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Leopardi, Martone e l'elogio del rischio

Post n°579 pubblicato il 04 Maggio 2012 da arieleO
 

Il primo e non trascurabile merito di Mario Martone - in quanto regista dell'allestimento basato sulle «Operette morali» di Leopardi e adesso presentato all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - sta nell'averlo pensato e realizzato, questo spettacolo: perché proprio il teatro (ad onta che, nella circostanza, adotti un testo letterario) può costituire il mezzo più adatto per individuare e illuminare i temi decisivi messi in campo dal poeta di Recanati.
   Le «Operette morali» nascono, fondamentalmente, dal fatto che Leopardi - approssimandosi il 1824, l'anno in cui, fra gennaio e novembre, darà alla luce il grosso (venti su ventiquattro) di quei componimenti - esce a poco a poco dalla dimensione lirica, e quindi soggettiva e privata, per entrare in quella, oggettiva e pubblica, di un'esistenza storicamente determinata. E non è quest'ultima, per l'appunto, la dimensione propria del teatro?
   Al teatro, inoltre, le «Operette morali» sono vicine anche per il loro impianto strenuamente antinaturalistico. Senza contare che il teatro medesimo, conoscendo solo l'opzione del presente, invera perfettamente la concezione leopardiana della memoria come catalizzatore ricattatorio delle illusioni.
   Il secondo e ancor più notevole merito di Martone è, poi, quello di aver considerato Leopardi come l'ideale (in senso proprio e figurato) ancoraggio della riflessione che va conducendo sull'Italia di oggi a partire dall'incubazione sviluppatasi nell'Ottocento.
   Spessissimo i teatranti cianciano sulla presunta attualità di ciò che portano in scena. Ma stavolta l'attualità c'è per davvero. E al riguardo basterebbe por mente, nell'ambito delle «Operette morali», al «Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez»: in cui si dichiara con ferma lucidità che l'incertezza e il pericolo sono senz'altro da preferire alla noia. Perché, proprio in quanto tessuta d'incertezza e di pericolo, la navigazione - dice Colombo - «ci fa cara la vita».
   Ne ricaviamo, nel presente, un invito a riscoprire il «gusto» del rischio che diventa addirittura salvifico di fronte al dilagare, ormai inarrestabile, della superficialità, della menzogna, del compromesso e, insomma, del quieto vivere.
   Venendo, adesso, allo spettacolo in sé, occorre subito dire che quanto perde come tale (per il formato ridotto rispetto all'allestimento originario e l'esecuzione in uno spazio non teatrale, con qualche problema di acustica) lo riacquista moltiplicato come operazione concettuale. La drammaturgia di Ippolita di Majo c'introduce nella biblioteca mentale di Leopardi. Ed ecco, quindi, la strepitosa invenzione della regia: Leopardi entra a far parte di quei personaggi dell'antichità da vivo, com'è nel momento in cui scrive. Si pone, in breve, come un precursore dell'Isak Borg de «Il posto delle fragole» di Bergman. E così sconfigge, per l'appunto, la prevaricazione dei ricordi, in quanto - nel solco di Ibsen - evoca il passato solo col sottoporlo a un processo.
   A dar conto, poi, del complesso apparato di segni qui messo in campo basta l'esempio del «Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie»: in cui le polifonie dissonanti di Giorgio Battistelli e i corpi mummificati di Mimmo Paladino lasciano pensare, insieme, al Libro Tibetano dei Morti, a quell'«Apocalypse Now» che ad esso s'ispira e (in linea con l'ironia, l'altra dote somma di Leopardi) alla truculenza degli zombi. Ed eccellente, manco a dirlo, è l'apporto degl'interpreti: fra i quali andranno citati almeno Renato Carpentieri, Roberto De Francesco, Paolo Graziosi, Giovanni Ludeno e Barbara Valmorin. Finalmente, vivaddio, uno spettacolo per pensare.

                                         Enrico Fiore

(«Il Mattino», 4 maggio 2012)

 
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