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Messaggi del 11/01/2017

 

Necessaria una commissione internazionale di giornalisti per Aleppo Est © REUTERS/ Ammar Abdullah da sputnik

Post n°13545 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 



MONDO 16:53 10.01.2017URL abbreviato 0 26970 Jean-François Kahn, direttore della rivista Marianne, ha pubblicato martedì un articolo con il titolo "Siria: un'altra vittima è l'accuratezza delle informazioni". Sputnik ha parlato con il giornalista e media-manager. Senza mettere in dubbio la sincerità dei giornalisti, Jean-François Kahn si chiede perché, nella copertura degli eventi in Siria, i suoi colleghi sono più in sintonia con i ribelli, che con il governo, qualunque esso sia. Come sempre, Jean-François Kahn difende il diritto di porre domande. E se molti giornalisti francesi hanno preso le parti della cosiddetta opposizione moderata ad Aleppo, il fondatore della riviste l'Evénement du jeudi e Marianne, si chiede quanto profondamente i suoi colleghi hanno cercato di analizzare chi sono in realtà i ribelli, che sono o se sono peggio di altri, come dimostra la situazione in Algeria o in Afghanistan. Con la certezza che "l'islamizzazione del movimento di protesta ha avuto inizio nel 2013 alimentato dall'Arabia Saudita, Qatar e Turchia", Jean-François Kahn ha sottolineato che "un'opposizione, con valori umanistici, socialdemocratici, socialisti e liberali, non prenderà istintivamente le armi come i partigiani". Jean-François Kahn è sicuro della sincerità dei colleghi giornalisti, rimprovera loro però di avere una visione limitata della situazione, che si riduce a pensare che "in lotta contro i cattivi, altri cattivi non ci possono essere". Commentando il racconto di un residente est di Aleppo su ciò che accade sul posto, Jean-François Kahn ha risposto: "ho potuto rispondere in fretta e dire, ecco, vedete, è la prova della mia affermazione sul fatto che l'opposizione moderata quasi non esisteva, ma cerco di essere onesto con me stesso, dicendo che si tratta solo di una delle prove, e la testimonianza non è una prova assoluta". In Francia un commento così discreto non si sente spesso, questo distingue positivamente un giornalista che lavora alla "vecchia maniera". In conclusione del suo articolo, Jean-François Kahn si è rivolto al pubblico con un appello per creare una commissione giornalistica ad Aleppo: "dobbiamo richiedere una commissione internazionale, che andrebbe ad Aleppo est, per fare un'indagine e raccontare ciò che è accaduto in realtà. Per concludere se si è sbagliato, per fare luce sulla situazione". Questo appello difficilmente verrà ascoltato, in particolare perché la stampa francese non mostra di voler ascoltare le ragioni del giornalista.

Leggi tutto: https://it.sputniknews.com/mondo/201701103909689-aleppoest-giornalisti-commissione/

 
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Silence: la recensione del controverso dramma di Martin Scorsese da anonimacinefili.it

Post n°13544 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Martin Scorsese non è certo nuovo ai temi religiosi, e il suo straordinario e sottovalutato L’ultima tentazione di Cristo (un provocatorio capolavoro con Willem Dafoe nei panni di Cristo, Harvey Keitel in quelli di Giuda, David Bowie in quelli di Pilato e con le musiche di Peter Gabriel) è diventato un esempio di quanto anche una parabola cristologica possa esser riletta con grandissimo coraggio e spirito critico, mettendo in discussione noi come le nostre certezze.
Per il suo ritorno sul tema con Silence quindi le aspettative erano particolarmente alte, considerato che si tratta del ‘film di una vita’; un progetto cui il regista italoamericano lavora da 28 anni, da quando cioè nel 1988 l’arcivescovo Paul Moore gli regalò e raccomandò una copia del romanzo Silence proprio durante una speciale proiezione stampa di L’ultima tentazione di Cristo.

LA TRAMA
Silence
 è scritt0 da Scorsese – la cui ultima sceneggiatura per il cinema risaliva al 1995 – con Jay Cocks e ripropone quasi pedissequamente le vicende narrate nell’omonimo libro di Shusako Endo (titolo originale Chinmoku). Nel Portogallo del 1642 l’ordine dei Gesuiti invia i giovani padres Rodrigues (Andrew Garfield) e Garupe (Adam Driver) in Giappone, a verificare se il loro mentore Padre Ferreira (Liam Neeson) abbia veramente fatto apostasia come si dice. Da subito la ricerca di Padre Ferreira si rivelerà tutt’altro che facile – tanto che lo vedremo solo nel prologo e in chiusura della storia – e la vera missione dei due si rivelerà quella di non rinnegare la fede mentre si ritroveranno a dare sostegno ai contadini nipponici (inspiegabilmente tutti cattolici e abilissimi nella lingua portoghese), vessati dalla minaccia delle disumane torture dell’inquisizione ‘buddista’ capitanata da Inoue Masahige (uno straordinario Issei Ogata, già visto ne Il Sole di Aleksandr Sokurov).

IL FILM PIÙ BELLO DI SCORSESE
Su una cosa non ci sono dubbi: Silence è il film esteticamente più straordinario di tutta la carriera di Scorsese. La fotografia nebbiosa e desaturata di Rodrigo Prieto, che era già con Scorsese in The wolf of Wall Street, trae il meglio dalla tecnica di ripresa mista (Arri Alexa per il digitale e Arricam LT per il 35mm) e ci consegna un immaginario naturale imponente e meditativo, capace di offrirsi come la tela perfetta per i lunghi silenzi che caratterizzano la pellicola. La composizione dell’inquadratura, sempre ordinatamente asimmetrica, sembra voler sottolineare il divario tra l’ostilità del contesto e l’intimità della fede dei protagonisti, alternando i campi lunghi che ci raccontano montagne, campi e scogliere a primissimi piani il cui compito è restituirci l’emotività del dubbio e della paura (più raccontati che mostrati). Gli straordinari consunti costumi del nostro Dante Ferretti, insieme alle scenografie scarne e infrequenti da lui realizzate con la grande Francesca Lo Schiavo, sono il completamento ideale di questo mondo narrativo.

TRE LUNGHISSIME ORE CON UN GRANDE CAST E UN PESSIMO PROTAGONISTA
Se l’elemento visivo della pellicola funziona meravigliosamente, altrettanto non si può dire per altri aspetti della realizzazione filmica, il più evidente dei quali è la volutamente esasperata lentezza del ritmo narrativo. La scelta di lasciar ‘respirare’ per un tempo interminabile ogni scena è certamente frutto di una volontà artistica intrisa di misticismo, ma il montaggio di Thelma Schoonmaker (da sempre al fianco di Scorsese) e la direzione impartitale dalla regia ci consegnano una pellicola di difficilissima digeribilità, che nell’arco dei suoi lunghissimi 161 minuti soffre di una superflua e a tratti sgradevole ripetitività (si pensi al quasi caricaturale personaggio di Kichijiro, le cui continue reiterazioni finiscono per diventare prevedibilissime e quasi ridicole). E pensare che proprio con L’ultima tentazione di Cristo Scorsese ci aveva mostrato come si possa confezionare un film sulla fede dal ritmo perfetto.
Per quanto poi concerne le performance attoriali, va detto che se Liam Neeson funziona benissimo (nonostante si veda appena sullo schermo) e Adam Driver è perfetto come sempre, altrettanto non si può dire per il protagonista che ci accompagna per tutta la lunghezza del racconto: infatti Andrew Garfield, sempre perfettino e cotonato, mostra una dinamica emotiva assolutamente insufficiente a rendere quella che vorrebbe essere la complessità del suo personaggio e a tratti sembra si ritrovi sul set per puro caso, senza avere idea di cosa passi per la testa del suo character. I danni conseguenti a una scelta di casting tanto sbagliata non possono esser contenuti nemmeno dall’altissimo livello delle interpretazioni del cast giapponese, che oltre allo spietato villain dentuto e sornione di Ogata – unico guizzo di fantasia di un lavoro terribilmente didascalico – ci regala l’intelligente mediazione di Tadanobu Asano, l’iconico ‘folle’ à la Kurosawa di Yôsuke Kubozuka, e i credibilissimi ‘ultimi’ di Yoshi Oida e Shin’ya Tsukamoto.

L’INACCETTABILE SCELTA PROPAGANDISTICA DI RISCRIVERE LA STORIA
Fin qui non abbiamo però discusso dell’aspetto in assoluto meno riuscito di Silence: lo script. Affrontare il tema della fede nel 2016 potrebbe essere un atto tanto coraggioso quanto rivoluzionario: con un occidente che è arido di ogni spiritualismo eppure costantemente minacciato dall’incrollabile fede che anima la ‘crociata’ (mai termine fu più significativo) islamista, una pellicola del genere avrebbe potuto rappresentare una straordinaria opportunità di riflessione; ma ci ritroviamo invece con una gigantesca opportunità sprecata. A dispetto di tante possibilità, Scorsese (evidentemente arrugginito come autore) e il non particolarmente prolifico Cocks si limitano a trascrivere pigramente in immagini un libro del 1966, paradossalmente senza alcuno sforzo di attualizzazione o modernizzazione, come se in cinquant’anni il mondo non fosse cambiato di pezzo. C’è poi da dire che tanto nel libro quanto nel film i toni sono indecorosamente propagandistici, e mentre si racconta di un cattolicesimo puro e santo vessato dal torturatore giapponese, ci si dimentica totalmente che proprio in quegli anni la temibile inquisizione spagnola stava vivendo un vertiginoso aumento dei ‘processi’ (la cosiddetta Rinascita) e quella portoghese estorceva confessioni e abiure tramite la tortura proprio come facevano i Giapponesi. Qui infatti non si fa menzione del potere temporale del Cattolicesimo e di questioni geopolitiche, e i nostri padres sembrano candide contadinelle incapaci di spiegarsi la persecuzione nella terra del Sol Levante: l’unica cosa che interessa ai Cattolici è la verità, come sottolinea più volte Padre Rodrigues. Storicamente inoppugnabile.
Se poi volessimo perdonare l’indigeribile cecità religiosa di Scorsese e concentrarci solo sull’aspetto tecnico, dovremmo comunque segnalare la tediosissima scelta di affidare la quasi totalità della vicenda alla voce narrante del protagonista, con un risultato che – se non ci fosse stato in ballo l’intoccabile Scorsese – la maggior parte della critica non avrebbe perdonato neanche al più inesperto dei videomaker.

SCELTE KITSCH SUSCITANO RISATE NON VOLUTE
Ad adombrare poi ogni pregio della pellicola (e come abbiamo detto ce ne sono molti), ci sono delle scelte che definire kitsch è riduttivo. Tra queste, spicca quella di mostrare in un ruscello il riflesso del volto di Garfield che si trasforma in quello di Cristo: un momento inaccettabile tanto per la grossolanità dell’espediente narrativo, che mostra pigramente quel che si sarebbe potuto suggerire con molta più eleganza, quanto per una penosa realizzazione tecnica, che si fonda su un’illuminazione che sarebbe incoerente anche in un cartone in CGI (la celebre scena di Derek Zoolander che si rispecchia in una pozzanghera è girata meglio). Tale momento non è però il meno riuscito del film, così come non lo sono le riproposizioni macchiettistiche delle richieste di perdono di Kichijiro o il finale retorico e prevedibilissimo: il primato spetta infatti all’inspiegabile scelta di affossare ogni pallido sforzo di profondità e far parlare, con voce calda e sicura, un’icona del Cristo. Al “trample on me” pronunciato dalla voce fuori campo di Gesù, ad esser calpestata è ogni speranza che il film possa risollevarsi. E pensare che per un momento la prospettiva del lost in translation suggerita al suo ritorno da Padre Ferreira aveva fatto sperare in uno straordinario spunto narrativo che rimane invece appena accennato e subito abbandonato.

In conclusione Silence è una pellicola contraddittoria capace di far trasparire tanto il talento e l’ambizione che solo uno dei più grandi registi del nostro tempo potrebbe avere e al contempo fallisce miseramente nel raccontare quello che dovrebbe essere un tema dalle mille sfaccettature e un incontro tra due culture in realtà gemelle come il Giappone e il Cattolicesimo dell’epoca: le massime espressioni di conservatorismo, potere e repressione. Sembra che più che parlare di evangelizzazione, Scorsese voglia evangelizzarci.

 
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The Winds of Winter: George Martin apre all’uscita nel 2017 da talkyseries.it/

Post n°13543 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

George R. Martin ha annunciato che l’attesissimo nuovo capitolo letterario  della saga de “Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” da cui è tratto lo show Game of Thrones potrebbe anche uscire quest’anno.

George R. Martin si è guadagnato l’appellativo di scrittore più sanguinario del mondo grazie a Game of Thrones, ma anche del più lento dato che i fan attendono l’uscita di ” The Winds of Winter ” ormai da 6 anni. Lo scrittore avrebbe dovuto da contratto con il suo editore rilasciarlo lo scorso anno prima della messa in onda della sesta stagione di Game of Thrones su HBO, ma non ce l’ha fatta e la serie ha quindi sorpassato e spoilerato in parte i libri. Finalmente però, dopo che negli ultimi mesi il creatore della saga è stato avvistato in giro per il mondo (leggi della sua visita in Guadalajara) ora è arrivata una notizia incoraggiante per i suoi fan sul suo blog, o forse no.

Game of Thrones

George Martin ha postato un messaggio davvero enigmatico e divertente per rispondere ad un fan, che lascia intavedere scenari positivi per l’uscita di ” The Winds of Winter “:

“Non ancora finito il libro, ma ho fatto progressi. Ma non tanto quanto speravo un anno fa, quando pensavo che a questo punto sarebbe già stato ultimato. Credo che sarà quest’anno. (Ma attenzione, ho pensato la stessa cosa l’anno scorso)”.

Una trollata dunque quella di Martin o un sincero desiderio di porre la parola fine a quella che oramai per i fan più accaniti è diventata una barzelletta? The Winds of Winter doveva già uscire proprio un anno fa quando Martin a gennaio dichiarò di essere a buon punto. Impossibile fidarsi di chi ha scritto inganni del calibro delle “Nozze Rosse”.

 
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Per Fox News “gli americani non credono all'ingerenza russa nelle elezioni” © REUTERS/ Jonathan Drake da sputnik

Post n°13542 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 



MONDO 19:58 06.01.2017URL abbreviato4543140 I cittadini americani non credono che la Russia sia riuscita in qualche modo ad influenzare l'esito delle elezioni presidenziali, ha dichiarato il commentatore di Fox News ed ex governatore dell'Arkansas Mike Huckabee. Ad Huckabee è stato chiesto quale effetto abbia avuto sull'opinione pubblica le recenti audizioni al Senato, in cui è stata sostenuta la tesi secondo la quale gli attacchi hacker sarebbero avvenuti sotto la regia di Mosca. "Non molto grande. Perchè la maggior parte degli americani non crede all'ingerenza russa sul risultato delle elezioni. Anche se venisse provato che hanno violato i nostri sistemi e sono entrati in possesso della corrispondenza di John Podesta (il direttore della campagna elettorale di Hillary Clinton, ndr), non c'è uno straccio di prova su come abbiano influenzato le persone che hanno votato, ancora di più sul modo in cui i russi avrebbero interferito con le elezioni stesse," — ha chiarito Huckabee. Huckabee ha dichiarato che alcuni anni fa Barack Obama e molti membri della sua amministrazione avevano cercato di influenzare il risultato delle elezioni in Israele investendo milioni di dollari. Ma di questo caso non ne parla nessuno negli Stati Uniti, si lamenta l'esperto. L'opinionista ha esortato gli Stati Uniti ad "essere onesti" e ammettere che gli attacchi hacker contro altri Paesi sono nell'ordine delle cose. "Stiamo cercando di penetrare tra i russi, cinesi, nordcoreani, iraniani e tutti: di che abbiamo paura? Se non lo facciamo siamo idioti. Naturalmente lo facciamo", — ha spiegato. Nella prossima settimana la National Intelligence prevede di rendere pubblica una relazione sulle "attacchi degli hacker" da parte della Russia. Secondo il direttore dell'agenzia James Clapper, il documento non conterrà "informazioni sensibili" sulle fonti e sui metodi di indagine. Durante la campagna elettorale, dagli Stati Uniti hanno ripetutamente accusato Mosca di sfruttare gli attacchi hacker per cercare di influenzare l'esito delle elezioni. Le autorità russe respingono questa ricostruzione. Vladimir Putin ha osservato che le lettere trafugate dagli hacker non hanno contenuti che giovano agli interessi della Russia. A sua volta in un'intervista con il Corriere della Sera il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha attirato l'attenzione sul fatto che gli autori di "tali insinuazioni" non hanno fornito alcuna prova riguardo ai tentativi di Mosca di interferire nel processo elettorale americano.

Leggi tutto: https://it.sputniknews.com/mondo/201701063893929-USA-Cremlino-hacker-Russia-russofobia-intelligence-Obama/

 
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Messaggio a Enrico Mentana (e a Beppe Grillo) da megachip

Post n°13541 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Obama ha dato il via a un'imponente operazione militare ai confini della Russia. Nascondere questa notizia è già fare 'fake news' [Giulietto Chiesa]

 

 

di Giulietto Chiesa.

Il presidente uscente Barack Obama ha dato il via a una imponente operazione militare ai confini della Russia. Il nome è "Atlantic Resolve". Quasi 5000 soldati, oltre 4000 carri armati e altri mezzi militari si stanno dislocando. 
Cosa intende fare? Non si sa. 

Ma ricordo che il 29 dicembre Obama dichiarò di avere ordinato "una serie di misure di ritorsione contro la Russia". Motivo? L'hackeraggio (presunto) di Mosca. 

Si vuole forse precostituire una situazione "ingestibile" per il presidente eletto Donald Trump
È ammissibile che un presidente uscente prenda decisioni di questo genere? 
Dobbiamo essere tranquilli? 

Non dimentichiamo che noi siamo alleati di questa gente e siamo tenuti a seguirne le mosse. 
Come scrive Michel Chossudovsky, "sta prevalendo la follia politica". Aggiungo: "militare". 

Ora spiego perché mando questo messaggio a Mentana e a Grillo. Cosa sono le fake news? Sono notizie false. Di cui, com'è noto, sono pieni i giornali e i telegiornali mainstream. Ma fake news è anche tacere, nascondere, notizie di prima grandezza. Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. 
Tacciono invece entrambi.

 
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Dal relativismo alla sindrome da “fake news” da marx21

Post n°13540 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 


Chi per anni ha affermato che la verità non esiste, oggi invoca agenzie statali per intercettare le notizie non vere. Il parere di Vladimiro Giacché, autore de “La fabbrica del falso”

L’anno nuovo sembra essersi aperto con una sindrome che sta contagiando diversi ambienti, quella delle cosiddette “fake news”, le notizie false.

Il leader del M5S, Beppe Grillo, invoca la necessità di formare improbabili giurie popolari con il compito di controllare la veridicità delle notizie diffuse da stampa e tv. Facebook ha elaborato un software che avrebbe la capacità di segnalare agli utenti le notizie ritenute inattendibili. C’è poi chi, come il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, propone un’agenzia statale di vigilanza.

Quest’ultima idea ha suscitato diverse critiche. Molti la paragonano a quegli uffici statali, tipici dei totalitarismi, che hanno il compito di controllare ogni pubblicazione e sequestrare quelle potenzialmente pericolose o esplicitamente ostili al potere. Altri ancora, più in vena letteraria, agitano l’accostamento con il ministero della Verità del libro 1984, di George Orwell.


Tra questi c’è Vladimiro Giacchè, economista e filosofo, presidente del Centro Europa Ricerche, autore de La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (nuova ed. aggiornata 2016). ZENIT lo ha intervistato.

Cosa non la convince della proposta di Pitruzzella?

Mi sembra una proposta sbagliata e pericolosa. Sbagliata per molti motivi. Perché oggi le fake news non passano soltanto attraverso la rete ma anche attraverso i media tradizionali. Perché la menzogna veramente pericolosa non è il singolo enunciato falso, ma la falsa cornice interpretativa generale che viene offerta per certi fatti. E perché spesso la menzogna non si presenta come tale: pensiamo alle mezze verità (per cui ti parlo degli atti di violenza dell’aggredito, ma non ti dico che si sta difendendo da un aggressore), a quello che non ci viene detto (pochi giorni fa un rapporto sulla povertà in Germania è stato depurato dal governo di alcune frasi “spiacevoli”), agli eufemismi che consentono di rendere la verità meno brutta (“uso della forza” per parlare della guerra, “interrogatori rafforzati” al posto di “tortura”, e così via). Ma è anche una proposta pericolosa, perché adombra una sorta di controllo governativo o paragovernativo sulla rete, che può facilmente tradursi nella chiusura di siti non graditi a chi è al potere.

Qualcuno sta coniando un nuovo termine per indicare la nostra epoca: post-verità. Di orwelliano c’è anche la neo-lingua? Quanto è importante il potere delle parole?

Le parole sono importantissime. Harold Pinter diceva che “il linguaggio viene adoperato per tenere a distanza il pensiero”. Questo avviene tutti i giorni, e proprio attraverso i termini chiave del nostro lessico politico. Basti pensare alla metamorfosi che hanno conosciuto parole come democrazia o riforma. Quanti ancora associano al termine democrazia il concetto di “potere del popolo”, che poi dovrebbe essere il suo significato letterale? Angelo Panebianco ha denunciato anni fa che la stessa “democrazia rappresentativa” (concetto comunque già più ristretto di quello di democrazia) “a voler essere realisti, è poco più di un sistema di oligarchie in competizione”. Ancora più clamoroso il caso di una parola come “riforma”. Un tempo le “riforme” indicavano provvedimenti di legge per migliorare la condizione delle persone. Oggi le “riforme” indicano tagli allo Stato sociale e alle pensioni.

Anche complottista è un termine coniato in modo artificiale? Magari per screditare chi la pensa in modo non allineato…

I complottisti ci sono davvero, e ci sono sempre stati. Ma spesso hanno lavorato al servizio del potere: ad esempio i Protocolli dei savi di Sion, un documento falso costruito per dimostrare un presunto complotto degli ebrei, fu opera della polizia segreta zarista. Oggi spesso si usa il termine contro chi mette in dubbio che alcune “verità” del potere siano realmente tali. Anni fa si diede del complottista a chi sosteneva che la famosa fialetta con le armi chimiche di Saddam agitata da Powell all’assemblea dell’Onu fosse una messinscena. All’epoca tutti i principali giornali, anche in Italia, presero per buono quel falso vergognoso. È chiaro che in rete girano molte notizie inventate di sana pianta, ma in genere si attirano il discredito che meritano. E comunque la pericolosità delle sciocchezze sulle scie chimiche è ben diversa da quella delle menzogne sulle armi di distruzione di massa di Saddam, che sono servite a scatenare una guerra in cui sono morte centinaia di migliaia di persone.

Nel libro “La fabbrica del falso” afferma che “la menzogna è il grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo”. Lei ha citato le fialette di antrace agitate da Colin Powell. Qualche altro eclatante esempio?

C’è l’imbarazzo della scelta. Praticamente tutte le più recenti guerre sono state giustificate e vendute all’opinione pubblica attraverso la costruzione di fake news e la loro diffusione attraverso i grandi media. A sostegno della prima guerra in Iraq si disse che i soldati di Saddam avevano staccato la corrente alle incubatrici degli ospedali di Kuwait City, per giustificare la seconda – come abbiamo detto – si tirarono fuori le armi di distruzione di massa, in Libia ci hanno fatto vedere fosse comuni che erano normali cimiteri, per di più fotografati mesi prima. È importante capire che in tutti questi casi la falsa notizia è funzionale a costruire una cornice interpretativa (il dittatore cattivo, pericolo per l’umanità, ecc.): una volta recepita questa interpretazione, le persone collocheranno entro di essa le altre notizie che ricevono, dando meno importanza – o non prendendo in considerazione – quelle che la contraddicono. Ad esempio, nel caso della Siria, i monasteri e le chiese distrutti dai cosiddetti “ribelli” e non dalle truppe governative.

Facebook ha elaborato un software per individuare e segnalare agli utenti le notizie inattendibili. Questo lavoro di vigilanza è affidato alla Poynter Institute, società finanziata dalla fondazione Open Society di George Soros. C’è il rischio che il controllore non sia propriamente super partes…

Sarebbe divertente applicare il software alla notizia che Facebook ha elaborato un software per segnalare le notizie inattendibili: se il software è ben fatto, dovrebbe segnalarla come inattendibile. Scherzi a parte, trovo molto significativo che fondazioni nate (a loro dire) per diffondere gli ideali delle “società aperte” contro i “totalitarismi” finiscano poi per farsi promotrici… della chiusura delle società aperte. E per di più facendo uso di algoritmi e altri strumenti automatici. Non mi sembra un passo avanti. Più in generale, credo che lo stato di salute dei paesi del “libero Occidente” sia ben definito dal ruolo conferito a uno speculatore di borsa che, dopo aver tratto profitto per decenni dalla destabilizzazione dei mercati finanziari, ora con i soldi così guadagnati si dedica a destabilizzare regimi che non gli piacciono e a promuovere “rivoluzioni colorate”.

Eppure fino a ieri ci era stato insegnato che la verità non esiste, che è un retaggio oscurantista medievale, che tutte le opinioni sono uguali e relative. Non evince anche Lei una contraddizione?

La contraddizione c’è eccome. Ma entrambi gli atteggiamenti rappresentano una scorciatoia. Quando si è in difficoltà perché non si riesce a confutare le argomentazioni di qualcuno, spesso si gioca la carta del relativismo, mettendo sullo stesso piano tutte le opinioni (la propria, infondata, e quella altrui, più fondata). Ma anche l’accusa di costruire fake news o di credere ad esse è una via di fuga: in questo caso, dal fatto che non si riesce ad imporre il proprio punto di vista, pur avendo dalla propria parte tutti o quasi gli organi di informazione “ufficiali”. Questo apre un problema gigantesco: chi è legittimato a decidere se una notizia è vera o falsa, e a comminare sanzioni su questa base? In realtà, il fatto di ritenere che non esista qualcosa come la Verità assoluta non impedisce di demistificare un enunciato falso. Ma a mio giudizio questo può e deve emergere dal libero confronto delle opinioni. E deve riguardare tutti i media.

Chi può decidere quando una notizia è falsa?

Ciascuno di noi, se è posto in condizione di esercitare il ragionamento e di verificare contenuti e contesto della presunta notizia. Però, per chi non si occupa professionalmente di queste cose, la possibilità di ragionare è resa complicata dalla velocità con cui le notizie si susseguono e la verifica dei contenuti dalla difficoltà di accesso alle fonti. Precisamente a questo dovrebbero servire i professionisti dell’informazione: a renderci disponibili notizie quanto più possibili verificate, basate su fonti attendibili e riferite con onestà. Come sappiamo, purtroppo le cose spesso non vanno così. È per questo che occorre che ciascuno di noi eserciti in prima persona il proprio senso critico. Nella “Fabbrica del falso” parlo di “strategie di resistenza”, che vanno dalla demistificazione del linguaggio usato per dare certe notizie all’utilizzo delle incongruenze presenti nel discorso ufficiale. Meglio adoperare queste strategie che far decidere a un’agenzia statale se una notizia è vera o falsa.

* Vladimiro Giacché è Vice Presidente dell'Associazione Politica e Culturale Marx XXI

 
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Allied - Un'ombra nascosta

Post n°13539 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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Allied - Un'ombra nascosta

Post n°13538 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Titolo originale: Allied

Poster

Il film racconta la storia dell'ufficiale dei servizi segreti Max Vatan, che nel 1942 incontra nel Nord Africa la combattente della Resistenza Francese Marianne Beausejour in una missione mortale oltre la linee nemiche. Riuniti a Londra, la loro relazione è minacciata dalle estreme pressioni della guerra.

 
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Silence

Post n°13537 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Poster

Silence, l'atteso film sulla fede e la religione del regista premio Oscar Martin Scorsese, racconta la storia di due missionari portoghesi che nel XVII secolo intraprendono un lungo viaggio irto di pericoli per raggiungere il Giappone, alla ricerca del loro mentore scomparso, padre Christovao Ferreira, e per diffondere il cristianesimo. Scorsese dirige Silence da una sceneggiatura scritta da lui stesso con Jay Cocks. Il film, basato sul romanzo di Shusaku Endo del 1966, esamina il problema spirituale e religioso del silenzio di Dio di fronte alle sofferenze umane.

  • SCENEGGIATURAJay Cocks
  • FOTOGRAFIARodrigo Prieto
  • MONTAGGIOThelma Schoonmaker
  • MUSICHEHoward Shore
  • PRODUZIONE: Cappa Defina Productions, CatchPlay, Cecchi Gori Pictures, Fábrica de CineSharp, Sword Films, Sikelia Productions.
  • DISTRIBUZIONE: 01 Distribution
  • PAESE: USA
  • DURATA161 Min

 

NOTE:

Scorsese ha iniziato a lavorare ad un adattamento del romanzo di Shusaku Endo per il grande schermo insieme a Jay Cocks alla fine degli anni 80. Silence doveva essere il suo prossimo film. Ma il destino aveva in serbo uno scenario diverso. Si sono presentati molti problemi, non ultimo quello che riguardava il reperimento dei finanziamenti per un progetto così complesso, e la sceneggiatura è finita in un cassetto. Ci sono voluti oltre 25 anni per completare il lavoro.

 
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Film nelle sale da domani

 

'Il Monello', un sorriso e una lacrima. Nascita del cult di Chaplin da la repubblica

Post n°13535 pubblicato il 11 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Nelle sale il 9 gennaio la versione restaurata del primo lungometraggio di Charlot, abbinato ad un altro film di Buster Keaton. Un'occasione per riscoprire un capolavoro che è entrato nella storia del cinema

Un bambino birichino, che soppesa nella mano un sasso, pronto a lanciarlo ma nel prendere lo slancio incontra la divisa del poliziotto e lo seduce con il suo sguardo innocente. Ha fatto dietro di sé un sentiero di finestre rotte, non per capriccio o per dispetto, ma per necessità, per un mutuo accordo con un bambino birichino ormai cresciuto, quel Vagabondo che Charlot, ovvero Charlie Chaplin, aveva creato più di 100 anni fa e che ne Il Monello trova la sua prima storia a lungometraggio.
Un cult in sala. Dal 9 gennaio il capolavoro di Chaplin torna nelle sale italiane in versione restaurata dalla Cineteca di Bologna, abbinata al Sherlock Jr. del suo collega e rivale Buster Keaton, e in dvd. Un'occasione per riscoprire un capolavoro che è entrato nella storia del cinema e che nel 2011 è stato scelto per essere inserito nel National Film Registry dalla Biblioteca del Congresso per il suo valore "culturale, storico ed estetico". Un film dalla gestazione complessa e con differenti versioni che rende la visione di oggi ancor più necessaria perché restituita nell'integrità voluta dal suo autore. Charlot aveva inventato il Vagabondo nel 1914, il primo passo incerto quasi danzante (bombetta, bastone e scarpe a punta) di quello che sarebbe diventato un'icona e un mito cinematografico era avvenuto con il corto, Kit Auto Races at Venice. A quello ne erano seguiti molti altri, nel 1918 Vita da cani e Charlot soldato avevano già superato la forma dei cortometraggi. Nel 1919 Chaplin si era messo al lavoro su un nuovo progetto la cui idea era nata dall'incontro con la giovane star Jackie Coogan.
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Il monello Jackie. Lo storico collaboratore di Chaplin, Roland Rollie Totheroh, raccontò come nacque il colpo di fulmine tra il trentenne regista e questo ragazzino che si esibiva al Grauman's Chinese Theater insieme al padre. Dopo averlo visto a teatro "Charlie aveva incontrato tutta la famiglia Coogan e si rese conto subito che il bambino aveva del talento e disse: "Voglio fare un film con questo bambino, ho avuto un'idea". Così nacque Il Monello, storia di un trovatello che la madre abbandona per indigenza e il Vagabondo Charlot salva adottandolo. A cinque anni il bambino e il papà adottivo hanno elaborato una pratica consolidata: il ragazzino spacca vetri e l'uomo arriva poco dopo, il kit da vetraio pronto a ripararlo, certo il tempismo mette in allerta una guardia ma i due riescono sempre a farla franca. Quando, a causa di una brutta influenza, il medico viene a far visita al monello scoprendo che il Vagabondo non è il padre naturale scatta la denuncia e la volontà di separarli, ne seguono scene drammatiche e anche un inseguimento sui tetti piuttosto comico, fino al finale conciliatorio che fa ritrovare al bambino la mamma diventata ormai una stella del teatro. D'altronde la prima didascalia è chiara: "un film con un sorriso - e, forse, una lacrima".
Fuga rocambolesca con la pellicola in una causa di divorzio. Per i critici Il Monello è il film in cui emerge, più chiaramente che nei corti, la vena malinconica di Charlot, d'altronde i diciotto mesi di lavorazione del film erano coincisi con alcuni dei momenti più drammatici della vita di Chaplin. La sua prima moglie, Mildred Harris si era fatta sposare adducendo ad una gravidanza inesistente, poi una volta sposati aveva avuto un bambino che era nato con una malformazione ed era morto tre giorni dopo la nascita. Questa tragedia aveva colpito profondamente Chaplin e minato la relazione già in crisi, poco tempo dopo nel pieno del montaggio del film era iniziata la battaglia legale del divorzio. Come raccontava ancora l'amico e collaboratore Totheroh, "dovemmo lasciare la città perché i legali minacciavano di pignorare tutti i beni di Charlie. [...] Dopo aver arrotolato i negativi originali dentro i barattoli di caffé divisi in rulli da 60 metri, imballammo tutto in dodici casse e ci incontrammo con Charlie al deposito di Santa Fé. Ci sedemmo a un tavolo e non appena Charlie si tolse gli occhiali da sole, un ragazzino iniziò a urlare "Charlie Chaplin! Charlie Chaplin!" così dovemmo andarcene via. Ci trasferimmo a Salt Lake City dove trascorremmo un paio di settimane. [...] Aveva tutto quello che possedeva in un'unica valigia, che io chiamavo la "valigia nera".'Il Monello', un sorriso e una lacrima. Nascita del cult di Chaplin

Chaplin tiene per mano il ventiduenne Jackie Coogan sul set di 'Tempi moderni' (1936)

La prima del 1921 e la celebrazione del 1972. Il 21 gennaio del 1921 finalmente Il Monello incontrava il suo pubblico, migliaia di persone erano venute a celebrarlo alla Carnagie Hall, costringendo la polizia di New York a chiudere l'isolato al traffico. Il film fu un successo straordinario in tutto il paese, rimanendo in cartellone per mesi, a marzo il Kinema Theater di Los Angeles proietta Il Monello quattro volte al giorno, accompagnato e sincronizzato dal vivo da un'orchestra sulla base di una selezione fatta da Chaplin di brani di musica classica e contemporanea. All'estero il flm avrà anche un grande successo ma circolerà in versioni che non corrispondevano perfettamente all'originale voluto dal maestro. Nel 1972 dalla sua residenza svizzera, Chaplin aveva lasciato gli Stati Uniti ormai da vent'anni accusato di maccartismo, il regista decise di riprendere in mano Il monello. Tagliò alcune scene che riteneva superate dal tempo ma soprattutto compose di suo pugno diciotto distinti movimenti e affidò al suo fedele collaboratore Eric James il compito di trascriverle per partitura (su due pentagrammi). La sera del 4 aprile, pochi giorni prima di vedersi tributare un Oscar alla carriera che avrebbe dovuto ripagarlo almeno in parte dell'esilio a cui Hollywood lo aveva costretto, una folla immensa accoglieva Charlot all'entrata del Lincoln Center di New York per una prima della nuova versione de Il Monello con la nuova colonna sonora. Quella versione, completamente restaurata e restituita finalmente alla giusta velocità, grazie al minuzioso lavoro filologico di Timothy Brock, direttore e compositore che da anni dedica il suo impegno al cinema di Charlie Chaplin e alle sue musiche arriva ora ad un nuovo pubblico.
 
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