Non v'è dubbio: «Napoletango» - il nuovo spettacolo di Giancarlo Sepe presentato al San Carlo nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia - costituisce un sequel dello splendido «E ballando... ballando» che vedemmo al Politeama nel dicembre del '97. Basterebbe ricordare che allora, ad annunciare la guerra, era una «Cumparsita» di assordante fragore e che, per converso, proprio da quel celebre brano partiva un'intrigante e ironica parafrasi del concetto ciceroniano della storia come «maestra di vita»: la storia è maestra soltanto di tango ed è il tango, semmai, a insegnarci la vita.
La differenza fra i due spettacoli è che, mentre tredici anni fa Sepe ripercorreva attraverso il ballo in generale la storia dell'Italia intera, adesso intenderebbe ripercorrere attraverso il tango in particolare la storia di una singola famiglia, quella napoletana degli Incoronato: i quali, fissati con «il pensiero triste che si balla», frequentano locali di terz'ordine e feste di piazza sognando di arrivare, un giorno, a proporre un vero spettacolo in un vero teatro. Ma è meglio aggiungere subito che la contrazione del tema rispetto a «E ballando... ballando» è sinonimo, in «Napoletango», della contrazione della creatività e della qualità.
Manca qui un vero e proprio testo che espliciti gli snodi della storia annunciata nel programma di sala e nelle interviste rilasciate dall'autore-regista. E quel ch'è peggio manca il tango. Se ne ha di tanto in tanto qualche pallidissimo accenno immediatamente sommerso da un frastuono e da una confusione che mescolano e accavallano, poniamo, «Scapricciatiello» e la Madonna dell'Arco, la tammurriata e la canzone napoletana classica, gli emigranti con la valigia di cartone e le solite incursioni in platea a trascinare nel ballo i più volonterosi (e generosi) degli spettatori. E «La Cumparsita» finisce, inopinatamente, per ritrovarsi in spiaggia, nel bel mezzo di «Un'estate al mare».
Direi che può bastare. Ci rimettono le penne, in tanto bailamme e in tanto chiasso, anche attori di lungo corso che stimiamo e che ben altre prove hanno dato di sé. E per riassumere che cosa è e che cosa poteva essere questo spettacolo, prendo in prestito, stimolato dal cognome della fantomatica famiglia immaginata da Sepe, la poesia di Luigi Incoronato «Dichiaramento sulla chitarra». Dice: «Nel paese nel fondo dell'Italia / quando le barbe fanno i barbier / troppe chitarre troppe chitarre / suonano ancora al tempo di ier. / Una chitarra è assai più bella / se le sue corde ad ogni nota / come una ruota come una ruota / anche la vita fan camminar». E guarda un po', l'indimenticabile Franco Nico mise in musica quei versi a tempo di tango.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 20 giugno 2010)
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