando il turpiloquio e gli inserti da commedia per spingere il pedale sulle sequenze di azione e su una buona dose di violenza non troppo edulcorata (il pestaggio nella sala da biliardo). Il ritmo è buono, lo sviluppo narrativo decisamente meno e l'intreccio poliziesco è pretestuoso e puerile. Il verace Giraldi, comunque, rimane scolpito nella memoria con battute che fanno intuire gli sviluppi futuri («So' Sant'Antonio der Friuli, er protettore dei paraculi») e con il suo aspetto pittoresco. Imprescindibile il doppiaggio di Ferruccio Amendola, che sarà la voce di Tomas Milian in tutti gli undici episodi della serie. Assenti, per il momento, gli abituali compagni di avventure Bombolo (Venticello) e Massimo Vanni (Gargiulo, qui interpretato da Raf Luca). Maria Rosaria Omaggio è la signorina Cattani. Seguito da Squadra antifurto (1976), Squadra antitruffa (1977), Squadra antimafia (1978), Squadra antigangsters (1979), Assassinio sul Tevere (1979), Delitto a Porta Romana (1980), Delitto al ristorante cinese (1981), Delitto sull'autostrada (1982), Delitto in Formula Uno (1984) e Delitto al Blue Gay (1984).

 
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Il cinema dietro le quinte: Intervista di Federico Fellini da cinemamio

Post n°13453 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Un’intervista da parte di un gruppo di giornalisti giapponesi è il pretesto che permette a Fellini di far vedere il suo cinema da dietro la macchina da presa: questo è il fulcro centrale di quello che il regista appellò come un filmetto, ma che in realtà nasconde tutta la filosofia del grande maestro.

LA TRAMA

Tutto ha inizio di notte negli studi di Cinecittà: tra fumo finto e cineprese su carrelli elevatori, Fellini cerca di girare una scena nella quale rievoca un sogno. Intanto arriva una troupe di giapponesi che vogliono intervistarlo e grazie a loro iniziamo a scopriretrucchi e segreti del suo mestiere.

Il maestro ha in mente un film sul suo arrivo a Cinecittà nei primo anni ’40 per intervistare una famosa star e nella parte di se stesso da giovane ha chiamato un giovanissimo Sergio Rubini. Un salto in sala trucco e poi si gira. Più tardi ci porta alla ricerca dei personaggi per il suo prossimo film (America di Kafka): per i provini arrivano uomini e donne di tutte le età beccati per caso in metropolitana.

Nel frangente da una finestra spunta Marcello Mastroianni che nei panni di Mandrake sta girando una pubblicità. Quale migliore occasione per andare con Rubini e Mastroianni a trovare Anita Ekberg nella sua villa alla periferia di Roma?

INTERVISTA

Seguendo Fellini nelle sue attività, passiamo dai set cinematografici di Cinecittà a riprese in movimento tra paesaggi romani e bucoliche periferie, scoprendo tra attrezzi di scena e cartapesta, i retroscena della preparazione di un film. Ma questa è solo un’aspetto del film perchè Fellini, come un abile giocoliere ci fa passare dal mondo frivolo e spesso comico del cinema alla realtà: e allora ci ritroviamo con Mastroianni e Rubini a casa di Anita Ekberg e insieme a loro rivediamo alcune scene de La dolce vita.

LE DONNE FELLINIANE

In questi pochi minuti di film è secondo me lampante l’amore e la devozione che Fellini aveva per le donne (quelle che Rubini nel suo intervento ha chiamato le donne felliniane). Ritroviamo una Anita Ekberg ovviamente più invecchiata ed appesantita rispetto a quando ha girato il film che l’ha resa famosa: eppure, nonostante il confronto con se stessa trent’anni prima, Fellini riesce a darle un fascino ed una dolcezza incredibile:

 

IL SOGNO E IL SORRISO

Come è anche incredibile la visione onirica che Fellini sa mettere in ogni suo film: sia che ci troviamo sul set che fuori, la sensazione è sempre quella di vivere la scena come se fossimo in un sogno. Può quindi capitare per esempio di ritrovare la troupe improvvisamente sotto la pioggia costretta a montare un campo provvisorio dove dormire mentre fuori piove.

Non mancano poi le scene comiche, come quelle dei discorsi in macchina tra Fellini, Rubini e Mastroianni o dei due operai che stanno allestendo un set:

LE CRITICHE

Alcuni hanno voluto vedere nell’Intervista una forma di autocompiacimento del regista, quasi che, con narcisismo, avesse voluto trasportarci nella grandezza del suo mondo.
Altri hanno sottolineato la sua profetica visione del futuro della televisione: in una scena alcuni indiani con antenne televisive al posto delle lance attaccano la troupe, a voler significare l’attacco al cinema delle reti televisive.

CONCLUDENDO

Intervista è stato il penultimo film di Fellini (è del 1987), dalle sue parole un film

Anomalo, asistematico, irripetibile, girato in presa diretta, un film sul cinema, sulla sua magia, sui suoi incantesimi, sulle luci, sulle ombre, sull’illusione, sui sogni che sono il cinema. Non ha mai fatto film di ricordo (neppure Amarcord lo era) ma sempre di memoria e siccome il cinema si è preso tutta la mia vita, parlando di cinema, parlo di me. I miei sono film di memoria: i ricordi sono aneddoti e possono venire alterati a seconda dello stato d’animo del narratore, la memoria invece è come il sentimento, è te stesso, quello di cui sei fatto, lascia intravedere quel passato che porti sempre con te è come uno spessore, una profondità maggiore del presente.

Vorrei riprendere le parole che Sergio Rubini ha detto parlando dei film del Maestro: i film di Fellini sono sempre stati descritti come difficili, eppure rivedendoli ora sono di una semplicità incredibile.

Intervista è uno di questi: ti immerge in questo sogno che è la produzione di un film dandoti l’impressione di entrare ed uscire dal set, di guardare il film da spettatore e poi di entrarci da attore.

 
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Predestination

Post n°13452 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 


Un agente della polizia temporale indaga su un caso di terrorismo. C'è una bomba pronta ad esplodere in un certo luogo e in un certo punto del tempo, eppure non riesce ad impedire la detonazione nonostante i tentativi che quasi gli costano la vita. I molti viaggi che deve compiere lo portano ad incontrare, reclutare e parlare con diverse persone che forse lo possono aiutare nella missione, tuttavia il continuo muoversi lungo la linea tempo sta cominciando a creare un po' di confusione nella sua testa.
Pensato come un rompicapo filmico, Predestination non nasconde fin dalla prima scena il meccanismo di svelamento parziale di ogni movimento su cui si basa. Per adattare "Tutti i miei fantasmi" di Robert Heinlein, i fratelli Spierig scelgono la strada impervia del gioco a nascondino con il pubblico. La medesima trama che su carta stampata si avvantaggia dell'impossibilità per il lettore di "vedere troppo", lasciando che descrizioni parziali creino quei buchi necessari allo svelamento che verrà, sullo schermo deve vivere di inganni continui. I volti, i fisici, le persone e i ritorni che lo spettatore potrebbe riconoscere da subito (di fatto rovinando il successivo effetto sorpresa), sono celati, mascherati, truccati o resi irriconoscibili con un armamentario di trucchi che vanno ai più poveri ai più ricchi.
C'è un'ambizione smisurata in quest'idea di cinema, quella di realizzare un'opera che sembra impossibile da mettere in scena mantenendo segreto il finale. Lo stesso i fratelli Spierig si imbarcano con ardimento nell'impresa di rendere semplice e diretta una trama che è esattamente il suo contrario, tentano di comunicare per immagini quel che sembra possa avere effetto solo a parole. Il risultato è ambiguo, vive di ottimi momenti e idee molto forti (il clichè del viaggio nel tempo è reso attraverso una suggestiva sparizione subitanea e potente, come se l'essere umano smettesse di esistere fragorosamente) ma anche di una certa fatica nelle lunghe spiegazioni e spesso di un po' di pigrizia, come nel caso del lungo racconto effettuato da uno dei personaggi, che di fatto abdica alla parola quel che spetterebbe alla messa in scena.
Il gioco del gatto col topo che Predestination conduce con lo spettatore forse necessitava di un minimalismo e una maestria più alte per raggiungere la perfezione, ma è indubbio che la coerenza con la quale Michael e Peter Spierig scrivono e dirigono questa piccola chicca di fantascienza travalichi i limiti del genere. Appassionati di labirinti mentali, ampi scenari fantastici in cui muovere i personaggi e piccoli mondi a parte come quello alternativo diDaybreakers, i due autori stavolta hanno animato un universo tra il noir e la fantascienza con la perizia degli ingegneri.
Il loro è cinema di architettura, film come cattedrali, apparentemente semplici ma sorretti da meccanismi complessi che la narrazione si sforza di rendere comprensibili. In questo caso la furia dei molti viaggi nel tempo del protagonista provoca un continuo spaesamento, che però suona corretto. Gli spettatori come il povero viaggiatore vivono spesso di una inconsapevolezza confusionaria, incapaci di comprendere al volo luogo e tempo dell'azione si trovano in una storia di cui comprendono solo piccoli pezzi, almeno fino al finale.

 
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Leviathan

Post n°13451 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 


Kolia vive in una remota località rurale nel nord della Russia, vicino al mare. In quel piccolo paese un sindaco prepotente e corrotto ha deciso di volere per sè le terre di Kolia e cerca quindi di comprarle. Ex-militare e uomo dal temperamento violento e coriaceo, Kolia non solo non accetta ma si scaglia con violenza in una causa legale per mettere in mutande il sindaco stesso. Ad aiutarlo c'è un amico, avvocato di Mosca, con lui sotto le armi e molto determinato nel fermare quest'abuso.
Viene dritta dal libro di Giobbe questa parabola umana di disperazione ma è asciugata completamente da qualsiasi forma di speranza o fiducia in Dio (e figuriamoci nella Chiesa!). I disastri nella vita del protagonista infatti si susseguono uno dopo l'altro ma non è tanto la volontà di Satana a metterlo alla prova, quanto più prosaicamente l'accanimento del sindaco cioè della forma minore di potere statale che si possa incontrare. 
Dividendo con molta cura il film in due parti, una prima iniettata di pesanti dosi di ironia contro tutti (il popolo russo, le abitudini malsane legate al bere, la propria storia politica...) e una seconda in cui prende piede sempre di più il destino di sofferenza del protagonista, Zvyagintsev riesce a costruire un mondo al limite dell'umano in cui paesaggi desolati svelano con sempre maggiore decisione la totale solitudine umana. Quelle lande che Il ritorno aveva esplorato attraverso il viaggio qui appaiono statiche, immobili, ferme e proprio per questo agghiaccianti.
Tra relitti di un'altra epoca (case distrutte, imbarcazioni sventrate...) e relitti di esseri viventi (un gigantesco scheletro di Balena che non può non far pensare al Leviatano del titolo) si muovono uomini che lentamente perdono tutto ad opera proprio di quello stato del quale dovrebbero essere parte fondante, che dovrebbe garantire le loro libertà nella visione dell'altro Leviatano, quello di Hobbes. È infatti con un certo rigore e una chiarezza espositiva che non lascia dubbi che Zvyagintsev raduna intorno ad un tavolo i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) nel momento in cui il sindaco pianifica il suo contrattacco. Didascalicamente mette lo stato nella forma più alta (c'è una geniale preponderanza nella fotografia della classica foto di Putin sul muro dell'ufficio del sindaco) a tramare, a braccetto con il potere ecclesiastico. Con equilibrismo invidiabile Leviathan riesce in questo modo a non dare mai l'impressione di accanirsi sui protagonisti ma semmai di condurli in un percorso di sofferenza imputabile ai personaggi e non al sadismo dell'autore. Nel clima desolato in cui è immersa la storia l'impressione è che quella sia l'unica possibile strada per tutti coloro i quali decidono di alzare la testa.
A chiudere la parabola c'è un finale di alto valore simbolico (specie se raffrontato a quello con cui nella Bibbia si chiudono le peripezie di Giobbe, cioè con la restituzione delle sue fortune raddoppiate) che fa piazza pulita di qualsiasi similitudine biblica e dimostra come il film abbia usato una parabola tra le più conosciute dall'uomo per svelare la mancanza di un senso superiore nelle vite individuali. La chiesa non è un conforto e in nessuno degli incredibili paesaggi che costellano tutto il film sembra di intuire una presenza superiore che regoli tutto, solo il silenzio del vento e il vuoto delle anime.

 
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Zona d'ombra

Post n°13450 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Zona d'ombra - Una scomoda verità

Un giorno di settembre del 2002, l'anatomopatologo Bennet Omalu, nigeriano emigrato a Pittsburgh, ancora non perfettamente al passo con l'America e le sue passioni, si trova a dover indagare la causa della morte di Mike Webster, leggenda del football americano, finito in disgrazia a vivere in un pick-up, tormentato da spaventose emicranie. Omalu è uno che fa ridere i colleghi, perché parla con i morti, vive il suo lavoro come una missione e non lascia mai perdere. Per questo, paga di testa propria i costosi esami al cervello di Iron Mike e scopre una verità a dir poco scomoda, che mette in breve in pericolo la sua carriera e persino la sua famiglia. 
"Diciamo che possiedi una multibilionaria lega di football. E diciamo che la comunità scientifica - a cominciare da un giovane patologo di Pittsburgh per continuare con un coro di neuroscienziati da tutto il Paese- viene da te e ti dice che i traumi da scontro stanno facendo impazzire i giocatori, li stanno rendendo pazzi al punto da uccidersi, e lì, nei tessuti del cervello, c'è la prova di tutto questo. Ti unisci agli scienziati e provi a risolvere il problema, o usi il tuo potere per screditarli?" È questo il punto dell'articolo di Jeanne Marie Laskas, apparso su GQ, che per primo ha fatto conoscere al mondo il dottor Omalu e che ha ispirato il film di Peter Landesman, già autore di un accattivante per quanto televisivo dietro le quinte ospedaliero dell'assassinio di JFK (Parkland). 
Con Zona d'ombra Landesman non fuga le perplessità e anzi le nutre abbondantemente. Lo spettro di Insider di Michael Mann aleggia sull'intero concept del film, ovvero la lotta di Davide contro il Golia di uno sport che, a Pittsburgh in particolare, ha investito pesantemente nell'occupazione della popolazione e nella costruzione di uno stadio che è un vero e proprio elefante in salotto, e ogni qualvolta fa la sua apparizione, il film di Landesman impallidisce, incapace di reggere il confronto a qualsiasi livello. Anche senza scomodare termini di paragone, però, Zona d'ombra sembra impegnarsi nel rendersi la vita difficile la vita con le proprie mani: tarato da un'inspiegabile e poco funzionale linearità estrema del racconto, non potendo contare su un numero sufficiente di ostacoli (Omalu non ha avuto la strada spianata, ha sofferto e fatto soffrire, ma la fortuna ha anche girato non poco la ruota dalla sua parte) sposta il fuoco dalla battaglia legale, tutto sommato esterna al personaggio, alla sua lotta interiore per vedere riconosciuto il proprio valore in terra d'America, il paese che tramuta i sogni in realtà, il paradiso dei self-made men. 
È così che il neuropatologo interpretato da Will Smith con forte accento buonista, citando Dio ad ogni piè sospinto, confonde ricerca della verità e ambizione personale, probo idealismo e retorica superflua, lasciando più delusi che perplessi.

 
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Left behind

Post n°13449 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Left Behind - La profezia

Ray Steele è un comandante dell'aviazione civile che ha ormai un difficile rapporto con la consorte Irene dedita in modo radicale alla lettura delle Sacre Scritture. Tanto che il giorno del suo compleanno preferisce accettare un volo per Londra piuttosto che rimanere a casa con la moglie e con la figlia Chloe, tornata per l'occasione. Ray ha anche una liaison con una hostess e Chloe se ne accorge proprio mentre in aeroporto conosce il giornalista televisivo Buck Williams di cui si innamora al primo sguardo. Il volo decolla e Chloe arriva a casa da mamma e fratellino ma, di lì a poco, succede qualcosa di sconvolgente: su tutto il pianeta milioni di persone scompaiono. Anche sull'aereo pilotato da Ray nonché tra i suoi cari.
Nicolas Cage si era già confrontato con tematiche relative alla religione. L'occasione migliore gli era stata offerta in Al di là della vita. Dietro alla macchina da presa c'era Martin Scorsese, qui invece c'è un certo Vic Armstrong più famoso come stuntman che come regista (questo è il suo secondo film e il primo risale a più di vent'anni fa). Ci si chiede perché Cage ogni tanto abbia il bisogno di affidarsi a mani inesperte e ad accettare remake di bassa qualità. Nel passato (tanto per fare un esempio) si andò a confrontare, in Il prescelto, con un cult movie che aveva come fulcro Christopher Lee, perdendo nel confronto. Qui ci si rifà a un film del 2001 con protagonista Kirk Cameron e quindi l'impresa poteva apparire più semplice. 
Il problema è che il plot di base vorrebbe entrare nel filone 'fine del mondo' ma lo fa con accenti talmente manichei da risultare risibile. I buoni si ritrovano tutti da una parte (allo spettatore spetta scoprire quale, facendo riferimento a un passo biblico che magari ricorda) mentre i 'cattivi' vengono caratterizzati con tipologie davvero monodimensionali: il fedifrago, il rancoroso, l'arabo (poteva mancare?), la tossicodipendente ecc. Non è possibile rivelare di più, pena l'anticipare quel poco di sorpresa che il film offre nel suo continuo alternarsi tra la situazione dell'aereo in volo e ciò che accade a terra. Tra le innumerevoli domande che ci si possono porre una nasce sul finale: perché compiere tutti quegli sforzi se... ?

 
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Selma

Post n°13448 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Selma - La strada per la libertà

Nella primavera del 1965 un gruppo di manifestanti, guidati dal reverendo Martin Luther King, scelsero la cittadina di Selma in Alabama, nel profondo sud degli Stati Uniti, per manifestare pacificamente contro gli impedimenti opposti ai cittadini afroamericani nell'esercitare il proprio diritto di voto. 
L'afroamericana 42enne Ava DuVernay, miglior regista al Sundance Film Festival del 2012 per Middle of Nowhere, sceglie a sua volta quell'episodio storico come cartina di tornasole della battaglia per i diritti civili in America e offre un ritratto complesso e sfaccettato di una delle personalità più influenti e meno cinematograficamente documentate del passato americano. DuVernay realizza una serie di piccoli miracoli: primo fra tutti togliere MLK dall'agiografia per restituirci la sua umanità, comprensiva di dubbi, sconfitte e cedimenti, senza per questo (o anzi, proprio per questo) sminuire la sua statura etica e politica e la sua importanza nell'evoluzione di una coscienza civile collettiva. L'interpretazione di David Oyelowo (già protagonista di Middle of Nowhere), incomprensibilmente privata di una candidatura all'Oscar, è da brividi, soprattutto in lingua originale, durante la riproposizione dei discorsi pubblici del Dottor King che iniziano in tono sommesso e si gonfiano di travolgente potenza retorica, culminando nei toni trascinanti della predica che ricordano al pubblico la formazione religiosa del pastore protestante e la convinzione che ha sostenuto la sua capacità di resistere pacificamente a umiliazioni e violenze, spingendolo verso un traguardo alto e collettivo - una lezione quanto mai adatta ai nostri tempi su come un credo dovrebbe essere strumento di elevazione spirituale e di rifiuto della barbarie, non di aggressione e oppressione.
La storia raccontata da Selma restituisce alla politica il suo significato superiore. Le scelte di King sono dettate dal bene comune, il suo infallibile istinto gli fa compiere gesti anche impopolari ma di lungimiranza storica inconfutabile, e illustra la necessità (e fondamentale nobiltà) della negoziazione politica indirizzata verso un fine ultimo elevato. La capacità di King di non accontentarsi del successo temporaneo per tenere lo sguardo fisso sulla meta finale è un saggio narrativo (anche questo adatto ai nostri tempi) su ciò che differenzia un leader da un politicante. Parallela la sua determinazione a non sacrificare vite ed entusiasmi, da lui stesso suscitati, all'altare dell'opportunità politica, e la sua volontà, spesso impopolare fra i "fratelli neri", di cercare un consenso universalmente condiviso a sostegno dei diritti civili, componente imprescindibile della sua gestione illuminata. Tutto questo lavoro pedagogico sarebbe importante ma non cinematograficamente memorabile se DuVarnay non l'avesse veicolato attraverso una forma filmica che combina resoconto documentario (con commoventi spezzoni finali, anche della storica marcia su Washington del '63) e racconto intimo dei travagli personali dei personaggi, facendoci sentire fisicamente la loro paura nel farsi parte della storia e rendendo contemporanea, hic et nunc, una vicenda a noi cronologicamente lontana, le cui ricadute sono però assai visibili nel presente di tutti. La regista mette a nudo il cuore segreto dell'America, si infiltra dietro porte chiuse per riportare conversazioni segrete e dare contezza di confessioni sussurrate. Anche la scelta di mostrare il diverso peso che la protesta per i diritti civili ha rappresentato nella vita delle diverse generazioni, e del maschile e femminile, declina la storia (magistralmente articolata dallo sceneggiatore, Paul Webb), e la Storia, secondo coordinate anagrafiche e di genere, e delinea la capacità del movimento per i diritti civili di essere seminale per il futuro, ma anche determinante per il presente di chi era già adulto, o magari anziano, ai tempi di MLK.
La cifra artistica della DuVernay risiede nella sua capacità muscolare di attaccare frontalmente un mito, e una vicenda spartiacque, senza alcun timore reverenziale e con un profondo rispetto della complessità degli eventi e delle persone, senza lasciarsi spaventare dall'ampiezza dell'arazzo ma senza nemmeno perdere di vista la precisione del dettaglio, e nel conferire alla storia, all'interno di un impianto narrativo classico, una dimensione onirica e allucinata a metà fra l'orrore e la fiaba in alcuni passaggi-chiave, come l'omicidio delle quattro ragazzine nell'esplosione della chiesa di Birmingham o la confessione "metafisica" dei tradimenti fatta alla moglie dal reverendo. E nella sequenza finale la regista si concede lo sfizio di attingere al western, con il risultato di potenziare ulteriormente la statura mitologica dell'evento clou di Selma, codificato attraverso un genere che fa parte della costruzione dell'èposcinematografico yankee. La tecnica registica della DuVernay è, in un aggettivo, seduttiva, nel senso che attira gli spettatori dentro il racconto impedendo ogni distanza emotiva, e li affabula attraverso la potenza di immagini sensuali anche quando racconta episodi "di cronaca", per restituire a personaggi resi bidimensionali dai libri di Storia, come il presidente Lyndon Johnson, una terza dimensione fatta di umanità fragile e fallibile. Selma è genuinamente emozionante, non manipola né le coscienze né i sentimenti, ma li risveglia dallo stesso torpore di cui sono imbevute alcune scene del film, che ci ricordano come anche i grandi della Storia siano stati uomini spaventati dalla responsabilità delle loro decisioni. 
Selma ripassa l'abc di ciò che serve, a livello umano e politico, per scardinare un sistema, e quanto questo può costare, a livello individuale, ma anche quanto ne valga la pena, a livello collettivo e di "decisione del proprio destino come esseri umani".

 
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Left behind

Post n°13447 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Left Behind - La profezia

Ray Steele è un comandante dell'aviazione civile che ha ormai un difficile rapporto con la consorte Irene dedita in modo radicale alla lettura delle Sacre Scritture. Tanto che il giorno del suo compleanno preferisce accettare un volo per Londra piuttosto che rimanere a casa con la moglie e con la figlia Chloe, tornata per l'occasione. Ray ha anche una liaison con una hostess e Chloe se ne accorge proprio mentre in aeroporto conosce il giornalista televisivo Buck Williams di cui si innamora al primo sguardo. Il volo decolla e Chloe arriva a casa da mamma e fratellino ma, di lì a poco, succede qualcosa di sconvolgente: su tutto il pianeta milioni di persone scompaiono. Anche sull'aereo pilotato da Ray nonché tra i suoi cari.
Nicolas Cage si era già confrontato con tematiche relative alla religione. L'occasione migliore gli era stata offerta in Al di là della vita. Dietro alla macchina da presa c'era Martin Scorsese, qui invece c'è un certo Vic Armstrong più famoso come stuntman che come regista (questo è il suo secondo film e il primo risale a più di vent'anni fa). Ci si chiede perché Cage ogni tanto abbia il bisogno di affidarsi a mani inesperte e ad accettare remake di bassa qualità. Nel passato (tanto per fare un esempio) si andò a confrontare, in Il prescelto, con un cult movie che aveva come fulcro Christopher Lee, perdendo nel confronto. Qui ci si rifà a un film del 2001 con protagonista Kirk Cameron e quindi l'impresa poteva apparire più semplice. 
Il problema è che il plot di base vorrebbe entrare nel filone 'fine del mondo' ma lo fa con accenti talmente manichei da risultare risibile. I buoni si ritrovano tutti da una parte (allo spettatore spetta scoprire quale, facendo riferimento a un passo biblico che magari ricorda) mentre i 'cattivi' vengono caratterizzati con tipologie davvero monodimensionali: il fedifrago, il rancoroso, l'arabo (poteva mancare?), la tossicodipendente ecc. Non è possibile rivelare di più, pena l'anticipare quel poco di sorpresa che il film offre nel suo continuo alternarsi tra la situazione dell'aereo in volo e ciò che accade a terra. Tra le innumerevoli domande che ci si possono porre una nasce sul finale: perché compiere tutti quegli sforzi se... ?

 
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Left behind

Post n°13446 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Left Behind - La profezia

Ray Steele è un comandante dell'aviazione civile che ha ormai un difficile rapporto con la consorte Irene dedita in modo radicale alla lettura delle Sacre Scritture. Tanto che il giorno del suo compleanno preferisce accettare un volo per Londra piuttosto che rimanere a casa con la moglie e con la figlia Chloe, tornata per l'occasione. Ray ha anche una liaison con una hostess e Chloe se ne accorge proprio mentre in aeroporto conosce il giornalista televisivo Buck Williams di cui si innamora al primo sguardo. Il volo decolla e Chloe arriva a casa da mamma e fratellino ma, di lì a poco, succede qualcosa di sconvolgente: su tutto il pianeta milioni di persone scompaiono. Anche sull'aereo pilotato da Ray nonché tra i suoi cari.
Nicolas Cage si era già confrontato con tematiche relative alla religione. L'occasione migliore gli era stata offerta in Al di là della vita. Dietro alla macchina da presa c'era Martin Scorsese, qui invece c'è un certo Vic Armstrong più famoso come stuntman che come regista (questo è il suo secondo film e il primo risale a più di vent'anni fa). Ci si chiede perché Cage ogni tanto abbia il bisogno di affidarsi a mani inesperte e ad accettare remake di bassa qualità. Nel passato (tanto per fare un esempio) si andò a confrontare, in Il prescelto, con un cult movie che aveva come fulcro Christopher Lee, perdendo nel confronto. Qui ci si rifà a un film del 2001 con protagonista Kirk Cameron e quindi l'impresa poteva apparire più semplice. 
Il problema è che il plot di base vorrebbe entrare nel filone 'fine del mondo' ma lo fa con accenti talmente manichei da risultare risibile. I buoni si ritrovano tutti da una parte (allo spettatore spetta scoprire quale, facendo riferimento a un passo biblico che magari ricorda) mentre i 'cattivi' vengono caratterizzati con tipologie davvero monodimensionali: il fedifrago, il rancoroso, l'arabo (poteva mancare?), la tossicodipendente ecc. Non è possibile rivelare di più, pena l'anticipare quel poco di sorpresa che il film offre nel suo continuo alternarsi tra la situazione dell'aereo in volo e ciò che accade a terra. Tra le innumerevoli domande che ci si possono porre una nasce sul finale: perché compiere tutti quegli sforzi se... ?

 
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La vita oscena

Post n°13445 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

 
Locandina La vita oscena

Andrea è un adolescente innamorato della poesia e della madre, giovane e gioiosa che vede spegnersi lentamente a causa del cancro. Ma prima di sua madre è il padre a congedarsi, stroncato da un ictus e dal male senza guarigione della sua compagna. Rimasto solo con le sue parole e l'ingestibile lutto materno, Andrea smette di 'funzionare' e interrompe ogni azione, ogni volontà di vita. Un incidente domestico 'deflagra' però la sua esistenza, costringendolo a lasciare il letto e a scivolare di nuovo sul suo skateboard e dentro la vita. Ottenuto un posto in un patronato scolastico con il suo talento e l'intervento del suo professore d'italiano, Andrea si trasferisce a Milano, dove medita il suicidio, perseguendolo con metodo, disciplina, psicofarmaci, cocaina e sesso bulimico. Ma diversamente dal suo ispiratore, il poeta austriaco Georg Trakl, Andrea non ha ancora finito con la vita.
Trasposizione del dolente e sovvertente romanzo di Aldo Nove, La vita oscena conferma l'interesse di Renato De Maria per i personaggi che vanno incontro al nulla avendo come unica colpa l'innocenza. Ma questa volta il protagonista, nonostante il divorante bisogno di sperimentazione e di ordalie iniziatiche, sopravvivrà, trascendendo l'aneddoto e muovendosi verso l'universale. Dopo aver messo in schermo la vita perfetta e al contempo inadeguata di Andrea Pazienza (Paz!), De Maria traduce in immagini trattenute e allentate la biografia di Antonio Centanin, in arte Aldo Nove. Scampato alla morte, ambita e lambita in seguito alla dipartita dei genitori, lo scrittore ha consegnato diversi anni dopo al linguaggio letterario la propria traiettoria esistenziale, ripatteggiando, ricucendo e riconciliandosi col presente. E il magma lavico dell'esperienza patita da Nove è quello che manca alla sua versione cinematografica, che si trattiene al di qua dell'osceno e dello scarto destabilizzante della parola scritta, capace di narrare ma soprattutto di aprire lo spazio di fronte a sé. 
Quella dimensione nel film di De Maria resta inesplorata e il feroce spasimo fuori scena, forse per non urtare lo spettatore, forse per scoraggiarne il voyeurismo, forse per non rischiare la pornografia del dolore. Gli 'effetti speciali', funzionali a interpretare i fantasmi di Andrea e a riprodurre il mondo allucinato dalla droga, impediscono al film di 'soffrire', di incarnare l'abuso di piacere e afflizione. Nondimeno La vita oscena diventa stimolo per una liberazione, un'occasione di fuga dal mondo uniformato e uniformante del cinema italiano, trovando un linguaggio instabile, uno sguardo eccitato e un protagonista ardente e credibile nel convertire la maledizione in elezione. 
Clément Métayer, giovanissimo fenomeno del cinema francese, dischiuso dal maggio di Olivier Assayas (Qualcosa nell'aria), incarna straordinariamente il pensiero autobiografico di Nove e le sue derive intimistiche, trasformando in corpo la dimensione informe del dolore. Se Andrea Pazienza trasfigurava vita e rifiuto col disegno, l'Andrea di De Maria lascia che la memoria di chi ha amato attraversi l'imbuto stretto del linguaggio, producendo pagine di poesia e una corsa febbrile, che è il grande motivo del film. Una corsa che dietro l'apparenza della resa urla (dentro) la volontà del protagonista di restare nel flusso della vita e nella sua circolarità (im)perfetta. 
Ipercinetico e avviato verso il consumo incontinente di oggetti perfetti e già morti il giorno dopo il loro trionfo, il film è ambientato nella Milano da bere e negli anni della Marlboro's way of life, La vita oscena è un 'romanzo' di formazione rincorso dal dolore di un lutto e alla ricerca di un confine con cui marcare la propria esperienza e il proprio mondo. Con cui testimoniare la vita, che è poi la vita (oscena) di tutti.

 
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