Francamente, la sua stagione il Nuovo poteva pure chiuderla un po' meglio: tanto più che si è trattato di una stagione che ha offerto spettacoli spesso notevoli e in qualche caso (vedi «[H]L-Dopa» di Latella) addirittura memorabili; e che, soprattutto, ha annunciato l'avvento alla direzione artistica del teatro di un regista di caratura internazionale come lo stesso Antonio Latella.
Ora, so benissimo che gioverebbe non porsi più interrogativi, in generale e, segnatamente, a proposito del teatro. Ma non posso, proprio, evitare di chiedermi perché mai si faccia seguire a «Selvaggiamente le parole lussureggiano nella mia testa. Un trittico», uno spettacolo diretto ancora da Latella e centrato sullo scontro fra le parole e la vita, questo «Chinese Coffee», diretto da Pierpaolo Sepe e che, al contrario, delle parole si serve per sommergere (o mascherare) la vita. Al punto che viene spontaneo immaginare d'intitolarlo con la parafrasi «Goduriosamente le parole si pavoneggiano nella mia bocca».
Scherzi (ma non tanto) a parte, si tratta di un testo di Ira Lewis che, con altrettanta franchezza, giudico - naturalmente stando alla versione italiana, firmata da Letizia Russo - uno dei più prolissi, confusi e inconcludenti che abbia mai letto. Ci presenta due falliti, lo scrittore Harry Levine e il suo amico fotografo Jake Manheim, che per una notte intera, nel monolocale del secondo al Greenwich Village, si scannano a vicenda su tutto e il contrario di tutto, dal rapporto dell'artista con il mercato al rapporto dell'artista con le donne, passando per la solita requisitoria contro la corruzione della città e l'ancor più solita requisitoria contro l'egotismo dei teatranti.
L'unica novità è che, giusto il titolo, Harry propone - rispetto a tante e tali ferite - il balsamo (o la droga) di una tazza di caffè sorbita in uno dei mille localini di Chinatown. E noi, miseri terroni napolitani di cortissime vedute e ancor più scarsa fantasia, che non avevamo mai sospettato che un espresso nella Duchesca potesse incarnare un'oasi di beata rigenerazione!...
Forse, però, Lewis intende mettere in campo una metafora. Ma, se è così, la regia di Sepe non ce lo dice. Perché l'Harry e il Jake nei quali c'imbattiamo qui si vestono del più fiero e tetragono naturalismo, dandoci dentro a urlare e smaniare come se stessero recitando una tragedia di Seneca invece del copione di uno che, per intenderci, scimmiotta Neil Simon illudendosi d'essere Strindberg e Miller messi insieme. E non rimane, dunque, che prendere atto dell'impegno professionale dei due interpreti, Max Malatesta (Harry) e Paolo Sassanelli (Jake).
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 8 maggio 2010)
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