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Aissatou, Awa, Fanta e Dié. Storie di bonne. Storie di un moderno sfruttamento

Post n°342 pubblicato il 15 Agosto 2015 da djchi
 

 

La schiavitù umana ha toccato il punto culminante alla nostra epoca sotto forma di lavoro liberamente salariato.

George Bernard Shaw, Uomo e superuomo, 1903

 

Agli uomini non interessa né la verità, né la libertà, né la giustizia. Sono cose scomode e gli uomini si trovano comodi nella bugia e nella schiavitù e nell'ingiustizia. Ci si rotolano come maiali.

Oriana Fallaci, Un uomo, 1979

 

 

 

Aissatou è appena adolescente eppure ha già quel piglio di donna che stona con il suo petto piatto. Dopo anni di Senegal osservo ancora con curiosità la capacità delle donne senegalesi di pulire senza piegare le ginocchia, le gambe tese e la schiena dritta a formare un perfetto angolo retto. Anche Aissatou pulisce il salone, i piedi nudi e le mani a muovere armoniosamente lo straccio umido. Anni fa un antropologo senegalese mi spiegò che questa posizione era dovuta all’uso del pagne, il tipico pareo che le donne si legano in vita e che, stretto sui fianchi e lungo fino alle caviglie, impediva di piegare le ginocchia. Teoria che potrebbe effettivamente essere vera.

Aissatou è sveglia dalle 6 di mattina, lavora per una famiglia senegalese da qualche mese ed è lei che si occupa della casa: pulisce, prepara da mangiare, va al mercato, si occupa dei bambini. Eppure lei stessa è ancora una bambina.

Come tante altre coetanee ha deciso di raggiungere Dakar, dal villaggio natale, per cercare lavoro e poter aiutare la numerosa famiglia. Aissatou fa parte di quelle che in Senegal vengono chiamate “bonne” ovvero, domestiche.

Aissatou guadagna poco più di 40 euro al mese. 40 euro.

Una delle cose che mi colpì di questo paese non appena arrivata era stato vedere che anche nella famiglia più povera, nella casa più diroccata, tutte le famiglie avevano almeno una bonne. In molte anche due, una addetta alle pulizie e una alla cucina.

E sono tantissime le donne e le ragazze che cercano quotidianamente lavoro come bonne. Alcune bussano di casa in casa, altre aspettano sedute lungo la strada, fosse solo anche per lavorare giornalmente come lavandaie. Arrivano da tutte le regioni, spesso dai villaggi ma anche dai quartieri poveri della capitale senegalese.

Lavoro o sfruttamento?

Le condizioni delle bonne senegalesi sono spesso difficili. Molte famiglie sono esigenti, chiedono una presenza continua senza orari definiti e, a volte, senza neppure concedere giorni liberi. Il lavoro non manca: i vestiti si lavano ancora a mano in grosse bacinelle di plastica, si prepara da mangiare per numerose persone e si devono pulire case spesso grandi e polverose.

Non sempre poi si ha la fortuna di trovare datori di lavoro comprensivi e amichevoli. Spesso le bonne subiscono abusi fisici e morali, soffocati dal silenzio generale.

“La signora che mi aveva assunto mi insultava ripetutamente. Non le andava bene mai niente di quello che facevo. Bastava una macchia di candeggina su un telo che diventavo peggio di un animale” racconta Awa, trent’anni, bonne.

“Il lavoro che facciamo è difficile, lavoriamo praticamente tutto il giorno e lo stipendio è sempre basso. Io prendo 50 euro e mi va anche bene, altre prendono la metà di quello che prendo io. Al villaggio riesco a mandare venti euro ogni mese” aggiunge.

Molte bonne subiscono abusi sessuali da membri della famiglia e molti sono i casi di gravidanze concepite all’interno delle mura domestiche.

“Il capo famiglia era un signore di mezza età. Con me era gentile, mi comprava spesso della frutta e qualche ricarica del telefono. Non avrei mai pensato che avrebbe potuto fare ciò che ha fatto. Un giorno, in assenza della moglie, entrò in cucina e mi propose dei soldi per un rapporto sessuale. Rifiutai. Allora si spazientì e cominciò ad urlare che mi avrebbe licenziato, che avrebbe chiamato mio padre per dirgli che ero una poco di buono. Mi disse di non dire niente a nessuno e mi violentò nonostante il mio pianto”. A parlare è Fanta, diciotto anni appena.

Fanta rimase incinta del suo datore ed aguzzino e fu costretta ad abbandonare il bimbo all’orfanotrofio di Medina (quartiere popolare di Dakar) per nascondere quelle che sarebbe stata la vergogna più grande per tutta la sua famiglia.

Aissatou, nonostante abbia pulito tutto il salone e sia stanca, rimane elegante e femminile. Ogni tanto si sistema il foulard che ha stretto attorno al capo e stringe il pagne blu e arancione che le segna una linea perfetta. Sorride e mi chiede del mio lavoro in tv.

Sono molte le bonne che seguono le mie trasmissioni perché spesso la televisione è l’unico diversivo, l’unica compagnia della giornata.

“Da qualche anno lavoro per degli europei. Loro pagano di più e sono più gentili” dice Maimouna, quarant’anni, madre di tre figli e domestica a tempo pieno. Come lei, molte sono le domestiche che preferiscono essere assunte da stranieri. La critica comune alle famiglie senegalesi è la durezza nel trattamento e stipendi troppo miseri.

Quel pomeriggio, entrando nella stanza che ho adibito a vestiario vedo le scarpe di Dié, la mia bonne. Viene dal quartiere vicino ed è una ragazza timida e minuta. Non sono abituata ad avere persone al mio servizio per cui ogni volta che le chiedo di fare qualcosa le dico subito: “Merci” (grazie). Non nego che qui le bonne assomigliano a moderne schiave asservite per pochi soldi e la sensazione di sfruttare l’ho avuta spesso anche io, nonostante Dié riceva un buon stipendio.

A fianco alle sue scarpe la borsa e il cellulare. Noto poi dei quaderni e delle fotocopie. Leggo velocemente e vedo che trattano di medicina.

“Ti sei iscritta a scuola?” le chiedo appena la vedo passare.

“Sì, mi sono iscritta ad una scuola serale per infermiere” mi dice abbassando il capo e riprendendo a pulire.

Sorrido e penso che la volontà e l’ambizione restano comunque le armi più grandi per ottenere la libertà.

 

 

 

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (Articolo 4), 1948

 

 

 

 


 
 
 
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