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Messaggi di Marzo 2014

Pazienza, sale e pain de singe

Post n°332 pubblicato il 21 Marzo 2014 da djchi

 

 

La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza d'eroico
(Giacomo Leopardi, Zibaldone)

 

                                                                                                      Gutta cavat lapidem

(Lucrezio, De rerum natura)

 

Educazione alla pazienza. Questo è uno dei grandi insegnamenti di questi ultimi anni. Pazienza e perseveranza. Una e vera propria sfida per un carattere istintivo e irrazionale come il mio. Ricordo ancora l’ammonimento di un anno fa, di Djibril (Gabriele.... un caso?), “discernimento Chiara. E’ questo che ti manca per poter finalmente maturare”. Djibril aveva pienamente ragione e, da quella sera fredda e grigia in un metrò di New York, ci ho spesso riflettuto. Uno psicologo direbbe che la mia relazione con il mondo andrebbe analizzata partendo dalla tipologia di legami che ho avuto nell’infanzia. In poche parole, il tipo di relazione intrattenuto con mamma e papà. Io, mamma e papà li ho capiti solo molto dopo, con gli anni e l’esperienza e, all’analisi introspettiva freudiana preferisco il consiglio di Madea (alias Tyler Perry nel suo film: “Madea goes to jail”) ovvero, non importa quanto duro è stato il nostro passato, arriva il momento in cui dobbiamo smetterla di vittimizzarci  e di riversare la colpa su terzi e prenderci le nostre responsabilità su come va la nostra vita, oggi.

 

                               


Il Senegal è stato essenziale nel mio percorso di comprensione di me. E ho visto parecchia merda dentro di me, scusate la volgarità. Egocentrismo, egoismo, giudizio spesso frettoloso, frustrazione, incapacità all’ascolto, pretesa costante ma incapacità alla reciprocità. Al Senegal puoi urlare in faccia ciò che ti pare, rimarrà in piedi a guardarti senza muovere un passo, senza essere minimamente scalfito nel proprio orgoglio, nella propria dignità. Un muro di gomma che ti rimbalza le accuse in maniera fredda, dura, perché, in fondo, quelle accuse sono verso noi stessi. Avrei potuto fuggire, come fanno tanti, ritornare dicendo che è colpa di qui, della gente, della società ma non l’ho fatto perché se me ne fossi andata non sarebbe stata colpa di qui, della gente, della società ma di me stessa e della mia incapacità a crescere, o, come diceva Madea, a prendermi le mie responsabilità.

Pazienza. Discernimento. Attesa. Ascolto. Ho imparato tanto, in Senegal ed è stato un pò come prendermi a schiaffi da sola, fino a svegliarmi. Siamo solo noi i padroni della nostra vita, coloro che decideranno per il presente e per il futuro.

Dal famoso incontro con Elena la russa e Maurice il francese ho deciso di fermarmi. La mia corsa era inutile, il mio aggredire, vano. Per un sagittario come me è stata una rivoluzione interiore di non poco conto e da alcuni senegalesi (figure chiave nei miei numerosi incontri) ho imparato ad essere pragmatica e strategica.

Pazienza e perseveranza.

Non rinnego il passato, le mie affermazioni, i miei scritti, fanno parte di me, del mio vissuto, del mio percorso. Essi sono la testimonianza di una crescita, di una maturazione, di una voglia di miglioramento e possono essere l'esempio che, con la volontà e l’apertura, tutto può accadere.

Ho smesso probabilmente di credermi speciale o migliore o differente. Sono semplicemente me stessa e ho imparato a dare più valore alle persone e alla loro, unica, irripetibile esperienza di vita.

Non sarò mai realmente felice finché la mia anima non sarà più pura, c’è voluto del tempo a capirlo ma uno spiraglio di luce, di bene, oggi lo intravedo.

“Perché me e non le altre? Cosa ho di differente?” gli ho chiesto, paranoica e diffidente. Disteso sul divano ha aperto gli occhi e mi ha risposto: “Perché me e non gli altri?”. Nessun movimento altro, nessuna esitazione.

Spiazzata e intimidita come una bambina ho balbettato un “perché ti ho trovato interessante”.

E lui: “Perché ti ho trovata interessante”.

Nulla è mai per caso e anche se di caso si trattasse, l’importante è farne motivo di apprendimento.

 

                                  

 

 
 
 

Elena la russa, Maurice il francese ed il toto Samba. Relazioni e rapporti senegalesi.

Post n°331 pubblicato il 04 Marzo 2014 da djchi
 

 

 

 

 

Impara ad evacuare le energie negative e a diffondere il positivo, Chiara. E' quello che davvero conta per un vero cambiamento (Elena)

 

 

Elena è apparsa come solo Dita Vin Teese potrebbe fare al Moulin Rouge. Elegante, imponente, eccentrica. Occhiali bianchi e un fantastico caschetto biondo, che, al riflesso del sole, sembrava dorato. Si è seduta al tavolo dopo un'accoglienza pomposa degna di regine d'altri tempi. Mi ha affascinato subito e pure un poco intimorito. Dopo le prime presentazioni raccontò impudente e rivoluzionaria: "Nel 1960 ho sposato in Francia un ragazzo cubano, nero. All'epoca non era così evidente ma non me ne fregava nulla di quello che la gente pensava. Incontrai mio marito ad una mostra, era uno scultore. Mi innamorai delle sue opere dalla sera stessa. Dal giorno seguente ero a casa sua. Sapevo che ero sua. Da questa bellissima e controversa unione nacquero quattro figli, a loro volta, artisti. Io ci credo all'istinto. Ci credo davvero, non serve ragionare troppo quando si sa ascoltare davvero il cuore e non si ricerchino nelle persone solo l'appagamento ai nostri bisogni o interessi, materiali, affettivi, sessuali".

Sono passate solo poche settimane dal ciclone mediatico scatenato dalla mia lapidaria analisi dei cambiamenti in negativo della società senegalese. Ci voleva un viaggio dall’Italia per capire che la differenza fa la differenza, sempre e comunque. Nonostante io mi senta senegalese, per adozione ed appartenenza, per molti rimango ancora Chiara, un’italiana che ha scelto di vivere in Senegal. Ci sono cose che non vanno dette o, forse, i metodi di comunicazione vanno cambiati. Scoraggiamento e solitudine. Può accadere anche in un luogo affollato ed energico come il Senegal.

Eppure una ragione ci deve essere, se sono ancora qui. Elena mi fissava, da dietro gli specchi scuri dei suoi occhiali. Intravedevo il disegno dei suoi occhi che mi scrutavano, indagando la mia anima. Mi sono sentita attratta e soggiogata da una personalità dirompente. Mauro osservava, come d’abitudine, spettatore analitico e intelligente, sorridendo della mia irruenta giovinezza.

Parlo e mi racconto. Descrivo il mio Senegal a tratti spinosa, a tratti confusa. Amore e odio, odio e amore.

Elena mi interrompe e, guardando Mauro esclama: “Questa qui è interessante!”.  Sono turbata dall’appellativo ma piacevolmente sorpresa da un verdetto positivo. Poi continua: “Capisco tutto. Conosco quello che vivi, sono anni che vengo in Senegal, che vivo il Senegal ma Chiara, perché doversi lasciare soffocare dal male, dal negativo? Perché sottolinearlo? E’ inutile. Quanta umanità io ho visto qui, quanta forza; la tenacia delle donne che con grande coraggio gestiscono una famiglia e la dignità degli uomini senegalesi che noi oggi non sappiamo neppure più cosa voglia dire. Questo è quello di cui ti devi ricordare, questo è quello che ti fa restare, questo è quello che ti fa amare questo paese”.

Sono rimasta zitta. Non c’era e non c’è nulla da aggiungere. Grazie a queste poche parole mi sono resa conto di essere nell’errore. E pure un grande errore. Perché sottolineare il male quando c’è tanto di positivo che ancora deve essere scoperto?

Da quel giorno, una nuova Chiara è rinata. Grazie al confronto e al coraggio dell’onestà di Elena. Spiazzante come solo una tempesta di sabbia in un giorno inatteso può essere.


 

L'umiltà è la virtù più difficile da conquistare; niente di più duro a morire del desiderio di pensar bene di sé stessi (Thomas Stearns Eliot, Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, 1928)

 

 “Sei libera stasera?” mi chiede Atou al telefono. Atou è un ragazzo senegalese. L’ho conosciuto qualche mese fa ad una conferenza sull’omosessualità tenutasi a Dakar. Quel giorno non avevo programmato di uscire, ero in piena fase depressione post "fine relazione". Insomma, uno di quei giorni in cui ti senti brutta e grassa e giri in pigiama con il pacchetto di biscotti in mano. Mi chiamò Karim, un amico libanese che, con un’insistenza da prelato mi convinse ad accompagnarlo a quella che doveva essere la conferenza più rivolozionaria della storia del Senegal.

Mi vestii come una liceale. Nessuna voglia di trucco e parrucco. E come accade nei miei periodi di stress mi comprai un pacchetto di Malboro. Arrivammo giusti per la presentazione. Ai muri ritagli di giornale che raccontavano di come la tematica tanto controversa dell’omosessualità era stata trattata dai quotidiani africani dal 2000 ai giorni nostri. Un excursus tragicomico e scioccante. C’erano molte persone ma nessun giornalista. Io driblavo le persone, asociale e vestita di nero come se fossi a lutto e mi dedicavo alla lettura. “Le lesbiche sono più forti nello sport” titolava un giornale a caratteri cubitali: la prova? Basta vedere nel calcio e nel basket femminile. Mi trattenei dal ridere. Per fortuna che questi giornali non arrivano in Italia, mia mamma avrebbe subito annuito, lei che aveva detestato la mia passione per il calcio e i capelli corti.

Uscita per fumare una sigaretta e sorriso ai soliti: “Ma sei tu che fai una trasmissione.......?!?” arrivò lui che, intelligente e pure affascinante, mi fece ritornare alla vita reale il tempo di una chiaccherata.

Quello che rende Atou speciale è l’iperattività contagiosa e l’imprevedibilità dei programmi.

“Allora, sei libera stasera? Ti porto a cena fuori”. Come rifiutare, Atou conosce tutti i locali più belli ed è pure una piacevole compagnia. Seduta in macchina mi informa che mi presenterà una coppia di amici francesci e mi precisa: “Sono un pò agés ma sono simpatici”.

Maurice e la moglie sono una vecchia conoscenza di Atou, impreditori come lui. Arriviamo un un locale in piena Piazza dell’Indipendenza, in centro a Dakar. Atou mi apre la porta e mi fa passare. Il locale ha luci soffuse e la musica degli Isley Brothers in sottofondo. Ad un piccolo tavolo con la tovaglia rossa, ci sono loro.

Maurice e la moglie hanno l’aria simpatica, sorridono da subito. Vivono in Senegal da trent’anni ma da molti di più sono in Africa. Vengono da Marsiglia e il loro accento è davvero buffo. Essendo un’amica di un loro amico sono automaticamente loro amica. Si mangia e si ride e ci si racconta della nostra Africa. L’unico che ascolta ma non parla è l’unico senegalese al tavolo, Atou.

“Il papà di una mia amica italiana veniva in Senegal negli anni ’80 e ci disse che all’epoca era tutto molto diverso, molto più pulito e ordinato” esordisco io ad un certo punto.

Maurice si blocca un istante e posa la forchetta. Sta in silenzio qualche secondo poi si gira verso Atou come a cercare conferma e dice: “Non sopporto questi stranieri che vengono qui a dire ciò che va e ciò che non va. Certo che il Senegal è cambiato e come non potrebbe esserlo? Forse la Francia non è cambiata in peggio? Che presunzione venire qui e trovare dei difetti quando anche lì ce ne sono e pure tanti. Io vivo in Senegal da trent’anni e ci sto bene. Qui accadono dei miracoli (umanamente parlando) che in Francia ce li sognamo”.

Dopo Elena, lo schiaffo morale di Maurice. Entrambi agés, entrambi senegalesi d’adozione, entrambi con una visione più matura e meno istintiva di un paese contradittorio come il Senegal.

Me ne sono stata zitta ma sapevo che Maurice non parlava del padre della mia amica ma parlava a me.

Il tempo di un istante e il discorso cambiò nuovamente tra i sorrisi dei due sposi, io che osservavo l’eleganza di Atou e i racconti di una Mauritania lontana in cui Maurice e la moglie vissero per cinque anni: “Non c’era nulla da fare” mi disse lei “all’epoca eravamo giovani e per vincere la noia, la sera, ci facevamo arrestare dalla polizia”. Rise di gusto ricordando probabilmente uno dei momenti migliori della sua vita di coppia.

Presi il mio bicchiere e brindai alla mia nuova visione africana. Cin a me.

 

                                  

 

 

Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che si cambi in esempio (Albert Camus, Taccuini)

 

Ieri è cominciato il Grande Fratello e tutti i senegalofili sono in agitazione per la partecipazione di Samba, modou modou senegalese da otto anni in Italia. Il mio lato nazionalista senegalese non è restato indenne. Ero felice anche io. Forza Samba, ho subito pensato, vergognandomi un pochino per il mio interessamento al programma trash per eccellenza. Samba in fondo è il punto d’incontro tra Senegal e Italia, un legame stretto e profondo che esiste da anni ma che in pochi vogliono vedere. Se serve un reality perché finalmente gli si renda giustizia, ben venga. “Con Samba si abbatteranno i pregiudizi” tuona il web ma io resto titubante. L’italiano medio conosce l’Africa come io la fisica quantistica. Samba ha un ruolo determinante in questo pout pourrie di stereotipi all’italiana. Chissà se ne è realmente cosciente. La mia paura è che si passi dall’atteggiamento, “sti negri di m...” a quello ancora più umiliante e lontano dalla realtà “che bravo Samba, che buon cuore, lui che è partito dal Senegal perché li non c’è niente da mangiare per venire a vendere qui per strada. Facciamo una colletta e mandiamo i nostri vestiti usati alla sua numerosa famiglia”. Ecco. Incrociamo le dita e speriamo che Samba veicoli un messaggio positivo e reale non solo del suo paese ma anche della nuova Italia, variopinta e differente che ha le sue radici (da sempre) nella (trans)migrazione.

Forza Samba.

 

                                        

 

 
 
 
 
 

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