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Date la colpa alla mia insonnia

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La stanza dell'infanzia

Post n°291 pubblicato il 21 Gennaio 2017 da je_est_un_autre

Immaginare, da adulti, di aprire la porta della stanza che ci ha visti bambini - rimasta magicamente intatta e inviolata durante tutto questo tempo - entrare lì dentro e respirare quell'aria ben nota che credevamo di avere dimenticato, poi guardare le pareti, il pavimento, gli oggetti. Camminare, esplorare, toccare, vivere la stanza. Lasciarsi andare.

Questo è un esercizio che faccio sempre fare, nei miei corsi, soprattutto ai principianti assoluti. Quest'anno, chissà perchè, l'esercizio è letteralmente "esploso", nel senso che ha rilasciato i suoi frutti migliori, con un contenuto emozionale finora mai raggiunto. Ciò si deve probabilmente al fatto che fino ad oggi ero io a non essere pronto, forse non  ne avevo compreso appieno le potenzialità. L'esercizio a livello teatrale è formidabile perchè suggerisce insegnamenti importantissimi all'allievo (obbliga all'introspezione e all'immaginazione e si improvvisa senza essere costretti a parlare) ma anche da seguire come "spettatori" diventa spesso molto interessante.
Ora, le serate nei corsi non sono sempre uguali: a volte si è più caciaroni, più pronti al riso (e spesso è un bene), a volte aleggia un certo spleen. L'esercizio in questione risente forse più di altri dell'atmosfera che si respira nella sala.
Ieri sera ad esempio un'aria piuttosto leggera ha fatto sedere un uomo di cinquant'anni alla piccola batteria che campeggiava al centro della stanza, e la performance silenziosa ma assolutamente viva è stata apprezzata da tutti. Un altro allievo, un ragazzo piccolo e piuttosto buffo, è entrato nella "cameretta" a gambe larghe e piedi ben piantati, con l'espressione di uno sceriffo che entra minaccioso in un saloon alla ricerca di un bandito. Ha guardato da un lato, poi dall'altro, ha preso da sotto un letto immaginario qualcosa che doveva essere uno scatolone, quindi lo ha ribaltato. Ha rovistato con estrema concentrazione nel mucchio di cose che vedeva solo lui e che adesso se ne stavano sul pavimento, alla fine riemergendo con aria trionfante tenendo tra pollice e indice qualcosa di minuscolo e invisibile: solo alla fine ci ha raccontato di avere ritrovato il duemilaecinquecentesimo pezzo di un puzzle mai completato.
L'altra sera è andata in tutt'altro modo. Una signora ha cominciato l'esercizio, e senza nemmeno guardarsi attorno si è seduta su quello che doveva essere il suo letto di bambina. Ha guardato avanti a sè per parecchi secondi in un silenzio "pieno", concentrata, esausta (quando mi sembra di riuscire a far capire quanto parla il silenzio, credo di aver fatto bene il mio lavoro) poi lentissimamente, sempre senza guardare, ha spostato una mano di lato toccando appena, con cura, quello che doveva essere il lenzuolo, o il bordo del letto. Un momento, poi un altro momento ancora, poi finalmente è arrivato: un pianto intimo, inarrestabile, liberatorio.
E momenti così emozionanti potrei raccontarne parecchi.
Questo esercizio, o questo gioco, è interessante anche perchè ci costringe, da subito, a pensare a come lo faremmo noi, che assistiamo o anche solo che lo spieghiamo per farlo fare agli altri.
Io, un giorno, vorrei farlo, perchè da allievo non  me l'ha fatto fare nessuno. Vorrei toccare le colonnine che erano il parapetto della finestra e dietro alle quali mi nascondevo per guardare fuori. Vorrei accarezzare la carta da parati della stanza, caricare a molla quella piccola astronave che faceva solo un piccolo giro su una pista stampata con immagini lunari, stringere quella pallina magica con cui devo avere giocato milioni di volte.
Avere il passato, tutto il passato sulle mie dita.

 
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