La battuta-chiave de «Il re muore» di Ionesco (non per niente collocata in posizione fortemente icastica, alla fine) è quella che pronuncia la regina Margherita: «Tu non hai più la parola, il tuo cuore non ha più bisogno di battere, non vale più la pena di respirare. Era un'agitazione completamente inutile, non è vero?».
Infatti, il tema decisivo del celebre testo - al di là della morte fisica del re (che non a caso si chiama Bérenger, come l'uomo medio protagonista di altri lavori di Ionesco) - è una morte metaforica, vale a dire la morte della fede in una qualsiasi possibile interpretazione del mondo. Si tratta, insomma, della sconfitta senza rimedio dell'ideologia, sovrastata e corrosa dalla continua e progressiva caduta di valori verificabile sull'orizzonte della civiltà occidentale.
Ma, nell'allestimento de «Il re muore» che la compagnia beneventana Solot presenta nel Ridotto del Mercadante, la battuta citata non c'è. Giacché Pino Carbone, autore dell'adattamento e regista, pensa esattamente il contrario di quel che pensava Ionesco: «"Il re muore" è l'uomo che cerca di affermare a tutti i costi la sua esistenza, che riesce a trovarsi e riconoscersi quando sembra troppo tardi, quando ha la sensazione di fine».
Ebbene, come si realizzano, nello spettacolo, il «trovarsi» e «riconoscersi» di cui parla Carbone? Si realizzano, a quanto pare, nel misterioso modo che segue: i tre interpreti in campo (Andrea de Goyzueta, Francesca De Nicolais e Giovanni Del Monte) si dividono i sei personaggi previsti dall'autore e, mentre ne ripetono alla men peggio (peggio più che meno) parte delle battute, di volta in volta, e con grande impegno, strillano canzoni francesi, pitturano sedie, si azzuffano per gioco, scrivono forsennatamente su fogli e brogliacci che poi scaraventano in giro o si tirano addosso.
Ma qui davvero si sprecano, i punti interrogativi. Misterioso è anche il perché vengano affidati a una donna il ruolo di Bérenger e ad uomini le parti femminili di spicco. E misterioso, soprattutto, è il motivo per cui lo Stabile di Napoli ha deciso di regalare a una cosa del genere la bellezza di undici recite.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 5 aprile 2011)
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