Rimane in vista dall'inizio alla fine (e addirittura piazzato sulla soglia di casa) il cumulo degl'indumenti smessi da trasformare in vestitini per i bambini poveri. E basterebbe quest'invenzione a dire dell'intelligenza e della precisione che attendono a «Yo, el heredero (Io, l'erede)», lo spettacolo che, per la regia di Francesco Saponaro, ha chiuso al San Ferdinando il Napoli Teatro Festival Italia. Si tratta, infatti, di un'invenzione che riassume e sottolinea come meglio non si sarebbe potuto i temi e i contenuti portanti di una commedia che, senz'alcun dubbio, è la più politica di Eduardo e - pur scritta nel lontano 1942 - rivela una strana e inquietante attualità.
Siamo di fronte al contrasto fra la ricca famiglia Selciano e Ludovico Ribera, il figlio di quel don Prospero che per trentasette anni è stato ospitato, appunto, in casa Selciano: alla morte del padre, Ludovico - sostenendo che la «diserzione agevolata dalla vita» procuratagli dalla carità pelosa dei suoi benefattori ha impedito a don Prospero di spendere l'esistenza in maniera produttiva - si presenta a reclamarne l'eredità, il «patrimonio di sentimenti» che in concreto significa tutte le comodità di cui godeva il genitore.
L'attualità della commedia, dunque, consiste in un'evidente metafora: la famiglia Selciano è lo Stato ad un tempo assistenziale e corruttore, quello Stato che delega le coscienze dei cittadini a farsi gestire solo da lui. Ma Saponaro - ecco un'altra dimostrazione di acume e inventiva - potenzia quella metafora proprio evitando di trasformarla in messaggio ideologico, e sciogliendola, al contrario, in un autentico trionfo della più codificata espressività popolare napoletana: vedi l'impagabile pantomima circa l'assegnazione dei posti a tavola, in cui fanno irruzione la tarantella e il Totò che s'abbuffa di spaghetti in «Miseria e nobiltà».
In tal senso va anche la voce registrata di Enzo Moscato che canta impareggiabilmente «Palomma», «'Mmiez' ' o ggrano», «Cinematografo» e «Napulitanata». Mentre, l'ennesimo guizzo creativo, su quel balletto d'ipocriti e ignavi incombe il muto giudizio (lo sguardo dal basso che in letteratura appartiene al «valet de chambre») della servitù che sta continuamente ad origliare.
Splendidi, infine, gli attori spagnoli in campo: da citare, accanto alla decana Concha Cuetos (Dorotea), almeno Ernesto Alterio (Ludovico), José Manuel Seda (Amedeo) e Natalie Pinot (Caterina). E allora, è troppo se dico che il Festival ha chiuso col suo spettacolo migliore?
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 25 giugno 2012)
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