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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Messaggi del 01/11/2013

Il Natale di Eduardo in forma di assolo

Post n°738 pubblicato il 01 Novembre 2013 da arieleO
 

«Natale in casa Cupiello» - lo spettacolo del Piccolo Teatro in scena al Nuovo - è interessante non tanto per l'originalità dell'allestimento (un solo attore interpreta tutti i personaggi principali della celebre commedia) e per la bravura di quell'attore (Fausto Russo Alesi), quanto (e soprattutto) perché rimanda alla questione decisiva, e tuttora non adeguatamente approfondita, dell'influenza che su Eduardo esercitò Pirandello.
   Fa pensare a Pirandello già il fatto che Russo Alesi, con questa sua performance, si apparenta almeno simbolicamente al Vitangelo Moscarda di «Uno, nessuno e centomila». Ma, poi, c'è il particolare determinante che «Natale in casa Cupiello» finisce a rivelarsi - l'ho scritto più volte - come una sorta di equivalente napoletano dell'«Enrico IV». Basta, in proposito, considerare i personaggi protagonisti delle due opere.
   Entrambi sono impegnati nel disperato tentativo d'imprigionare la vita - ch'è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per giunta slegati l'uno dall'altro - in una forma unica, per sempre data e per sempre riconoscibile. Per l'Enrico IV di Pirandello quella forma è il ruolo dell'imperatore medievale, che lo mette al riparo dalle offese del tempo, e per il Luca Cupiello di Eduardo è il presepe, che gli suggerisce lo schema rigido in cui inquadrare, proprio come tanti pastori, i componenti della sua riottosa famiglia.
   Ma la vita, puntualmente, infligge delle «sorprese» (così le chiama Enrico IV) che mandano in frantumi la corazza protettiva prescelta da questi antieroi: saranno, rispettivamente, per lo stesso Enrico IV l'uccisione (vera) da parte sua di Tito Belcredi, l'amante della donna che aveva creduto votata a sé, e per Luca Cupiello la scoperta che la figlia Ninuccia tradisce il marito che lui le ha imposto.
   Ebbene, mi sembra che lo spettacolo di Fausto Russo Alesi illumini tutto questo come meglio non si sarebbe potuto. Vedi i segni che qui elenco in rapida sintesi: la scena di Marco Rossi (un appartamento disastrato in corso di restauro), il casco protettivo da operaio edile indossato reiteratamente dall'interprete e, soprattutto, le didascalie e i commenti con cui vengono introdotti o connotati i vari personaggi.
   In breve, quelle didascalie e quei commenti servono proprio ad offrire ai personaggi medesimi, ridotti dalla dissezione del testo originale a pure e semplici monadi, un'identità, se non altro narrativa, che costituisce per l'appunto la forma di cui sopra. Da non perdere.

                                                    Enrico Fiore

(«Il Mattino», 1 novembre 2013)

 
 
 

"Uomo e galantuomo" in un'orgia di gag

Post n°739 pubblicato il 01 Novembre 2013 da arieleO
 

L'ho già scritto, ma giova ripeterlo. Sarebbe ora di convincersi che la «Cantata dei giorni pari» non è soltanto l'arena dei nodi farseschi, dei toni lievi e dei ritmi distesi, ma anche (e in certi casi soprattutto) il laboratorio in cui Eduardo fece le prove dei testi maggiori che poi comprese nella «Cantata dei giorni dispari» e - cosa davvero non secondaria - mise a fuoco i propri referenti autorali.
   In «Uomo e galantuomo», per esempio, il marito cornuto conte Tolentano, per tutelare il suo onore, suggerisce ad Alberto De Stefano lo stesso stratagemma, il ricovero per qualche tempo in manicomio, che suggerisce il marito cornuto Ciampa a Beatrice ne «Il berretto a sonagli» che spessissimo lo stesso Eduardo recitò in ossequio al maestro Pirandello.
   In breve, al suo primo cimento sulla distanza lunga dei tre atti, il giovanissimo Eduardo - ricordiamo che scrisse «Uomo e galantuomo» ad appena ventidue anni d'età - si muove su due fronti: quello scarpettiano (giusto per l'impianto farsesco della struttura drammaturgica qui adottata) e appunto quello pirandelliano (per il richiamo alle ciniche soluzioni compromissorie su cui si fonda la ricomposizione dell'ordine borghese violato).
   Ma l'allestimento di «Uomo e galantuomo» in scena al Diana per la regia di Alessandro D'Alatri s'attesta esclusivamente sul primo dei due fronti citati. E lo fa con decisione assoluta: vediamo gag e ascoltiamo battute che per un venti per cento abbondante non sono di Eduardo e obbediscono al solo scopo di strappare risate facili. Basta considerare, al riguardo, il «ma le passarrà» con cui Attilio commenta il fatto che Viola «è un poco incinta». E inventato è pure il pistolotto che il capocomico Gennaro De Sia sciorina davanti al sipario chiuso. Inventato e per giunta pretestuoso: perché, mentre tira in ballo per l'ennesima volta la mistica stantìa del teatrante tutto bisogni e sogni, in realtà serve unicamente ad occupare il tempo durante il cambio di scena fra il secondo e il terzo atto.
   Il paradosso, poi, è che a produrre questo spettacolo avulso dai risvolti pirandelliani del testo originale è un'associazione culturale che si chiama «La Pirandelliana». E non resta, dunque, che annotare l'efficacia con cui - beninteso entro i limiti descritti - si muovono Gianfelice Imparato (Gennaro De Sia), Giovanni Esposito (Attilio) e Antonia Truppo (Viola). Di livello inferiore risulta, invece, il rimanente del cast. Riesce a distinguersi appena Alessandra Borgia con i cammei disegnati nei ruoli della scalcagnata attrice Florence e di Matilde Bozzi, la suocera sussiegosa del conte Tolentano.

                                                          Enrico Fiore

(«Il Mattino», 1 novembre 2013)

 
 
 
 
 

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