Creato da: je_est_un_autre il 04/11/2008
Date la colpa alla mia insonnia

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Messaggi di Agosto 2014

 

I Dialoghi Impossibili: IO & Arturo (XVI)

Post n°237 pubblicato il 19 Agosto 2014 da je_est_un_autre

Selfie?

ARTURO: Un tempo non te ne fregava un accidente.

IO: E adesso è lo stesso, non ti credere.

ARTURO: Oh, lo vedo. E' un selfie dietro l'altro. Sei schiavo anche tu di questa moda cretina.

IO: Non dire sciocchezze. Ma poi dico io, cosa ti costa rimanere in posa per cinque secondi?

ARTURO: Non ce la faccio. Sono ribelle dentro.

IO: E poi cos'è questo vizio di prendere a testate la bottiglia del succo di frutta non appena premo il pulsante dell'autoscatto?

ARTURO: E' il mio numero detto del Toro Arrabbiato, non ti piace?

IO: Rischi di rompere il mio piccolo totem rossoblù.

ARTURO: L'ho messo al tappeto almeno cinque volte, il tuo piccolo totem rossoblù.

IO: Dai, riproviamoci.

ARTURO: Non ci penso nemmeno.

IO: Neanche se metto un piattino di prosciutto al posto del mio totem?

(Pausa)

ARTURO: ...mi piace, quando diventi ragionevole.

 

 

 
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Tu no

Post n°236 pubblicato il 09 Agosto 2014 da je_est_un_autre

(Ne parlavo qui.
E mai, mai avrei pensato.

No, lei non si chiamava Giulia, si chiamava Claudia.
Di solito per protezione i nomi li cambio, ma adesso, che senso avrebbe?
Non ha più senso niente.)

La prima volta che la vidi fu nel corridoio dei camerini del Valle Occupato. Fino a quel momento avevo visto solo le bellissime foto di lei, nella sua gallery. Era così, forse più donna, più matura.
Mi venne incontro con un sorriso aperto.
Dopo, parlando dello spettacolo mi disse: "Sai, mi è piaciuto. Mi ha impressionato la scena del suicidio, dell'impiccagione: vedi, mia madre si è uccisa così". Io rimasi senza parole: fino a quel momento la nostra conversazione era stata caratterizzata dal divertimento, dalla fesseria lieve, dalla battuta, e questo irrompere di un privato così doloroso, così indicibile, mi colpì. Il giorno dopo mi spedì un sms in cui si scusava per essere stata inopportuna (e davvero non ce ne sarebbe stato biso
gno).
Quell'sms lo c
onservo ancora. Mi è rimasto poco altro.
Ma leggendo quel messaggino non pensavo che lei in quella scena potesse aver visto un destino. Non mi accorgo mai di nulla.
Ancora adesso pensando a te, Claudia, non riesco a non pensare a quanto eri bella. I natali australiani, la nonna coreana, il padre calabrese, tutto contribuiva a una bellezza altra, diversa, un po' esotica, senz'altro lontana.
E' che la morte già non riesci a pensarla, figurati se giovane, figurati se cercata.
Sai, quando mi viene in mente quello che è successo tutto si allontana, il mondo e i suoi rumori, tutto; e un torpore quasi tattile, epidermico, mi prende. Tutto diventa silenzio. Una malinconia dolorosa, inerte mi prende. E' un abbandono e una sconfitta.
Poi mi risveglio e m'incazzo, m'incazzo con me stesso.
Diversi mesi prima che succedesse tutto questo le nostre conversazioni erano ancora le solite: tu torrenziale, conversatrice instancabile, lamentando il lavoro che non andava mi dicevi: "Vorrei tornare in Australia" e io giocavo ad implorarti di no, ti facevo un complimento e tu mi davi del "galantone", era questo il nostro gioco. Poi le telefonate si diradarono, tu sparisti un po', poi un giorno mi scrivesti "Non voglio più partire, anzi mi licenzio e mi trasferisco in provincia" e alle mie insistenze confessasti "Sì, ho un amore adesso" e io ero felice per te, pensavo che forse avresti finalmente placato quel tormento che pure a volte si palesava.
Poi sempre meno contatti fino al silenzio.
Fino a quel giorno in cui un tuo ex-fidanzato che avevo conosciuto in quei giorni romani, in lacrime, disperato, mi ha raccontato tutto. Io che gli dicevo, ma come è possibile, non ci credo, non può avere fatto questo. E lui:
"No, Lorenzo, tu non conoscevi Claudia".
Aveva ragione. Non ti conoscevo.
Però sono qui che affronto il rimpianto di non aver fatto, di non aver chiamato, e guardo l'agenda per capire dove cazzo fossi quel giorno e naturalmente salta fuori che non avevo un cazzo di importante da fare e allora perchè non ho chiamato? e nemmeno il giorno prima e nemmeno quello prima ancora, colpevole io come gli altri e lascia stare se ti conoscevo poco. E penso alla tua piccola casa nella città dalle alte mura medievali, tu sola con le tue ultime ore, due righe e una corda e io non riesco non riesco a pensare che sia possibile, non tu.


E allora dico no. Mi sforzo e penso a te ancora lì, nel corridoio del Valle Occupato, io che sento la tua voce che dice "Lorenzo?" e io che mollo l'asciugamano e mi affaccio e ci sei tu, sorridente, elegante, bellissima.

 

 
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Volterra

Post n°235 pubblicato il 06 Agosto 2014 da je_est_un_autre

E' stata una giornata attesa, immaginata, lunga, estenuante. Iniziata varcando quei cancelli.
Per ragioni di sicurezza funziona così: tu entri alle 9 di mattina e fino alle 8 di sera, orario d'inizio dello spettacolo, non hai niente da fare.
Stai nel cortile dove è montato il palco, circondato da sbarre da ogni lato, e aspetti. Libertà di movimento limitatissima. Anche per andare in bagno devi chiamare un secondino - sempre gentilissimo, sempre di pochissime parole - che ti apre almeno un cancello e una porta.
L'ambiente si presenta in questo modo: un enorme cortile diviso in tanti piccoli cortiletti ognuno separato dall'altro da sbarre altissime. Vent'anni di attività della Compagnia della Fortezza all'interno del carcere hanno lasciato il segno, e così ogni cortiletto ha un nome letterario o teatrale: "Spazio Artaud", "Spazio Kafka" e così via.
I contatti coi detenuti sono pochi. Li guardi oltre le sbarre, ma l'effetto zoo mette a disagio. Più noi di loro, mi pare.
Pure, li abbiamo visti. Molti 41bis, molti fine pena mai, diversi a tempo, anche. Quello stesso panorama di sbarre ogni minuto di ogni ora di ogni giorno forse per sempre. Prima di mettere piede lì dentro non è che lo capisci tanto cosa possa significare.
Facevano l'ora d'aria. Qualcuno giocava a bocce, i più camminavano avanti e indietro come si vede nei film, altri facevano flessioni. La mattina un nero gigantesco in un cortile tutto per sè faceva un allenamento al sacco, quello dei pugili.
Ci sono anche alcune facce dure che dopo te le ricordi, e una concentrazione di tatuaggi mai vista prima.
La sera i detenuti si mescolano agli spettatori normali e vedono lo spettacolo. Ed è lì che salta fuori un lato inatteso, sorprendentemente umano. Sono, come dire, sono davvero senza filtri, come un pubblico di bambini.
Ti amano, gli piaci? Te lo fanno sentire eccome. Pestano i piedi, ridono, applaudono, fanno commenti a voce alta.
Non gli piaci? Te lo dicono, te lo urlano proprio, e lasciano la platea senza porsi problemi.
Per fortuna siamo piaciuti.


C'è una frase ricorrente, nello spettacolo: "Toni, sei libero". Ce la urlavano ridendo, con gli occhi accesi, mentre se ne tornavano in fretta alle celle, dopo lo spettacolo.
Noi, chissà se ci avevamo pensato fino in fondo.
Ma per loro, non è che non voglia dir niente.


 
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