Creato da cineciclista il 20/06/2010

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Messaggi di Marzo 2014

Snowpiercer, film, Corea del Sud, Usa, Francia, 2013, 126 minuti

 

In sala con il filosofo

 Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Bong Joon-ho

Snowpiercer

 

Il cinema-treno e il tempo-esplosivo che sconvolsero il futuro

 di Riccardo Tavani

Prima che Gilles Deleuze scrivesse che il cinema è filosofia, il cinema, alla sua stessa origine, è un’immagine, una metafora del treno. Treno e cinema costituiscono un connubio perfetto. La pellicola non ha solo l’immagine ma anche il movimento del treno. I fotogrammi-finestrini corrono veloci sui binari dei fori laterali e noi passiamo da uno scompartimento, da un vagone, da un convoglio, da un’avventura dell’esistenza umana all’altra. Tutta la storia del cinema e dei suoi diversi generi è paragonabile a un immenso snodo di smistamento ferroviario, nel quale si incrociano e si dipartono una massa di vicende, sentimenti, idee e possibilità che l’umanità ha saputo sperimentare e immaginare.

Per questo non poteva sfuggirci di andare in “Sala con il filosofo”, ovvero con il professor Giuseppe Di Giacomo, per salire con lui sull’ultimo treno cinematografico. Treno partito dall’Oriente, direzione 2031, e senza più alcuna fermata in nessuna stazione, in un moto atomico permanente attorno a un pianeta Terra, completamente precipitato in una sua epoca di glaciazione totale. La pellicola-treno s’intitola, infatti, Snowpiercer, alla letter "buca neve", ossia treno rompighiacci. La glaciazione è stata causata dall’emissione di un gas nell’atmosfera che doveva, invece, arrestare il surriscaldamento della Terra ma, come spesso accade all’umanità, il rimedio si è dimostrato peggiore del male che doveva curare.

Lo stesso tema, osserva Di Giacomo, si trova nel libro La Strada di Cormarc McCarty e nel film omonimo che ne è stato tratto. In tale vicenda, però, noi non sappiamo né la causa, né l’epoca del disastro planetario, perché – sembra dirci l’autore – è tale il livello di insensata follia in atto che la catastrofe è ormai una possibilità, una potenzialità che incombe non sul futuro ma sul nostro presente. E mentre in McCarty gli uomini e – soprattutto – i bambini sono mangiati da altri uomini, in Snowpiercer si progetta ed esegue cinicamente la loro decimazione e, non a caso, come nei campi di sterminio, essi recano un numero inciso sul braccio.

L’umanità sopravvissuta alla glaciazione è tutta racchiusa in questo treno rompighiacci a propulsione atomica, ma la violenza, la riduzione a una condizione sub umana, la sottrazione dei bambini avviene nei vagoni di fondo. È qui che martella la fame, la sporcizia e serpeggia perenne la rivolta, della quale il film racconta l’ultima in atto, contro i vagoni di testa, per la presa del potere. Potere racchiuso nella roccaforte blindata, inespugnabile della locomotiva e di chi l’ha progettata e la governa. La violenza che in Gang of New York, dice Di Giacomo, sale dai bassifondi e si espande nelle strade, qui rimane chiusa, rimbombante tra le pareti di metallo buio dei gironi infernali di coda, perché non più la natura, ormai distrutta, è il suo sfondo e il suo contenitore ma la necessità imposta dalla sopravvivenza tecnica, strumentale del treno.

Come nei campi nazisti neanche qui vi sarebbe testimonianza visiva tramandabile di questa comunità di dolore, se non vi fosse sul treno un disegnatore che tratteggia rapidamente su dei sudici fogli i fatti più importanti che vi avvengono: le atroci punizioni inflitte, la violenta sottrazione dei bambini alle loro madri, i preparativi e lo svolgimento della rivolta. Sembra, come in certi grandi quadri epici, un citarsi del pittore del film, il regista Bong Joon-ho, e un esplicito riferimento alla funzione non solo estetica ma anche etica del cinema. Jean Luc Godard, in Histoire(s) du cinéma, afferma che la fiamma del grande cinema europeo e russo, quale immagine, testimonianza e pensiero critico sul mondo, si spegne proprio ad Auschwitz, perché ha abdicato al suo dovere di rappresentare, documentare o tramandare immagini dei campi e dell’orrore che è avvenuto al loro interno. Per questo, dopo la Shoah, tutte le immagini non possono che riferirsi a essa, ed è proprio questo che sembra volerci mostrare l’autore, raffigurandosi nel personaggio del disegnatore, testimone silenzioso che ritrae senza mai dire una parola. 

Il riferimento ad un altro treno cinematografico, che Di Giacomo richiama, è quello del film A 30 secondi dalla fine di Andrei Konchalovsky, del 1985, da un soggetto di Akira Kurosawa, il cui titolo originale è Runaway Train. Qui i detenuti sono due, ma rappresentano tutti gli altri rimasti nel carcere dell’Alaska dal quale sono evasi. Lo vediamo nella scena finale con la locomotiva che corre inarrestabile verso la morte, nel panorama gelato di una pianura con le sue linee cancellate da una nebbia sempre più fitta. Nella musica e nel coro che si leva come da sotto le volte di una chiesa gotica, scorrono i volti dietro le sbarre dei carcerati, i quali è come se assistessero in silenzio alla vicenda del loro compagno evaso.

Pure, aggiunge Di Giacomo, questa corsa non è insensata, ha un obbiettivo iniziale e lo raggiunge: quello della liberazione di Buck, il più giovane dei due, insieme a una donna che viaggia con loro, sebbene a costo del sacrificio di Manny. Questi si alza sul tetto della locomotiva  che corre a schiantarsi da qualche parte, allargando le braccia, come fosse la figura del Cristo crocefisso nell’aria atrocemente gelata. Un motivo di redenzione tipicamente dostoveskiano, perché l’evaso prende su di sé parte del dolore del mondo, quello causato da lui, dai suoi compagni di prigione, dallo spietato direttore del carcere Ranken, quale personificazione di un sistema basato sul rancore e sulla vendetta più disumana.  La scritta finale di Runaway Train reca i versi del Riccardo III di Shakespeare: “Nessuna bestia è tanto feroce da non conoscere un briciolo di pietà. Ma io non ne conosco nessuno, perciò non sono una bestia”. 

Versi che si attagliano perfettamente a Wilford, il magnate ferroviario che ha progettato, costruito il treno atomico Snowpiercer e realizzato l’implacabile sistema sociale che vige al suo interno. La logica di Wilford neanche prevede nel suo vocabolario la parola pietà. La sua è solo glaciale logica d’ordine e potere, attinente al controllo razionale, strumentale della vita biologica, degli inesorabili sacrifici necessari a mantenere il suo perfetto equilibrio all’interno di quelle strette pareti di metallo. L’inarrestabile corsa ad alta velocità del convoglio lungo tutta la superficie del pianeta non ha altro significato, ovvero non ha più alcun senso: il legame con il mondo-natura è ormai completamente reciso, resta la mera sopravvivenza biologica, animale.

Nei vagoni di testa si reiterano i riti sociali del lusso e dell’abbondanza che hanno preceduto la catastrofe. La gabbia metallica del treno sembra proteggerli ed eternarli nel vuoto di ogni attesa, di ogni at-tendere, ovvero tendere verso qualcosa, una destinazione, una stazione di passaggio o di arrivo.

A bordo, dalla testa al fondo, circola una droga sotto forma di cubetti verdastri cristallizzati. È il residuo di una lavorazione industriale e ha delle proprietà anche esplosive, se agglomerata in una certa quantità e incendiata. Si chiama Cronol. L’allusione al tempo è evidente: su quel treno, soprattutto nei vagoni di testa, ci si deve stordire, per continuare a ruotare sui binari nel tempo vuoto di ogni senso. 

A coadiuvare la rivolta sono l’asiatico Minsu, che ha progettato i sistemi di sicurezza del treno, e che sa perciò aprire elettronicamente tutte le varie porte blindate che separano un vagone dall’altro, e sua figlia Yona, che ha la facoltà di percepire, invece, quello che sta avvenendo dietro quelle porte. Sono due drogati che cercano di accumulare più cubetti di Cronol possibile nel risalire il treno verso la locomotiva.

Il procedere di Curtis, il capo della rivolta, di decimazione in decimazione, subita ad ogni nuovo vagone conquistato, somiglia alla fatidica presa bolscevica del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo, sotto la morsa del ghiaccio, nella rivoluzione russa, alla fine dell’ottobre 1917.

Dieci vagoni che sconvolsero il mondo-treno, si potrebbe dire, fino alla porta super corazzata dello Zar ferroviario Wilford. Qui il film piazza il suo colpo di cannone finale, non simile, però, a quello sparato a salve dall’incrociatore Aurora verso il Palazzo imperiale. Tutta la scorta di Cronol avidamente accumulata è ora agglomerata da Minsu e Yona per mettere lo stesso Curtis di fronte a un’alternativa secca: o il tempo-droga o il tempo-esplosivo. O la decisione per la rinascita a uno scenario nuovo, completamente sgombro, o l’incubo di un eterno ritorno dell’orrido uguale. Insomma: o il Potere o la Natura.

Nel tirare le fila della nostra lunga conversazione, il professor Di Giacomo, coglie un tratto comune sia nei vecchi film da lui prima citati che in questo appena visto. Proprio quando la narrazione ci conduce al fondo più buio della disperazione umana, riluce un debole alone di speranza, di nuova possibilità. Dell’elemento redentivo nel finale del film di Konchalovsky abbiamo già detto, mentre in Gangs of New York, la speranza, pur nella spaventosa carneficina appena compiuta, è rappresentata dalla sepoltura dei due nemici, uno accanto all’altro, insieme al pugnale di Vallon, e l’apparire, nella dissolvenza del tempo storico che passa, del ponte di Brooklyn che unirà le due sponde opposte dell’Est River dopo quelle vicende.

Soprattutto, però, nota Di Giacomo, è ne La strada e in Snowpiercer che questo fragile barbaglio di speranza assume il volto della Natura. Nella prima opera, esso si manifesta attraverso il riferimento che McCarty fa ai pesci salmerini e al mistero  dell’intero mondo in divenire,  le cui mappe sono incise sul loro dorso ambrato. Nella seconda, si mostra con l’apparire tra la neve di una macchia di sole e di un grande orso bianco di fronte a Yona e al bambino sottratto a Wilford. È un alone debole, ma che permane, seppure scarsamente percettibile, sul fondo di quella soglia sia fisica che sotterranea della coscienza che unisce ancora l’uomo alle magmatiche mappe originarie della Natura.  

Il cinema-treno ci ha trasportati sui binari di uno spazio-tempo congelato, di un futuro assiderato ma, bruscamente, ci riporta poi all’arsura canicolare di un significato, di una possibilità negativa insita nel presente. Primo Levi ha scritto che, una volta sperimentata, la riduzione dell’uomo al sub umano continuerà ad essere tentata, attraverso nuove vie. Ma – ricorda Di Giacomo – riduzione dell’umano e sottomissione completa della natura alla ragione strumentale e di potere, si implicano a vicenda, proprio come scrive Theodor W. Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo. Il pittore del film Bong Joon-ho ne ha reso qui una testimonianza visiva a futura memoria, come solo l’arte sa e deve fare – e in primo luogo quella del cinema che ha l’immagine come sua intrinseca e potente forma d’espressione.

 
 
 

La grande bellezza, film, Italia Francia 2013, durata 150 min.

 photo 965dc0fa-059c-4323-883f-9800c01f1af4_zpsc2c6700a.jpg A seguito della meritata vittoria dell'Oscar come miglior film straniero de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, posto la conversazione da me avuta, quando il film è uscito nelle sale italiane, con Giuseppe Di Giacomo, il quale - a differenza di numerosi critici cinematografici di allora - ha capito subito l'importanza del film e ne ha messo criticamente in rilievo gli aspetti più rilevanti.

 

Giuseppe Di Giacomo:

le ragioni cine-filosofiche di un Oscar

 

di Riccardo Tavani

 Vediamo il film al Cinema Barberini di Roma e andiamo poi a mangiare un piatto di spaghetti a pochi passi da Via Veneto. Gli domando se il raffronto, tanto insistito dalla stampa, tra la Dolce Vita di Fellini e la Grande bellezza di Sorrentino abbia una sua ragione. Il professore Giuseppe Di Giacomo, ordinario della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma, versandomi del rosso, risponde che indubbiamente l’influenza gravitazionale del pianeta Fellini non ha potuto fare a meno di attraversare l’atmosfera di questo distante corpo astrale. Non c’è solo un certo sapore degli scorci e delle riprese, le feste, le suore, i prelati, quanto la mancanza di un vero centro o soggetto narrativo.

 La frammentarietà di situazioni diverse, montate insieme, che diventa allegoria, refrattaria a qualsiasi tentativo di unificazione simbolica, secondo quanto indicato da Walter Benjamin nella sua opera filosofica sul dramma barocco del 1928. Il raffronto, in realtà, andrebbe, per Di Giacomo, completamente rovesciato. Il cielo astrale sopra Via Veneto nel 1960 era completamente diverso da quello di oggi. Tutto ciò che nella Dolce Vita e nella realtà della città è all’aperto, pubblico, esplodente sulle strade, nelle periferie mistiche quanto nei caffé del centro, nei locali affollati, nelle auto e nelle situazioni decappottate pronte a scoprirsi per l’assalto delle paparazzate e dei giornali, nella Grande bellezza è invece privato, chiuso, implodente verso un’intimità che non ha neanche più un nome se non quello di vuoto. Persino il fracasso triviale, la cafonalità delle feste avviene in locations prese in affitto, su terrazze e in ville, separate, delimitate innanzitutto da un’aura d’ombra stagnante, prima che da mura e recinti. La Via Veneto di Fellini è pulsante, ricorda Di Giacomo; quella di Sorrentino deserta, spettrale: qualche sparuto puttaniere giapponese, una solitaria, anoressica ragazza con al guinzaglio un’enorme arma da difesa in forma di molosso napoletano e squallidi nigth club con ventenni polacche che non sono certo lì per il vecchio, glorioso spogliarello.

 Soprattutto nell’opera felliniana la bellezza di Roma non ha bisogno di essere messa a tema. Essa è parte integrante dell’apertura della città verso il futuro. La sceneggiatura di Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (con la collaborazione anche se non accreditata di Pasolini) respira pienamente di questa apertura, si sedimenta sul nitrato d’argento della pellicola, impastandosi invisibilmente al vagare dei movimenti di macchina e delle immagini tessute da Fellini.

 Nel film di Sorrentino non si dà futuro, ma neanche più passato. I marmi porosi e le antiche mura screpolate della città vengono avanti galleggiando nelle inquadrature, come sulla superficie di un tempo lacustre immobile. Lo stesso protagonista, Jep Gambardella, non ha un passato, a parte qualche affiorante sprazzo di memoria per Elisa De Santis, la bellezza della quale s’innamora un’estate sugli scogli assolati di un’isola, ma che non si lascia poi baciare al chiaro di luna da lui. In questo, Jep è uno di quei tipici personaggi di Kafka che non hanno nessuna vera identità al di fuori del presente che stanno vivendo, senza alcun vero senso e scopo. Egli si commuove intensamente di fronte all’opera di un artista che ha allineato una sterminata sequenza di fotografie che lo ritraggono per ogni giorno della sua vita, sedimentando una percettibile scia della memoria.

 Il riferimenti letterari nel film sono costanti e percorrono tutta la pellicola: dall’esergo iniziale su un brano di Celine, passando per Flaubert, Dostoevskij e Proust. Non sono solo mere citazione, nota Di Giacomo, ma vere e proprie – direbbe un pittore – campiture di significato. In ciò il professore scorge un conflitto tra regia e sceneggiatura. C’è un’eccedenza nella scrittura dei dialoghi e della voce fuori campo che i movimenti macchina e le immagini non riescono a rendere a un pari livello di senso. La stessa cosa, mi dice il professore, e in modo anche più accentuato, è successo per il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. L’intervento poetico di Peter Handke sul copione, espressamente richiesto dal regista, crea poi una diacronia, una sfasatura tra testo e immagine che si incapsula quasi fin dentro ogni singolo fotogramma, venendo a configurarsi come un limite dell’opera. In una delle scene iniziali, ad esempio, Di Giacomo vede un esplicito richiamo a una famosa pagina  della Recherche proustiana, relativa proprio al tema della bellezza. È quella che descrive la morte dello scrittore malato Bergotte davanti al quadro La veduta di Delft di Veermer. La bellezza che una piccola ala gialla su un muro conferiva all’opera eccedeva la fragile possibilità umana di contenerla. Nel film, un turista giapponese, contemplando e fotografando Roma dal Gianicolo, collassa improvvisamente sul selciato e muore. La sequenza, però, è realizzata in maniera piana, con la macchina frontale al soggetto e uno stacco di montaggio, senza alcun movimento che conferisca alla scena una densità pari a quella  del momento esistenziale in atto.

 Consumati con gusto gli spaghetti, passiamo a sorseggiare riflessivamente del whisky. Il vuoto di ispirazione letteraria di Gambardella, ritorna Di Giacomo, si lega non tanto a quello del vuoto lasciato dalla scomparsa della bellezza, quanto a quello di una sua contemplazione in uno stadio ancora meramente estetico, secondo la nota tripartizione di Kierkegaard, che si articola anche in quello etico e religioso. Jep cita e vuole fare propria l’aspirazione di Flaubert a “scrivere un libro su nulla”, nel quale la bêtise, la stupidaggine, la balordaggine degli eventi umani, della storia, della noia e coazione a ripetere, ammutoliscano, indietreggino e lascino di nuovo campo alla vera bellezza, la quale dovrebbe interamente riconquistare a sé il mondo e la letteratura.

 Il mondo, però, con il suo dolore e la sua miseria lacera continuamente il velo della bellezza per offuscarne la trama. L’entrata in scena del personaggio di Suor Maria, la cosiddetta Santa, rappresenta l’irruzione di una visione della bellezza che ci propone incessantemente l’opera di Dostoevskij. La pia donna mangia solo radici e vive ventidue ore al giorno con i poveri. Lei si sottrae alla richiesta di un’intervista fatta da Jep sulla sua opera di carità, perché: “La miseria non si racconta – si vive”. La sofferenza non può diventare un fatto estetico, ma si può soltanto condividerla. Sì, la bellezza salverà il mondo, ma essa non è quella di Nastas’ja Filippovna, oggetto di contemplazione,  desiderio e contesa, ma quella di chi si prende personalmente carico del dolore dell’uomo, per alleviarlo, ascendendo uno ad uno, in ginocchio, i gradini della sua passione, del suo pathos, ovvero del suo parteciparlo. Sono qui le vere radici che trattengono l’uomo alla terra e impediscono il suo vagare ad ogni soffio.

 La decisione di Romano di abbandonare definitivamente la città e di tornarsene deluso in provincia è un altro rovesciamento del vitellonismo felliniano, ma soprattutto, per Di Giacomo, è esattamente la situazione descritta da Flaubert ne L’educazione sentimentale. Gli accadimenti storico-esistenziali sconfiggono i due protagonisti del romanzo e li costringono a tornarsene dove sono nati.

 Gambardella, però, nonostante lo vediamo nelle scene finali costeggiare su una nave le sponde natie, non se ne va e decide di iniziare finalmente il suo nuovo libro, proprio come Marcel alla fine de La Ricerca del tempo perduto. Il suo romanzo non sarà più su quell’apparato di spettacolo umano che egli stesso ha finora messo in scena e dominato, fallendo l’appuntamento della sua esistenza con il senso e la letteratura. Jep, a differenza di Proust, sa che in questo mondo non c’è più niente da ricercare, più niente da raccontare, eppure, ugualmente, si deve continuare a scrivere. L’umano – dice amara la sua voce fuori campo – si dà solo tra un frammento e l’altro della bellezza che scompare nell’attimo stesso in cui appare. Il resto è finzione, trucco, trenini sulle terrazze della Roma-cafona-bene che ballando e bla-bla-blando non portano mai da nessuna parte. La materia grafica della sue parole sulla pagina scritta sarà il nulla, il suo sguardo silenzio sullo schermo sgualcito della vita, sul velo d’ombra – soffice di morte – delle antiche mura, sulla pellicola corrosa che avvolge la dissacrata grande bellezza della città.

 Ha smesso di piovere e i platani di Via Veneto sono scossi da folate di vento fresco che hanno già asciugato l’asfalto della strada. Un uomo si ferma un istante accanto a noi per accendersi una sigaretta. Indossa una giacca di lino rosso con un fazzoletto candido nel taschino, pantaloni bianchi e scarpe Duilio bicolore. Sentiamo lo scatto del suo accendino d’oro che subito si chiude sull’occhiello di brace e il filo di fumo che vorticando sale verso il residuo di nubi in cielo. Garbatamente ci fa un cenno di saluto e prosegue. Viene voglia di fumare anche a noi, ma ci salutiamo, dandoci soltanto appuntamento alla prossima – pellicola del filosofo.

 
 
 

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