Senz'alcun dubbio, risiede nell'intreccio dei linguaggi il connotato decisivo di quest'edizione del Napoli Teatro Festival Italia che comincia stasera al San Carlo. E a dimostrarlo è già lo spettacolo inaugurale, «Don Quichotte au Trocadéro» di José Montalvo: poiché si basa su una scrittura coreografica che accoglie, insieme, la danza classica, quella contemporanea, quella africana, l'hip hop, il flamenco, il circo e il teatro.
Del resto, l'oggetto dello spettacolo di Montalvo è il personaggio letterario che incarna la crisi centrale dell'età moderna, ovvero la frattura insanabile tra le parole e l'esistente: Don Chisciotte, per riprendere ancora una volta l'acutissima definizione di Foucault, è «scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose», dal momento che «la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo» e «le parole vagano all'avventura, prive di contenuto». Non può darsi, insomma, la legittimità assoluta del linguaggio, e men che meno la supremazia di un linguaggio qualsiasi sugli altri.
Aggiungo che, con ciò, sottolineo pure un secondo connotato rilevante del Festival di quest'anno: la coerenza interna del programma. Infatti, quanto ho detto a proposito di Don Chisciotte e della pretesa totalizzante del linguaggio riguarda anche un altro degli spettacoli di alto rango presenti nel cartellone, «Lo spopolatore» di Beckett messo in scena da Peter Brook: perché, qui, il tema è per l'appunto la frattura tra il corpo e la coscienza di sé.
Lo stesso Shakespeare preso in considerazione nella circostanza obbedisce all'intreccio dei linguaggi in questione. Basta pensare a «La bisbetica domata»: un testo che ha un impianto classicheggiante filtrato attraverso spunti rinascimentali e che, per giunta, non disdegna la ribalderia di doppi sensi osceni da vera e propria «Improvvisa». Come nel discorso rivolto a Bianca dal finto liutista Ortensio: «Signorina, avanti che voi tocchiate lo strumento, io debbo cominciare coi rudimenti dell'arte, per apprendervi il sistema del mio diteggiare».
Infine, e per venire a Napoli, che dire degli autentici fuochi d'artificio linguistici che s'accendono in «Sik-Sik, l'artefice magico» di Eduardo? Si tratta di giochi di parole che rimandano addirittura alle avanguardie storiche, prime fra tutte il futurismo e il dadaismo. E all'altro capo di quest'ideale diagramma troviamo la lingua meticcia, aspra e feroce di Raffaele Viviani, che in «Circo equestre Sgueglia» si coagula nel più alto grido che mai si sia levato da un palcoscenico in nome della dignità di Napoli.
Dice il clown Samuele alla compagna di sventure Zenobia: «Chi ce vede? Chi ce nota? Che rappresentammo? Tenimmo, sì, doie bell'aneme, ma 'e ttenimmo 'nzerrate 'mpietto, chi 'e ssape? E quanno jesciarranno, nuie nun ce starrammo cchiù... Nuie sultanto però ca st'aneme 'e ssapimmo e sentimmo che soffrono, ce avimm'a tene' cura, l'avimm'a purta' passianno p' 'e ffa' distrarre, p' 'e ffa' piglia' aria... 'A mia, 'a vedite? Se distrae accussì, faticanno, facenno 'e ggioche pe' copp' 'a sbarra... Sunate! Sunate!».
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 4 giugno 2013)
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