Luca Barbareschi - che partecipa a «Il discorso del re», in locandina al Diana, nella triplice veste di traduttore, regista e coprotagonista - sottolinea nelle sue note l'origine teatrale del testo. Ma siamo alle solite. Poiché, si capisce, lo spettacolo è nato con lo scopo di sfruttare commercialmente la scia dell'omonimo e pluripremiato (quattro Oscar) film di Tom Hooper con Colin Firth e Geoffrey Rush, qui s'insegue, sulla traccia della sceneggiatura di David Seidler, più il cinema che il teatro.
Infatti, l'impianto scenografico di Massimiliano Nocente tenta - mediante siparietti interni e pannelli che scorrono orizzontalmente - di riprodurre i salti di spazio e di tempo e le dissolvenze incrociate che son propri, per l'appunto, del cinema. E questo senza contare i filmati d'epoca proiettati sul fondale, primi fra tutti quelli relativi ai comizi di Hitler: che, naturalmente, svolgono la funzione didascalica di rimarcare per contrasto i valori democratici e patriottici del discorso di cui nel titolo.
A quel discorso - la storia è notissima - Giorgio VI d'Inghilterra, chiamato dagl'intimi Bertie, giunge solo dopo che ha vinto la sua balbuzie con l'aiuto determinante dell'australiano Lionel Logue, attore fallito ma geniale ancorché stravagante logopedista. E alla notorietà della storia (amplificata, giusto, dal film di Hooper) si aggiunge il già visto degli espedienti adottati dalla regia di Barbareschi per movimentare un plot che, se al cinema può giovarsi dei meccanismi linguistici e tecnici citati, sul palcoscenico si rivela piuttosto statico.
Al riguardo, basta fare l'esempio dell'usuratissima pratica degli attori che intervengono dalla platea. E per il resto s'accampano gag a ripetizione, giacché il tono prevalente della rappresentazione volge - soprattutto ad opera del Logue costruito dallo stesso Barbareschi - al grottesco e, talvolta, persino al farsesco. Meglio, dunque, il più meditato e articolato Bertie di Filippo Dini.
Risalta, insomma, un gioco di attori da classico spettacolo d'intrattenimento.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 20 gennaio 2013)
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