Si giustifica perfettamente «Caproni!», lo spettacolo di Andrea Renzi che Teatri Uniti presenta nella Sala Assoli sotto specie di omaggio al grande livornese nel centenario della nascita. Perché davvero non potremmo immaginare un poeta più teatrale (voglio dire più vicino al teatro) di Giorgio Caproni.
Intanto, la sua parola non sta né prima né dopo, ma qui e ora s'identifica con l'oggetto della comunicazione: allo stesso modo, appunto, del teatro, che conosce solo l'opzione del presente; e, poi, la sua adozione quasi ossessiva dell'«enjambement» traduce pari pari la frattura/simbiosi che esiste fra il testo teatrale in sé e la vita del medesimo sul palcoscenico. Senza contare che la misura riduttiva del verso di Caproni, che sempre agisce per sottrazione, richiama immediatamente - per intenderci - la recitazione di Eduardo De Filippo.
Bene, dunque, fa Renzi a supportare l'antologia qui proposta (si va da «Versicoli dal "controcaproni" di Attilio Picchi» a «Congedo del viaggiatore cerimonioso», passando per «Il Conte di Kevenhüller») con il violoncello da una parte e le percussioni dall'altra: perché inverano i due cardini della poesia di Caproni, rispettivamente la narratività e le spezzature; e molto bravi sono, nella resa espressiva, lui come attore e Federico Odling come musicista.
Invece (e significhi un urrà per il poeta o un'invettiva contro l'ignoranza dilagante) è sbagliato il titolo (lo ripeto, «Caproni!») dello spettacolo. E a dimostrarlo è lo stesso Caproni. La summa della sua poetica risiede in una poesia intitolata, guarda un po', «Senza esclamativi» e che dice fra l'altro: «Vuoto delle parole / che scavano nel vuoto vuoti / monumenti di vuoto». Perché la Bestia a cui si dà la caccia ne «Il Conte di Kevenhüller» non è il Male, come pensa Renzi, ma per l'appunto la Parola in quanto pretesa di spiegare e, quindi, possedere il mondo.
Non a caso, la poesia in questione adotta come epigrafe due versi nell'originale tedesco - «Ach, wo ist Juli / und das Sommerland (Ah, dov'è luglio / e il paese dell'estate)» - di quell'Hofmannsthal che, lo ripeto ancora, scrisse che «le parole non sono di questo mondo».
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 9 novembre 2012)
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