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Messaggi del 08/05/2017

 

La terrazza, di Ettore Scola da sentieriselvaggi

Post n°13822 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

“Ma che deve scrivere? / Una vicenda sommaria e sciatta che frequentemente scade nel bozzettismo più bieco. / In sé parla di battute di seconda mano che non nascondono una sostanziale mancanza di ispirazione. / E manco risollevano le sorti di questa grigia stagione cinematografica”: è qui, nella bellezza improbabile di questo dialogo in romanesco tra Sora Lella e il fruttivendolo, la “summa” autoriale di un film, La terrazza, in cui Ettore Scola gioca pure a nascondersi in un caleidoscopio comico dolente di alter-ego e citazioni dirette (gli spezzoni di Totò a colori o di Casablanca), celate (Flaiano) e indirette (le situazioni di forte gusto morettiano restituito anche attraverso l’uso di sosia). E’ il trionfo e insieme il mea culpa della commedia all’italiana chiamata – dieci anni dopo la criticatissima Lettera aperta a un giornale della sera di Citto Maselli (in un cameo) e trentatré anni prima de La grande bellezza – a disegnare l’autoritratto crudele/nostalgico, farsesco/satirico e persino pop (i “tormentoni” di Dalla in sottofondo come la Carrà nell’opera Oscar di Sorrentino) del mondo del cinema, dell’intellighenzia romana di sinistra e della sua anima decadente. Anima posticcia a ben vedere.

E a lasciarsi prendere dalla compiaciuta confusione tra personaggi reali che interpretano se stessi (Lucio Lombardo Radice, Lucio Villari, Ugo Gregoretti, Maselli…) e sosia infiltrati (oltre ai vari Nanni Moretti, Eugenio Scalfari/Remo Remotti e Alberto Moravia). Quasi a metà tra gli uni e gli altri l’attore Galeazzo Benti che porta, dentro l’iperbole narrativa della messa in scena, la parabola autobiografica di un ex gagà alla ricerca vana della Mecca (del cinema), tra America e Italia, aggiudicandosi la battuta/giudizio finale sugli ospiti della terrazza: “Restate come siete!”. Il tempo che passa senza risolvere -anzi riproponendo/amplificando – le contraddizioni degli individui – nel controcampo lontano di una grande storia raccontata al riparo dell’ ennesimo spazio chiuso (da Una giornata particolare a La terrazza a Ballando ballando a La famiglia a Splendor) è infatti protagonista chiave del film (come dell’opera omnia di Scola). La terrazzaLo restituiscono l’eccellenza del montaggio, firmato Raimondo Crociani – che costruisce/dissemina l’unità spazio temporale del racconto sul refrain di continui déjà-vu (“E’ pronto! Venite!”) – e una magistrale prova di scrittura dove Scola, Age e Scarpelli (premio Cannes per la migliore sceneggiatura) non mancano di lasciare tracce del proprio passato comune alla redazione del Marc’Aurelio: da lì il grande amore per il disegno (le caricature di Stalin, Chaplin e Marilyn) e l’ossessione di far ridere che confluiscono nel personaggio di Enrico, un Jean-Louis Trintignant in stato di grazia mentre ci mostra, sul contrappunto pomposo della musica (ennesima collaborazione Trovajoli), l’involuzione psichica di uno sceneggiatore in crisi sotto le pressioni di un volgare produttore (Ugo Tognazzi).

la terrazzaTra loro, malgrado tutto, un sodalizio maschile che si differenzia per più o meno misogina contrapposizione all’affresco di donne (con Carla Gravina, premio a Cannes come migliore attrice non protagonista, e Ombretta Colli emblemi di un modello femminile tanto forte da innescare le arringhe reazionarie di un processo per stupro o i fantasmi castratori di un improbabile regista serio) e coinvolge – sei anni dopo C’eravamo tanto amati – ancora Vittorio Gassman (senatore comunista alle prese con un amore troppo privato – la relazione extraconiugale con Stefania Sandrelli – per accordarsi con la morale pubblica di partito) e Stefano Satta Flores nello stesso ruolo di critico cinematografico fallito di C’eravamo tanto amati. Ma nel gruppo di “soliti” amici ci sono ora anche Sergio (Serge Reggiani) – funzionario televisivo che morirà di fame e gelo sotto la neve di un Capitan Fracassa in produzione sulle orme di Matamoros (è lui la maschera più forte del futuro autore del Viaggio di Capitan Fracassa dieci anni dopo) – e Luigi (Marcello Mastroianni), vecchio giornalista al capolinea sotto l’incalzare delle nuove leve. E’ il tema del rapporto tra le generazioni che Scola dichiara qui più esplicitamente che altrove nel dialogo tra lo stesso Mastroianni e Marie Trintignant, figlia di Jean Louis e volto adolescente degli incipienti anni Ottanta, o nelle prime “cattive” battute della relazione adultera tra il vecchio Gassman e la giovane Sandrelli citando Flaiano: “A che ora è la rivoluzione, signora?”. Fino al calare della pioggia, come un sipario, sulle vicende dei due giovani, all’esterno, e dei vecchi all’interno altoborghese della terrazza: luogo soprattutto di nostalgia per chi faceva cinema, giornalismo, tv e altre carriere ai tempi del Pci e dei suoi miti superati. Come nell’immagine potente di un bacio, pieno di paura, tra la cariatide comunista e la bella amante, sullo sfondo, di resti e rovine, di Roma antica.

 

Regia: Ettore Scola

Interpreti: Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli, Jean-Louis Trintignant, Serge Reggiani, Stefano Satta Flores, Carla Gravina, Milena Vukotic

Durata: 155′

Origine: Italia/Francia 1980

 
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Sully

Post n°13821 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 


Il 15 gennaio 2009 un aereo della US Airways decolla dall'aeroporto di LaGuardia con 155 persone a bordo. L'airbus è pilotato da Chesley Sullenberger, ex pilota dell'Air Force che ha accumulato esperienza e macinato ore di volo. Due minuti dopo il decollo uno stormo di oche colpisce l'aereo e compromette irrimediabilmente i due motori. Sully, diminutivo affettivo, ha poco tempo per decidere e trovare una soluzione. Impossibile raggiungere il primo aeroporto utile, impossibile tornare indietro. Il capitano segue l'istinto e tenta un ammarraggio nell'Hudson. L'impresa riesce, equipaggio e passeggeri sono salvi. Eroe per l'opinione pubblica, tuttavia Sully deve rispondere dell'ammaraggio davanti al National Transportation Safety Board. Oggetto di un'attenzione mediatica morbosa, rischia posto e pensione. Tra udienze federali e confronti sindacali, stress post-traumatico e conversazioni coniugali, accuse e miracoli, Sully cerca un nuovo equilibrio privato e professionale.
Che cos'hanno in comune gli eroi di Clint Eastwood? Sono quasi sempre personaggi destabilizzati dal destino, da un crimine, da un'ingiustizia, dalla marginalità. Tutti, ciascuno a suo modo, sono alla ricerca dell'unità perduta. Non si tratta di una semplice risorsa narrativa, destinata a suscitare l'adesione del pubblico, per l'autore americano quella ricerca riflette l'esplorazione filosofica e artistica del suo cinema, producendo una felice coincidenza tra forma e contenuto. 
Quello che innerva la sua filmografia e gli conferisce una rimarchevole coerenza è il raggiungimento, la restaurazione e la formalizzazione estetica di una nozione sostanziale per l'uomo: l'equilibrio. Abilmente dissimulata sotto la vernice della narrazione, la ricerca del giusto mezzo si manifesta essenzialmente nella relazione che l'individuo intrattiene con la società e le istituzioni, l'insieme delle strutture politiche, giuridiche ed etiche che la cultura ha imposto alla natura. Sully, ritratto di un eroe della working class 'processato' da una gerarchia senza cuore e troppi cavilli, corrisponde alla perfezione questa relazione che Eastwood affronta sempre in maniera risolutamente conflittuale. 
Tom Hanks, everyman umanista del cinema classico, incarna in faccia alla commissione d'inchiesta, obbligatoria in caso di incidenti, il fattore umano, la scintilla dell'esperienza, l'essenza nobile del lavoro fatto semplicemente come dovrebbe essere fatto. Non per denaro, non per gloria, non per vanità, non per approvazione. Eroe ordinario alle prese con la realtà della sua situazione, Sully è fedele al giuramento prestato e alle conoscenze acquisite con la sua professione. 
Girato con la tecnologia Imax, che offre allo spettatore un'immersione piena nell'azione, accomodandolo nella cabina di pilotaggio a 'vivere' letteralmente l'esplosione dei motori, il silenzio che segue e le turbolenze dell'aereo che plana sul fiume, Sully resta nondimeno un film intimo, svolto nella testa del suo protagonista. Quello che ha fatto 'in emergenza' è inseparabile da quello che immagina, sente, conosce. Eastwood ricostruisce con lucidità l'esperienza e le attitudini del suo eroe, l'esordio giovanile, gli anni nella Air Force, perché è su quella pratica e su quella competenza che Sully decide di prendere la via del fiume. Lo sguardo dell'autore e l'interpretazione dell'attore trovano in Sully intimi cedimenti, confrontando il capitano eroico che ha gestito in volo crisi e destino con l'uomo a terra a disagio nel ruolo di eroe e in conflitto con quello che avrebbe potuto essere. 
Ammarando, il film emerge i flussi di coscienza del suo protagonista, interrompendo coi sogni angosciosi la linearità della rotta, scivolando nel passato per mettere l'incidente in prospettiva con la vita di Chesley Sullenberger. Con Sully e dopo Flags of Our Fathers e American Sniper, il regista interroga di nuovo la nozione ambivalente di eroismo che è al cuore dell'immaginario americano. Ma se il primo procede alla destrutturazione dell'eroicità e il secondo contraddice la missione del 'primo violino' dell'esercito americano in Iraq, Sully riconfigura l'eroe. Eastwood ne distilla l'essenza andando oltre la sua rappresentazione mediatica e riabilitandone la natura tragica attraverso la paura incombente della morte. Con quella paura il protagonista fa i conti dal principio, il film si apre su un aereo che scivola lungo lo skyline di New York e si schianta contro il paesaggio urbano deflagrandolo. Prima di distinguere l'oggettività della vicenda, l'aereo di Sully è realmente ammarato, Eastwood mostra allo spettatore la visione ipotetica, l'enunciato condizionale, l'incubo di Sally, l'incognita mortale connessa con l'atterraggio. Come Zemeckis (The Walk) prima di lui, recupera la gravità dell'iconografia storica US, l'immagine depositata nella coscienza collettiva e la compensa, risvegliando Sully dall'incubo e suturando le ferite di New York. Al rigore geometrico dell'uomo che cade, fotografato da Richard Drew e allineato alla verticalità della Torre Nord, Sully replica la geometria orizzontale e variabile delle ali di un airbus che galleggiano e sorreggono la vita. Quella che Sully ha garantito con un gesto solerte, abile, puro. Eppure una sorta di inerzia scorata, prodotta da una società che ha estinto l'afflato leggendario dietro a regole, protocolli, simulazioni e statistiche, prova a trascinarlo sul fondo. Certo il National Transportation Safety Board pone domande legittime e cerca la risposta giusta (ne esiste una?) ma il processo è viziato da un'accusa tacita, uno scetticismo tenace, un'idea di colpevolezza poi smentita dai fatti. Sully ha preso una decisione, probabilmente l'unica possibile. Ed è quella decisione a determinare la misura del suo eroismo, il carico di responsabilità che il protagonista ha condiviso con l'equipaggio, il co-pilota, i controllori di volo, gli agenti di polizia, i soccorritori. Insieme hanno realizzato il "miracolo dell'Hudson", ribadendo la natura etica del lavoro (di ogni lavoro) e provando l'inscindibilità ineluttabile dei destini umani. 
In aula e in fondo al film, Clint Eastwood rimette in quota il suo eroe e trasmette la medaglia da veterano ai soli eroi che la valgono: non più quelli che sparano ma quelli che si espongono. Non più quelli che scaricano coi colpi la responsabilità ma quelli che l'assumono mani alla cloche

 
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Io e Annie

Post n°13820 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

Io e Annie
CAST & CREDITS

regia:
Woody Allen

distribuzione:
MGM

durata:
94'

produzione:
Jack Rollins, Charles H. Joffe

sceneggiatura:
Woody Allen, Marshall Brickman

fotografia:
Gordon Willis

scenografie:
Mel Bourne

montaggio:
Wendy Greene Bricmont, Ralph Rosenblum

costumi:
Ralph Lauren, Ruth Morley

musiche:
Isham Jones, Gus Kahn, John Jacob Loeb, Carmen Lombardo

Io e Annie

di Woody Allen

commedia, Usa (1977)

 di Claudio Fabretti


Nel 1977 Woody Allen è già l'indiscusso re della risata intelligente ("Prendi i soldi e scappa", "Bananas", "Provaci ancora Sam", "Amore e guerra" etc.). Ma l'amore per il cinema di Ingmar Bergman lo spinge più in là, nei dirupi della psiche e dei rapporti di coppia, seppur sempre sdrammatizzati da una implacabile ironia jewish. Affiancato da Marshall Brickman, parte da un giallo-rosa (si concretizzerà 16 anni dopo in "Misterioso omicidio a Manhattan"?) per approdare a una storia sentimentale e autobiografica. Cambia anche il titolo: all'inizio è "Anedonia" (in greco, "l'impossibilità di provare piacere"), poi diventa "Annie Hall", dal diminutivo e dal vero cognome di Diane Keaton. Tutto il film, in realtà, è un'ode alla deliziosa Diane, in forma straripante con le sue gag, i suoi sorrisi, le sue improvvisazioni e il suo look da Mary Poppins (sono realmente suoi tutti gli abiti di scena). Nessun altra musa di Allen saprà mai eguagliarne fascino e verve.

Ma dietro l'omaggio alla compagna di quegli anni, si cela l'egocentrismo di Allen: è lui il vero protagonista, il paziente sul lettino dello psicoanalista ("ci vado da 15 anni... gli do un altro anno, poi vado a Lourdes!"). Un artificio "bifronte" che lo vede alternarsi dentro al film e al suo esterno, insieme protagonista e osservatore. Il legame con le pellicole precedenti sta nella struttura frammentata e nella libertà della costruzione narrativa: un flusso di situazioni che si susseguono in un continuo andirivieni tra presente e passato che pare abbia fatto disperare il povero Ralph Rosemblum in fase di montaggio (il materiale originario era di 4 ore!).
Ecco allora la "confessione" di Alvy: bambino dal precoce appetito sessuale, cresciuto in una litigiosa famiglia ebrea, con le montagne russe sopra il tetto di casa (!) e soggetto a qualche depressione "per i timori di espansione dell'universo". Divenuto adulto, è un comico di successo, con due matrimoni falliti alle spalle e una collezione rara di ossessioni. Tuttavia ha un discreto ascendente sulle donne: riduce la saputella Allison Portchnik a "stereotipo culturale", s'infila nel letto della mistica Pat, cronista di Rolling Stone. Poi, durante una partita di tennis, incontra Annie, ragazza svitata di famiglia wasp, con velleità da cantante. Sembra quasi il suo alter ego: impacciata e confusa, tenta di ingannare le insicurezze con buffe interiezioni ("la-di-da"), marijuana prima del sesso e folli scorribande su una vecchia Volkswagen.

La love-story sboccia in una scena da cineteca: i due balbettano una surreale conversazione sul senso dell'estetica, mentre i sottotitoli ne svelano i pensieri reali a sfondo sessuale. Alvy avvia Annie alla psicoanalisi, la incoraggia a nuove letture e la trascina a vedere i film di Bergman (esilarante la scena della fila al cinema, con il vero Marshall McLuhan che si materializza per zittire lo sproloquio di uno pseudo-intellettuale). Ma sarà proprio la psicoanalisi a emancipare Annie, spingendola a caccia di gloria in quella odiata California che l'anti-hollywoodiano Allen ha elevato a simulacro di tutti gli orrori (il cibo macrobiotico, l'architettura kitsch, i riti satanici, il jet-set, la macchina per gli applausi). Il finale riserverà nuovi incontri e un commovente amarcord.

"Io e Annie" non è solo l'archetipo (e la migliore) di tutte le commedie di Woody Allen. È l'essenza della sua arte del contrasto uomo/donna, dell'eterna incapacità di capirsi, dell'anedonia dei rapporti sentimentali. È l'incanto - rinnovato poi nella rapsodia di "Manhattan" - di una "New York dell'anima" opposta titanicamente al resto del mondo. La prospettiva è solo apparentemente individuale. Perché l'inadeguatezza di Alvy è anche il prezzo di un decennio che ha bruciato gli ideali romantici dei 60, inseguendo nuovi miti: il successo, la libertà sessuale, la vita da single, l'emancipazione femminile.
Ci sono tutti gli ingredienti indispensabili a una commedia: dialoghi scoppiettanti, humour, ritmo, leggerezza, intelligenza, malinconia. Ma il gusto si annida anche nei tanti, memorabili dettagli: le aragoste che guizzano tra le mani, il sapone nero, il copricapo spaziale contro il sole, l'auto-scontro, il santone alla toilette, il ragno enorme e le racchette Dunlop. Il tutto reso attraverso un uso geniale del mezzo cinematografico, tra apparizioni improvvise, split-screen (memorabili i paralleli tra le due sedute psicoanalitiche di Alvy e Annie e tra le rispettive famiglie), piani sequenza, flashback, inserti d'animazione e camera look. Anche la fotografia - a cura dell'ottimo Gordon Willis ("Il Padrino I e II") - è multiforme: grigiastra per gli esterni di New York, abbagliante per la California e dorata per i ricordi dell'infanzia.
Alla debordante coppia protagonista si aggiungono la fidata "spalla" Tony Roberts e una parata di star, del presente e del futuro: Christopher Walken e Jeff Goldblum in età quasi adolescenziale, Shelley Duvall ("Shining"), Paul Simon (nei panni del bieco produttore Tony Lacy), Beverly D'Angelo ("Hair") e una quasi-esordiente Sigourney Weaver, oltre al sopracitato McLuhan.

Paradossalmente, a rendere omaggio all'opera che ha inventato il "mal di Los Angeles" sarà proprio Hollywood, con quattro Oscar: film, regia, sceneggiatura, attrice protagonista (Diane Keaton). 
La-di-da...

...Dopodiché si fece molto tardi, dovevamo scappare tutt'e due. Ma era stato grandioso rivedere Annie, no? Mi resi conto che donna fantastica era - e di quanto fosse divertente solo conoscerla... e io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete... quella dove uno va da uno psichiatra e dice: "Dottore, mio fratello è pazzo. Crede di essere una gallina." E il dottore gli dice: "Perché non lo interna?" E quello risponde: "E poi a me le uova chi me le fa?" Be', credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali e pazzi e assurdi e... ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova.
(Alvy/Woody Allen)

 
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Manhattan

Post n°13819 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

Lo skyline più famoso del mondo fotografato in bianco e nero dal fedele Gordon Willis, la splendida Rapsodia in Blue di George Gershwin come colonna sonora ed in più il voice-off di Ike, alter-ego alleniano per eccellenza, che tenta di scrivere un incipit di un romanzo che ha come scenario New York. Fin dalla prima scena è evidente che Manhattan ha un' unica indiscussa protagonista, così com'è indubbio che sia uno dei film simbolo della Grande Mela, ritratta in tutte le sue contraddizioni e angolature, come "metafora della decadenza della cultura contemporanea" o come santuario di tutto ciò che il regista Woody Allen "idolatra smisuratamente".

Leggi anche: Buon compleanno Woody! Il cinema di Woody Allen in 20 scene cult (prima parte)

Proveniente dal successo di critica e pubblico ottenuto con Io e AnnieAllen si dedica al suo progetto più personale, un'opera che diventerà un punto di svolta nella sua carriera, consacrando il passaggio (non definitivo, ormai possiamo dirlo con certezza) dalla commedia surreale degli esordi a risate più amare, con una visione della vita e soprattutto della coppia più vicina al cinema dell'idolo Ingmar Bergman. In Manhattan è presente in ogni aspetto sia l'Allen cineasta che l'Allen uomo; il suo sguardo alla città che non dorme mai è analitico ed affettuoso allo stesso tempo, il regista la sfiora e l'accarezza con tutti i mezzi che gli appartengono, le immagini cinematografiche, la conoscenza musicale e la scrittura. 
Fin dall'incipit, come abbiamo visto, utilizza queste sue "armi" al meglio, facendo in modo che ognuna di esse abbia un suo spazio vitale all'interno della pellicola: tre elementi che riescono a fondersi con dolcezza nelle scene più memorabili.

Leggi anche: Io e Annie: la vita e l'amore secondo Woody Allen in sette scene cult

Diane Keaton e Woody Allen in Manhattan
Una città in bianco e nero
Diane Keaton con Woody Allen in Manhattan

Tre diverse prospettive per un unico soggetto dicevamo; ma cosa, in realtà, rappresenta New York per Allen? Nonostante siano presenti splendidi ritratti (o primi piani se vogliamo) della città, per Allen altrettanto significativi sono i luoghi di incontro culturale e sociale quali locali e ristoranti, cinema e musei, il Central Park e il planetario, ma anche quelli più intimi come le strade o le panchine deserte durante una passeggiata notturna. Come a dire, l'intera vita di Allen, la sua intera esistenza, è racchiusa nella città in cui vive e che ama probabilmente come poche altre cose al mondo. E non è un caso, appunto, che in un'opera intitolata semplicemente Manhattan sia racchiuso praticamente tutto quello che c'è da sapere sul regista: le sue passioni, il suo rapporto con le donne, con il cinema e la psicanalisi, in un perfetto e pratico bignami di tutta la cultura alleniana di ieri, oggi e domani.

Leggi anche: Buon compleanno Woody! Il cinema di Woody Allen in 20 scene cult (seconda parte)

Woody Allen in una sequenza di Manhattan

Allen si mette a nudo, dicevamo, si auto-psicoanalizza perfino, registrando i propri pensieri, elencando le cose per cui vale la pena di vivere, e tra di esse non nomina New York e non nomina Manhattan ma cita piuttosto Groucho MarxLouis Armstrong, le pere e le mele di Cézanne, i film svedesi "naturalmente" e per finire il viso di Tracy, la ragazzina dolce e sensibile a cui, in un primo momento, aveva preferito la nevrotica e complicata Mary; tutti aspetti profondamente diversi tra loro ma che insieme formano la New York, la Manhattan che Allen ci vuole mostrare. La cosa per cui vale la pena di vivere insomma, che è, paradossalmente, la vita stessaÈ così, quindi, che il film diventa forse l'unico veramente ottimista della lunga carriera del regista, un film in cui attraverso il simbolismo chiave di questo luogo rappresentato come magico, pauroso e dispersivo ma al tempo stesso romantico e familiare, Woody Allen celebra la vita, l'amore e la cultura.

 
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“Li chiamarono… briganti!”: storia di una censura italiana

Post n°13818 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

da myblog

Locandina de "Li chiamarono... briganti!" di P. Squitieri, 1999

Quando ho visto per la prima volta nella mia vita, non molti mesi or sono, su Facebook il titolo di questo film, “Li chiamarono… briganti!” di Pasquale Squitieri, ammetto di aver considerato, da ignorante, che doveva trattarsi di un film di seconda mano e di chissà quanti anni fa. Uno di quei film che mandano sulle reti locali, e coi colori sbiaditi e appannati, tipici della fotografia degli anni 70′-80′.

Immaginate, perciò la mia sorpresa quando nell’incipit da pelle d’oca, con la magistrale Lina Sastri che dà voce a quel lamento “del brigante” che è la canzone Briganti, del maestro Luigi Ceccarelli… secondo dopo secondo, scorrono nomi del calibro di Enrico Lo Verso, Claudia Cardinale, Giorgio Albertazzi, Franco Nero, Remo Girone, Carlo Croccolo e altri ancora… e mi dico “Caspita, che castone!!”.

Che castone. Ora, per un pregiudizievole atteggiamento che so essere sbagliato, cioè giudicare la scatola dal contenitore, in questo caso il film dal cast, al quale tuttavia credo che in tutta onestà quasi nessuno sappia sottrarsi… la mia curiosità fu sollecitata al massimo. E, con mezzi che non sto a raccontarvi, mi procurai il film.

Io e il mio compagno brigante lo abbiamo bevuto dall’inizio alla fine. Non siamo esperti di cinematografia (sebbene mio fratello sia un maniaco dell’argomento…) ma piuttosto difficili di gusti. Palati fini, per intenderci.

Ebbene questo film, che nulla aveva da invidiare ad un qualunque altro Signor Film, non ci ha solo “rapito” per tutti i 129 minuti della sua durata, ci ha anche commossi, dilaniati… appassionati: truce e struggente è il canto di Lina Sastri e il suo poetico dire, sempre su note e parole del magistrale Luigi Ceccarelli, nel finale del film (La Profezia). Drammaticamente realista, negli aspetti più crudi e spietati di quell’Unità d’Italia, la ricostruzione delle vicende e della storia di Carmine Crocco, alla luce di quanto avevamo già letto circa le stragi e le rappresaglie, e le citazioni attribuite testualmente al signor Cialdini & co. Crudi e spietati, intendiamoci, anche nel confessare quale parte ebbero i galantuomini, meridionali come i briganti e i contadini, che svendettero a misero prezzo il loro popolo/futuro; e quale ebbe la mafia (in questo caso, la camorra), come documentato, e sottilmente lasciato intendere da Squitieri. La sceneggiatura l’abbiamo trovata semplicemente perfetta, la fotografia ineccepibile, le interpretazioni da oscar, le musiche incredibilmente descrittive ed emotivamente straordinarie…

E quando, cercando su Wikipedia, informazioni sul film mi resi conto che fosse non di anni 70′-80′ come avevo supposto prima ancora di vederlo, ma solo del 1999, vale a dire appena dodici anni fa… la mia sorpresa fu doppia e tripla: compresi allora quale reale e bieco tentativo da più parti, e ripetutamente, a ben 150 anni da quei fatti, si è fatto e si continua tutt’ora a fare per nascondere, mettere a tacere, mistificare…

Tenere la gente addormentata. Tenerla in questa narcotica perenne simil-realtà che è la nostra Matrix, dalla quale è tanto più difficile uscire quanti più studi si son fatti, e quanto più egoicamente si è radicata l’idea di “patria”, di “simboli”, di “padri della patria”… scoprire all’improvviso che niente era vero, che era tutta una bella finzione, una finzione apposita per tenerti buono e addormentato al loro servizio… scoprire il complotto a nostri danni perpetrato dalla nostra stessa nazione è una ferita talmente profonda e dolorosa che, mi rendo conto, ci vuol fegato per affrontarla. E, infine, accettarla.

Io, che sempre son stata orgogliosa di essere italiana, confesso che in frangenti come quello, quello in cui ho scoperto la censura ai danni del film di Pasquale Squitieri… dicevo, in frangenti come quello ho provato una rabbia e un senso di tradimento verso la mia nazione inaudite. La mamma spirituale, il mio papà ideale mi avevano tradito. Non è bello ammetterlo. Non è facile superarlo.

Una ragazza come me, classe 84′, ha sempre pensato alla censura come una cosa lontana, un fatto storico: la censura la facevano i fascisti, la censura la fa il regime cinese, la censura è una cosa che non succede in un Paese democratico. Ebbene, in un mondo in cui ti riempiono la testa e le orecchie di spazzatura spacciandola per arte, e imbastardendo, peraltro, il comune gusto del bello e della vera arte, scopri un film del calibro di quello di Squitieri… e vieni a sapere che, con ignote e ancora oscure motivazioni, nonchè manovre, non solo hanno ritirato dalle sale cinematografiche il film praticamente appena uscito, ma ne hanno anche impedito la diffusione in VHS… oggi, il film è praticamente quasi irreperibile, se non su YouTube o di contrabbando!

No, non sono parole isteriche di una ragazzina: il critico Stefano Della Casa lo definì “Un film interessante proprio perché fuori dal tempo” .” Il film parla della resistenza degli uomini e delle donne del sud Italia contro i Savoia, alcune scene sono molto forti: carabinieri che stuprano, accordi non rispettati, e sono tutte cose documentate presso l’Archivio di Stato, nel film ci sono tutte le premesse della situazione italiana odierna. ” son parole di Enrico Lo Verso. Lo scrittore Lorenzo Del Boca a proposito della censura del film disse che “per ammissione unanime dei commentatori, è stato boicottato in modo che lo vedesse il minor numero di persone possibile“. E ti spieghi benissimo, alla luce di qualto appena letto, e capisci benissimo il perchè della definizione del Dizionario dei film a cura di Morando Morandini: “Isterico più che epico. Un’occasione mancata di controinformazione storica.”  E certo: la gente non doveva vederlo. E seppure l’avesse visto, grazie all’inconcepibile critica del Morandini, si sarebbe ben guardata dal giudicare obiettivamente e senza pregiudizi d’isteria meridionale e collettiva questo film.

E’ una vergogna che una società civile e che si reputa democratica come la nostra, che vuol essere unita e matura, non riesca a far i conti con il suo passato… di 150 anni fa?!!!! Abbiamo fatto ammenda sulle foibe e sulle brutture del fascismo prima e delle rappresaglie naziste dopo, abbiamo fatto film sul 68′, La storia siamo noi (G. Minoli, RaiTre) tira fuori ogni tanto le spinose e buie vicende del nostro tempo, il generale Dalla Chiesa, il caso Verbano, le teste vere/false di Modigliani… E NON RIUSCIAMO A GUARDARE IN FACCIA IL PASSATO E A DARGLI IL NOME CHE MERITA?

Vergogna Italia, che spacci per buone le menzogne, e nascondi ai tuoi figli la verità sulla tua nascita; vergogna Italia che ti vergogni del tuo passato, talmente tanto che non riesci neppure a vederlo trasposto in un film… un film, che resta, sempre e comunque una forma d’arte, l’opera di un uomo, un’interpretazione,  sia pur opinabile, della realtà… vergogna Italia, che anzicchè cercare un contradditorio e provare a discolparti con la dialettica e i documenti (che altrove, dici di avere), preferisci nascondere, tacitare, ordire nell’ombra trame che risucchino in angoli bui e solitari la verità… e ammettendo, in tal modo, di essere colpevole accusandoti da te medesima! Perchè, se non hai nulla da nascondere, mia cara Italia, che motivo avresti avuto di censurare un film, opinabile (ripeto) probabilmente, piuttosto che mettere il pubblico liberamente nelle condizioni di giudicare se fosse buono o no? In un Paese democratico, cara Italia, quale tu dici di essere, dovrebbe essere così: chiunque è libero di esprimersi, persino di oltraggiare od offendere (Borghezio docet, e gli paghiamo persino lo stipendio, per questo… cara Italia), sta al libero cittadino e libero pensatore trarre ciò che vuol trarre, e giudicare come più gli aggrada la bontà o meno di un messaggio. Credevo (le tue scuole, Italia mi hanno insegnato) che la democrazia fosse questo.

Ma ricordati, cara Italia, che i posteri rendono a ciascuno l’onore che in vita si è meritato, nel bene e nel male. E noi siamo qui per questo.

Voglio ringraziare Umberto Calabrese per l’aiuto nel reperire fonti e informazioni,  ma anche:

Wikipedia – voce: Li chiamarono… briganti!

Il Dizionario dei film a cura di Morando Morandini

Cosimo D. Matteucci per avermi fatto scoprire il film di Squitieri e tante altre “perle nascoste”

il sito ufficiale di Pasquale Squitieri dove ho potuto scoprire questo regista  e la sua immensa e impegnata opera (che non a caso, forse, si apre in home page proprio con la “Briganti” cantata da Lina Sastri…): a proposito, consiglio la visione dell’intera filmografia, o per lo meno de I guappi, con Claudia Cardinale, Franco Nero, Fabio Testi.

E infine il grande Pasquale Squitieri, che ha avuto il coraggio e la maestria per fare un meraviglioso film che meriterebbe cineforum e visioni scolastiche, al quale, tardivamente, ma spero sempre in tempo, voglio così rendere omaggio.

Vi lascio con due video di YouTube, il primo è l’incipit del film, e una delle interpretazioni più belle che io abbia mai visto fare in video a Lina Sastri: la canzone Briganti, di Luigi Ceccarelli, narra di un brigante insonne, che attende la battaglia del giorno seguente, domandandosi se verrà ucciso o se riuscirà a vincere, implorando la luna di dargli pace e serenità, ed un sogno dolce, un sogno di libertà.

Il secondo è il finale del film, La profezia, una profezia di quel che sarà il destino del sud, dei briganti che sarebbero diventati emigranti, della damnatio memoriae e le meschinità che, pur di sopravvivere, la gente del sud avrebbe, da allora in poi, messo in atto. E che, poi, sarebbe diventata la colpa dei meridionali: quella di essere meridionali. Lina Sastri, sempre su parole e musica del grandissimo Luigi Ceccarelli.

 
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Thrilling

Post n°13817 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

"Il vittimista" - Un pacifico professore di latino sospettando che la moglie intende sopprimerlo, si rivolge ad uno psicanalista il quale gli svela che la sua ossessione è causata da un complesso di colpa derivante da una relazione extraconiugale. Per ristabilire il suo equilibrio l'uomo rompe ogni rapporto con l'amante e riprende una vita tranquilla accanto alla moglie. Ma l'amante, per vendicarsi dell'abbandono, lo fa affogare in mare."Sadik" - Preoccupato per lo scadere di cambiali alle quali non può far fronte, l'ingegner Bertazzi deve anche sottostare alle pretese della moglie, la quale, accanita lettrice di fumetti, esige che il marito si cali dal tetto nella camera coniugale travestito da Sadik. L'uomo obbedisce; ma quando viene a sapere che la moglie ha stupidamente respinto una preziosa telefonata d'affari, reagisce immedesimandosi completamente nella fumettistica parte impostagli, con il conseguente strangolamento della sciocca donna."L'autostrada del Sole" - Fernando Boccetta, trovandosi per curiose circostanze ad inseguire con la sua utilitaria una potente automobile, è costretto a passare la notte in una misteriosa locanda dove una famiglia di maniaci commette una serie di delitti dei quali lui verrà incolpato. A stento riuscirà a salvare la vita ed il suo onore.

 
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Iron man

Post n°13816 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina Iron Man

Anthony Stark è un inventore geniale e miliardario col vizio delle donne (tante) e delle attività filantropiche. Ereditato patrimonio e ingegno dal padre scomparso in un incidente d'auto, Tony (per amici e amichette) conduce e amministra le Industrie Stark, produttrici e prime fornitrici di armi per il governo americano. Durante un test in medioriente, per verificare l'efficienza di un'arma sperimentale, viene catturato da un gruppo di estremisti. Ferito al cuore da una scheggia è soccorso e curato da Yinsen, un fisico esperto di cibernetica che gli applica un organo artificiale. Obbligato dai guerriglieri a costruire un'arma invincibile per la loro causa, Tony progetta in segreto un'armatura per fuggire alla prigionia. Rientrato negli Stati Uniti è deciso a cambiare vita, a riparare alle ingiustizie e a "industriarsi" a favore dei più deboli. Perfezionata l'armatura con la tecnologia avanzata diventa Iron Man, un (super)eroe "umano, troppo umano". 
Fumetto e cinema nascono insieme più di un secolo fa e si spiano da subito. Due linguaggi con origini diverse e identità distinte che pure hanno saputo dialogare intensamente: confrontandosi, convivendo, divorziando, riconciliandosi e riconfigurando le reciproche estetiche. L'Iron Man di Jon Favreu, nell'intensa economia di scambio tra fumetto e cinema, realizza un enorme salto di qualità, dimostrando la reciprocità produttiva dei due linguaggi, che nell'ultimo decennio si era spinta in direzione di un'autentica cannibalizzazione.
L'archivio "eroico" della Marvel è diventato un vero e proprio laboratorio per la creazione, anche se non sempre riuscita e puntuale, di nuovi modelli estetico-narrativi dell'industria cinematografica, come dimostra l'insistita trasposizione sullo schermo di un esteso repertorio dei loro personaggi: da Spider Man agli X-Men, dai Fantastici Quattro ad Iron Man, e per continuare nel futuro prossimo con Hulk e Capitan America. 
Creato da Stan Lee, Don Heck e Jack Kirby nel 1963 per la rivista "Tales of Suspense", Iron Man è un eroe conservatore che ieri ha "armato" il Vietnam ed oggi "attrezza" l'intervento afgano. Come Batman è orfano di padre e madre, come Batman si ritrova sul tetto di casa vestito da eroe mascherato (e non da supereroe) contro una luna rotonda, come Bruce Wayne è industriale multimiliardario, playboy incallito e filantropo svagato. Le affinità terminano qui, perché Tony Stark e il suo alter ego metallico sono tutt'altro che rabbuiati, non hanno paura di cadere (ci si può sempre rialzare), non hanno paura di sbagliare. 
Iron Man è l'esoscheletro (quasi) invincibile di un reduce che ha deciso di risarcire il mondo. Jon Favreu, subito dopo i titoli di testa, gira la scena originaria, quella che origina il film e dà origine all'eroe. Come tutti i suoi compagni di supervite e superavventure, Tony Stark ha subito un incidente e una perdita traumatica (quella del cuore). Di questa scena primaria la caverna dei ribelli è lo scenario, il luogo in cui avviene l'esperienza dello smarrimento, il processo di apprendimento dell'uomo e la conversione nell'eroe. 
Dopo essere stato un disegno animato in A Scanner Darkly, Robert Downey Jr. torna a recitare con sfondi agitati, indossando un'armatura, sviluppando una doppia identità e combattendo il supervillain di Jeff Bridges. Soltanto la sua performance glamour (e "in carne e ossa") poteva trovare l'equivalente plastico-dinamico del personaggio disegnato su carta, restituendone l'aura ed eliminando la seccatura del ridicolo, che si ripresenta a ogni traduzione del fumetto al cinema.

 
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Lettere da Berlino

Post n°13815 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

Berlino, 1940. All'indomani dell'occupazione di Parigi da parte delle truppe tedesche, una lettera della Wehrmacht notifica la morte del figlio di Otto e Anna Quangel sul fronte francese. Caduto per la patria e in nome del Führer, Hans era la bella ragione di vita di Otto e Anna che inconsolabili intraprendono una resistenza silenziosa con carta, penna e scrupolo. Munito di guanti per non lasciare impronte, Otto redige cartoline antinaziste che deposita in luoghi strategici con la speranza di risvegliare la coscienza tedesca e porre fine alla follia hitleriana. Assoldato l'ispettore della Gestapo Escherich, inizia una serrata caccia all'uomo. Prudenti e metodici, Otto e Anna riparano dietro una vita ordinaria e un condominio che rispecchia il momento storico, affollato di giusti, miserabili, ebrei che temono la delazione e delatori che non vedono loro di denunciare ebrei. Le stagioni intanto scorrono, la guerra tuona e la città è stremata dai bombardamenti e dal clima di diffidenza diffusa. Duecentoottantacinque cartoline dopo una tasca bucata tradisce Otto, che viene arrestato e processato con la consorte. La sentenza per entrambi è di morte.
Non è affatto vero che Hitler non conobbe oppositori in Germania, che la popolazione tedesca era un blocco filonazista monolitico, vero è quanto fosse difficile dissentire con azioni dirette non appena il dittatore prese il controllo delle istituzioni nazionali. Questo non convalida né tantomeno giustifica il consenso della nazione a un capo scellerato ma aiuta ad avvicinare la complessità delle scelte morali che uomini e donne hanno dovuto affrontare in tempi in cui l'unica libertà permessa agli individui era l'adeguamento alla volontà del partito, l'unico valore sociale legittimato quello della denuncia.

Trasposizione del romanzo resistente di Hans Fallada ('Ognuno muore solo'), Lettere da Berlino è la storia di una coppia che alla morte del figlio si risveglia da un abbaglio e 'spedisce' ai suoi concittadini cartoline postali con appelli alla ribellione. Ma in fondo quello che si aspettano i protagonisti è di essere denunciati dal vicino o da un collega di lavoro perché nella Berlino degli anni Quaranta la delazione era considerata il dovere civico per eccellenza.

Marzia Gandolfi / MYmovies.it

Se un merito ha il film 'in costume' di Vincent Perez è quello di parlare dei crimini del nazismo non solo nelle forme di disumanizzazione concretamente messe in atto ma anche nella normalità della vita quotidiana. Dal buio profondo del conformismo generale, il regista pesca Otto e Anna Quangel, una coppia della working class che riuscì a ragionare da sola, libera da preconcetti e pregiudizi. Ispirati a Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1943, i protagonisti 'vuotati' dal dolore della perdita guardano finalmente agli eventi nella loro dimensione reale, acquisendo la forza di giudicarli, di contestarli, di combatterli. Film di attori così efficaci da rendere tollerabile l'ambizione internazionale di Pérez, nella versione originale Emma Thompson e Brendan Gleeson parlano inglese con accento tedesco, Lettere da Berlino racconta come la vita degli individui fosse controllata nei pensieri, nelle emozioni, nei comportamenti e condizionata dal meccanismo della delazione, l'invenzione sociale più riuscita e ferale di tutto il sistema nazista, poi ripresa col medesimo 'successo' da quello sovietico. 
Attore e regista tedesco da parte di madre, Vincent Pérez fa i conti con un'eredità che sente pesante, emergendo dalla follia collettiva di una nazione diciotto cartoline (mai denunciate) e due uomini giusti, che s'impegnarono a mantenere la propria autonomia, senza abdicare la dignità e difendendo l'idea stessa di umanità. La forza del tema e il potere edificante della storia originale non trovano tuttavia un corrispettivo formale all'altezza. Pérez predilige una struttura classica, nessuna audacia, alcuna asprezza.
Lettere da Berlino è un thriller emozionale prima che storico e politico che spinge avanti la relazione dei coniugi protagonisti ma manca la disperazione e l'insensatezza (assennata), motori della loro insubordinazione. Tutti gli altri personaggi finiscono per mancare di profondità e coerenza, su tutti l'ispettore di Daniel Brühl, il cui passaggio da sadico nazista a funzionario pentito non contempla le nuance. Troppo facile risolvere la struttura ideologica del regime nei segni esteriori (bandiere naziste e saluto hitleriano), difficile invece dire in inglese una colpa tedesca. La lingua di 'accoglienza' cancella l'identità originale di questa storia, rinforza la rimozione e produce un distacco emotivo, disertando il complesso significato di resistenza nella società civile e abitando sonorità (e logiche) separate dalla memoria del corpo.

 
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Animali Notturni

Post n°13814 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 


Susan Morrow, proprietaria di una prestigiosa galleria d'arte, riceve un manoscritto dal marito da cui la separano diciannove anni e un rimosso che emerge prepotente dalle pagine del suo romanzo. Un thriller che avanza nell'orizzonte piatto del Texas e dentro una notte mai così nera e profonda. Una notte che cattura Susan e la inchioda al suo letto, dietro gli occhiali e una vita di apparenze. Perché Susan molti anni prima ha divorziato crudelmente da Edward per sposare Walker, che non sopporta i fallimenti e la tradisce sulla East Coast, perché Susan vive una vita che scivola abulica sulla superficie delle opere che espone. Ma niente ora è più reale di quelle pagine che consuma con gli occhi, svolge col cuore, riorganizza nella testa, risalendo il tempo e la storia del suo matrimonio. Thriller coniugale nella cornice dell'arte contemporanea e critica 'con delitto' alla dittatura delle apparenze, Animali notturni è una parabola crudele sul matrimonio. Un matrimonio rigettato sul volto di una donna che porta a coscienza il dolore inflitto al coniuge. Un ex marito che trova la sua vendetta sulla pagina, mediando con l'arte il lutto e la perdita. Se l'arte 'messa in scena' da Susan è icona di se stessa, priva di un significato intrinseco e ridotta a macchina per formalizzare il dissenso e produrre pseudo-filosofie e pseudo-estetiche, quella praticata da Edward ricompone un disagio e lo cura, trovando al materiale grezzo e lavico dell'esperienza patita una nuova organizzazione testuale. Consegnando al genere, quello del thriller, la propria traiettoria esistenziale, protagonista e autore trasformano i fatti in arte-fatti e sperimentano la mediazione calcolata del linguaggio letterario (Edward) e cinematografico (Ford). Alla maniera di Edward, Tom Ford sublima la dimensione informe dell'esperienza nel miracolo di un'opera che dissimula l'orrore lungo le linee chiare, dentro la fluida successione dei piani e nell'eleganza serica della sua protagonista. Come Edward, ancora, il regista orchestra il suo thriller nero con la meticolosità di un couturier, cucendo col delitto e l'illusione romantica un'indagine che stana i colpevoli e ridistribuisce carte e ruoli in un'altalena di rette e scarti che passano tutti per un 'centro' di vista. Lo sguardo di Susan che procede a ritroso dietro un paio di occhiali Tom Ford, deragliando il film sul reale e su un'America fabbrica di mostri. Di quella società la sequenza flesh and trash di apertura restituisce la misura disturbante, l'eccedenza, la pornografia e l'estremo limite di plasticità di una forma vivente. Ma la sfigurazione si regola rapidamente nella figurazione: all'esibizione progressiva della carne subentra la trasfigurazione di un'esperienza privata che genera orientamenti di partecipazione e scoraggia il fruitore voyeuristico. 
Nella forbice, che scivola sul tessuto narrativo, si definisce Tom Ford, imperatore del marketing di lusso, re di uno chic esuberante che sa quando togliere un accessorio, smorzare un rossetto e incrementare il suo capitale di empatia dopo A Single Man, il suo primo bijou di emozione. Creatore di moda e di forme, capace di sviluppare un universo coerente sullo schermo come sulla passerella, i suoi film si rivelano nei dettagli, evocando la rigida geometria hitchcockiana, celebrando la costruzione tesissima della sua opera e rimettendosi a un cinema sensibile alla qualità plastica delle immagini e alla maschera femminile, in cui si annida una crudeltà animale. Adattamento del noir postmoderno di Austin Wright ("Tony & Susan") e vertigine di scrittura che allaccia autore e lettore, Animali Notturni inghiotte Amy Adams nel racconto incorniciato e produce nel racconto maggiore il suo doppio omicida. La vendetta è servita con un rapimento notturno che avvia un'inchiesta e la ricostruzione esistenziale di un uomo dolente nascosto dietro al quadro professionale. A sua volta Susan, sfinge infinitamente (tra)vestita, si interroga sulla natura di Edward, narratore che si fa eroe di un libro e di una forza altra, romantica, creativa, performativa e incompatibile con la sua tendenza a intellettualizzare tutto per evitare di passare all'azione, organizzando la sua esistenza su un principio di sopravvivenza perfettamente egoista. E perfettamente abbigliato. Un altro modo in fondo di lottare contro la propria mediocrità. Il modo à la mode di Tom Ford.

 
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Split

Post n°13813 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

Casey è una ragazza introversa e problematica, tenuta in disparte dalle compagne di scuola più popolari. Insieme a due di loro, Claire e Marcia, viene rapita da un maniaco, che chiude le ragazze in uno scantinato. In attesa di scoprire che ne sarà di loro, verranno a conoscenza delle diverse personalità che coabitano nella mente del loro rapitore: un bambino, una donna e altre ancora, assai più pericolose.
In una carriera che ha dimostrato coraggio e forse anche un po' di autolesionismo M. Night Shyamalan ha sempre dimostrato di non rifuggire le sfide. Dopo un certo numero di insuccessi di pubblico e di critica, Split sapeva quasi di ultima spiaggia per il regista de Il sesto senso. Va a suo merito quindi l'aver trasformato un ritorno a casa e a territori più congeniali nell'ennesima dimostrazione di temerarietà nell'approccio allo storytelling.

Da sempre noto per i colpi di scena nel finale, Shyamalan non si sottrae al proprio destino, confezionandone qui anche più di uno. Ma se l'epilogo finisce per mutare repentinamente registro e percezione generale del film, portando a rivederlo globalmente sotto un'altra luce, Split merita di essere valutato nel suo complesso, al di là dell'effetto sorpresa connaturato alla sua risoluzione.

Split è prima di tutto un lavoro sui generi cinematografici e su come alternarli e mescolarli oggi, dopo che tutto è stato raccontato e che le serie tv - di cui Shyamalan è attento e partecipe osservatore - si sono portate via il dono di narrare storie. Il regista si serve delle molteplici personalità di Kevin - ben 23 - per cambiare registro continuamente, intervallando toni grotteschi ad altri inquietanti o orrorifici, pur mantenendo una dominante fosca e pessimista. Prima di rivelare l'effettivo genere di appartenenza di Split con una scena finale, che sa quasi di necessaria captatio benevolentiae verso il proprio pubblico.

 
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Tokyo love hotel

Post n°13812 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina Tokyo Love Hotel

Toru e Saya sono una coppia sulla soglia di una crisi. Lei troppo concentrata sulla sua carriera di musicista, lui su quella mancata di albergatore a cinque stelle, trasformatasi in un lavoro come manager in un albergo a ore frequentato da amanti clandestini e prostitute. Tra gli avventori una ragazza coreana al suo ultimo giorno di lavoro come squillo prima di tornare a Seoul.
Per la carriera di Ryuichi Hiroki Kabukicho Love Hotel rappresenta il punto di arrivo di due percorsi apparentemente paralleli. Un passato remoto nel pinku eiga, il codificato softcore giapponese di cui ha rappresentato una voce autorevole, e uno più prossimo, alle prese con un cinema mainstream in cui ha sempre saputo mantenere un tocco autoriale. Il regista sceglie l'albergo a ore del quartiere a luci rosse di Tokyo per un affresco corale e per riconciliare le due anime del suo percorso. Attraverso il nocchiero Toru, frustrato manager dell'albergo, entriamo nelle vite di personaggi in bilico tra disperazione e un possibile riscatto. 
La macchina da presa si muove spesso sorretta da una mano quasi tremolante, ricercando inquadrature sghembe, dal basso, grandangoli che ritraggano l'albergo dell'amore come un luogo multisfaccettato, in cui possono avvenire epifanie inattese e abiezioni morali della peggior specie. Senza tirarsi (quasi) mai indietro di fronte alla nudità dei corpi, ancor meno di fronte a quella dei sentimenti. Lo sguardo è tendenzialmente e forse astutamente benevolo. Nessuna demonizzazione per il cinema porno, ad esempio, visto come un lavoro che non si può raccontare ai propri genitori ma che in fondo garantisce un guadagno certo e cospicuo, mentre lo sguardo sulla prostituzione cerca di essere il più possibile quello di una humana pietade.
Kabukicho Love Hotel sfiora il nichilismo e la dolorosa constatazione che una buona fetta di have-nots in tempi di precarietà sia costretta a prostituirsi, ma poi ripiega su un atteggiamento consolatorio. Due ricercati si tramutano in una romantica coppia di vecchietti, evidentemente perdonati per i crimini commessi; Hena e Cheong-su, immigrati sudcoreani, dopo aver svenduto il proprio corpo e la propria anima, si sentono umiliati ma in fondo arricchiti da un punto di vista umano (estremamente ambiguo il ritratto di Hena, prostituta che stabilisce un contatto umano con i propri clienti, comprensiva e "samaritana", per dirla con Kim Ki-duk). 
La negatività rimane tutta concentrata sul personaggio della sempre più brava ex pop idol Atsuko Maeda (Tamako in Moratorium), che paga un prezzo elevato per aver barattato l'amore con la carriera. Quasi l'invisibile giudizio del regista ristabilisse una gerarchia tra prostituzione vera o presunta e soprattutto tra scelte e necessità.

 
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Baby Boss, più spettatori di Guardiani della Galassia

Post n°13811 pubblicato il 08 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

Box Office Italia
Weekend povero, quello appena trascorso al boxoffice italiano, a causa dello scarso appeal delle nuove entrate settimanali e del calo fisiologico dei film che tirano da due o tre settimane. La notizia è che nella giornata di domenica Baby Boss è stato più visto de Guardiani della Galassia Vol.2, che invece hanno vinto il weekend come incasso complessivo. Il film animato sta piacendo davvero tanto ed è arrivato a superare i 6 milioni complessivi, dato niente male per un film non sequel e non facente parte di un franchise. Per Guardiani della Galassia Vol.2 il totale è di 5,9 milioni, buono ma non eccezionale: il film non supererà i 10 milioni e non riuscirà ad entrare nella top ten, finendo per fare peggio anche di "nuovi" titoli come Doctor Strange. In ogni caso Vol.2 ha superato il primo capitolo, che aveva chiuso a 5,6 milioni.
Sempre ottimo il dato di Famiglia all'improvviso - istruzioni non incluse, altra piccola sorpresa di stagione, che arriva a 5,4 milioni. Ultimi botti per Fast & Furious 8, che riesce a scavalcare Oceania e portarsi al quinto posto assoluto stagionale con 14,3 milioni di euro. Difficile invece che riesca a scalzare Cinquanta Sfumature di Nero, quarto a 14,8 milioni. 
Male le new entry: Gold - La grande truffa porta a casa meno di mezzo milione di euro, Codice Unlocked si ferma a 382mila euro e Insospettabili Sospetti a 283mila euro. Questa settimana arrivano King ArthurAlien: Covenant e Qualcosa di troppo, oltre ad altre uscite minori. 

 
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