TORINO. Questa è una storia che parla - come ormai sempre più raramente accade - di una fondata coerenza intellettuale e di una lucida strategia culturale. Mario Martone, in quanto regista cinematografico, aveva rievocato, nel film «Noi credevamo», l'utopia risorgimentale che fece capo a Mazzini. E adesso, in quanto direttore dello Stabile di Torino, ha varato al Carignano - in coproduzione col Teatro di Roma e con la Zachàr di Michela Cescon - l'allestimento per la regia di Marco Tullio Giordana (il debutto l'altra sera al Carignano) di «The Coast of Utopia (La sponda dell'utopia)», la monumentale trilogia («Viaggio», «Naufragio», «Salvataggio») di Tom Stoppard dedicata al fervore rivoluzionario del critico Belinskij, dello scrittore Turgenev e, in particolare, del filosofo Herzen e dell'anarchico Bakunin, che appunto con Mazzini s'incontrarono nell'esilio londinese.
Dice Martone: «Sì, è la stessa, nel mio film e nel testo di Stoppard, la tensione verso l'utopia. E per quanti fallimenti possa aver scontato e sconti, allora come oggi restava e resta, insieme, l'unica spinta al cambiamento e, soprattutto, l'unica posizione ideale che desse e dia vera dignità alla militanza politica». E al riguardo cita, Martone, le parole di Antonio Neiwiller, il più votato all'utopia dei ricercatori teatrali napoletani: «Un nomadismo, una condizione, un'avventura, un processo di liberazione, una fatica, un dolore». Le identiche stimmate che segnano il Bakunin, lo Herzen, il Belinskij e il Turgenev portati in scena da Giordana. Il quale ultimo, nel solco di una coerenza sviluppata anche sul piano operativo, da regista cinematografico qual è dà luogo a un allestimento che si affida specialmente allo splendore e alla pregnanza delle immagini.
In proposito, è oltremodo significante l'idea centrale che (anche grazie alla sapiente linearità dell'impianto scenografico e del disegno luci di Gianni Carluccio) regge questo spettacolo sontuoso e, ad un tempo, reso leggero dall'ironia che attraversa il copione di Stoppard. I personaggi si riflettono in un fondale di specchi coperto da un velatino a tratti tremolante, e dunque danno l'idea, insieme, di fantasmi che si aggirano nella nebbia e di annegati che s'inabissano nel mare. Perché questo è il transito di cui sono prigionieri: la realtà sfuma nel sogno, la passione nell'ineffettualità, l'ideologia nel dogmatismo, la convinzione nell'illusione, l'impegno nell'esaltazione, la ribellione nell'indisciplina: è, in definitiva, il rovesciarsi della volontà nel volontarismo.
Ancora al linguaggio tipico del cinema Giordana fa poi ricorso, e con uguale efficacia, per rendere i salti di spazio e di tempo che tramano, numerosissimi, la trilogia di Stoppard. Cosicché i continui cambi d'ambiente vengono suggeriti da proiezioni sul velatino che di volta in volta scende a chiudere il boccascena, mentre gli elementi costitutivi di quegli ambienti risultano illuminati e sottolineati per mezzo di una sorta di zoom: vedi, tanto per fare un solo esempio, i pezzi di rami d'albero che calano dall'alto a rappresentare il bosco.
Adeguata, infine, la prova che fornisce il poderoso cast. Fra i trentuno attori in campo andranno citati almeno Luigi Diberti, Sandra Toffolatti, Denis Fasolo, Francesco Biscione, Giorgio Marchesi, Luca Lazzareschi e Corrado Invernizzi. Ma, per concludere, occorre chiedersi in che cosa possiamo individuare, oggi, l'attualità del testo di Stoppard e di quello che ci racconta.
Commenta Martone: «Oggi, certo, è molto difficile coltivare l'utopia. Però bisogna continuare a provarci, non possiamo arrenderci». E allora, forse, quello che possono ancora dirci i vari Bakunin, Herzen, Belinskij e Turgenev è che ci tocca, se non altro, il dovere di non cedere alla dilagante omologazione verso il basso.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 24 marzo 2012)
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