Creato da Aria.di.luce il 06/03/2007

Ombre e luci

Per amare non occorre capire...

 

 

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....inverno 95/96

Post n°14 pubblicato il 13 Marzo 2007 da Aria.di.luce

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Ho incontrato il sig. Oid 2 anni fa. Il mio orologio segnava le due e un quarto di una notte lamentosa a causa della pioggia. Percorrevo la tangenziale, diretta a casa, nella mia piccola auto con il riscaldamento posizionato al massimo.

Da sempre piuttosto freddolosa, quella notte i brividi mi percuotevano tutta con dolorose frustate sulla schiena. Avevo paura di quella solitudine fisica che provavo percorrendo la divisione asfaltata di 70 Km che mi separava dal letto in cui desideravo, con tutta me stessa, sprofondare.

Caratterizzai il percorso parlando ad alta voce per farmi compagnia, sperando che la mia macchina non si fermasse per un guasto.

Era il 3 dicembre 1993.

La  zona era storicamente pericolosissima e io, non avendo mai frequentato quei posti, da oltre un mese la attraversavo per andare al mio lavoro di operatrice telefonica.

Avvinta su me stessa per il gran freddo, mi resi conto che le parole provenienti dalla mia bocca non avevano un gran senso logico e iniziai a cantare. Spulciando nei ricordi musicali, intonai frasi di canzoni che risultarono alquanto infedeli ai testi originali. Modificavo il senso delle melodie non ricordando più in qual modo fossero state scritte.

Dopo un pò, il silenzio riprese possesso dello stretto abitacolo su cui mi trovavo a viaggiare, quando mi accorsi che due lacrime scendavano dagli occhi, rigandomi il viso. Una tristezza scomoda e non invitata prese il sopravvento sulla paura del buio e del silenzio. Poche ore prima qualcuno mi aveva avvertita di essere estremamente cauta nel viaggio di ritorno. La mia perplessità iniziale ebbe modo di trasformarsi in un turbinio di sensazioni di sgomento quando fui informata che il minimo che potesse accadermi, frequentando tali strade, era lo stupro e la rapina. Per questo, andando via da quei posti, desideravo una buona dose di fortuna come compagna nel viaggio di ritorno.

Col dorso della mano inguantata, raccoglievo le gocce tiepide che mi offuscavano la vista quando, d'improvviso, mi accorsi di un uomo su una piazzola d'emergenza. Agitava le mani nella mia direzione. Sotto quel torrente di pioggia doveva essere inzuppato fradicio, considerando soprattutto la mancanza di un ombrello tra le sue mani. L'impulso di accelerare per allontanarmi da quella figura buia nell'oscurità, durò soltanto qualche frazione di secondo, infatti, passandogli accanto, ebbi modo rallentando, di scorgere la sua faccia.

"Fermati, ti prego", udii insieme al fragore della pioggia. Cosa poteva mai volere quell'uomo da me. Sussultai quando, credendo mi stessi fermando, si diresse verso lo sportello alla mia destra. Lo osservai meglio, mi parve di intravedere un colletto bianco che spuntava da un pesante soprabito invernale dalla foggia antiquata. Il pensiero che potesse trattarsi di un sacerdote mi tranquilizzò momentaneamente, ma un riflesso, condizionato dal timore di aver incontrato un malvivente travestito con abiti canonici, mi suggerì di allontanarmi il più in fretta possibile.

Nello specchietto retrovisore che subito guardai, nonostante la pioggia e la mia cattiva vista, vidi definita sul suo volto l’incredulità di chi, speranzoso in un passaggio quasi recuperato, rimane a piedi. Condussi la mia macchina per due o tre km pensando di essermi salvata da un bruto.

E se mi fossi fermata…Se quel individuo, una volta salito e preso posto accanto a me, avesse estratto un’arma per impaurirmi e condurmi in una stradina buia ai lati dell’autostrada... Se invece avesse voluto impossessarsi della mia auto… E se dietro di lui, nella penombra, altri complici fossero spuntati dal nulla… Poi mi venne il dubbio di aver lasciato a se stesso, senza difese, un uomo in cerca di aiuto.

Provai un gran senso di colpa, speravo che qualcuno dietro me si fermasse per prestargli soccorso. Qualche auto veloce mi passava accanto, lasciando scie luminose di fari sull’asfalto bagnato. Chi mai, stupido quanto me, si avventurava in una notte così tetra su quelle strade deserte e inzuppate d’acqua? Avevo percorso quasi quaranta km, quando il desiderio di scambiare una parola con qualcuno, mi fece fermare in una stazione di servizio per fare benzina. Stavo riprendendo le chiavi del serbatoio dalle mani del ragazzo che mi aveva servito, quando girandomi  incrociai lo sguardo, in una macchina che si era appena fermata, dell’uomo dal colletto bianco incontrato poco prima.

Mi sorrise con estrema benevolenza lasciandomi addosso un imbarazzo colpevole. Quegli occhi mi passarono da parte a parte il cervello. Con gesti insicuri rimisi in moto e partii…cosa avevano voluto dirmi i suoi occhi? Eppure ricordavo il suo sguardo, mi sembrava un volto familiare, ma assolutamente estraneo nel momento in cui cercavo di ricordarmi chi fosse. Ero sicura di averlo già visto, ma dove…come... Ripresi a cantare, intonando le frasi che ricordavo di una canzone napoletana che, spesso, nei giorni precedenti, mi era tornata alla mente... ”si sta voce te sceta int’ a nuttata…”

Arrivai nella mia casa, felicemente incolume, alle quattro del mattino. Per ridare al mio corpo un po’ di tepore, riscaldai del latte che bevvi avidamente e riempii di acqua calda la borsa di gomma da tenere incollata addosso. Il momento del sonno era passato, ma l’esigenza di avvolgermi nelle coperte mi spinse a coricarmi. L’ambiente di casa, straordinariamente freddo, mi rinchiudeva nelle sue spire ghiacciate. Fuori la temperatura sembrava più alta…

Mi ripiegai nel letto cercando tutto il calore di cui avevo bisogno. Tremante, mi rifugiai al centro della mia cuccia a due piazze, sentendo sotto di me la divisione tra i due materassi; quell’incavo, appena percettibile, sembrò proteggermi. Provai ad addormentarmi costringendo la mente a crearsi uno schermo nero in cui nessun pensiero trovasse spazio. Il mio era un metodo infallibile sperimentato con successo: chiudevo gli occhi con un movimento convergente verso il naso e dirottavo le mie attività riflessive in una specie di tavola scura che, pur inanimata, le inghiottiva disintegrandole. Era formidabilmente collaborativa quella superficie piana e rettangolare che, in qualunque momento avessi voluto, digeriva i miei pensieri quando non volevo pensare.

In quella notte così particolare, come ebbi modo di capire in seguito, lo schermo mi ributtava, con ordinata successione, tutte le immagini che gli gettavo, mostrandosi riluttante ad afferrarle. Stanca ed esausta, ripercorsi con un tragitto mentale quegli ultimi mesi. Eravamo quasi alla fine dell’anno e, chissà perché, il periodo natalizio mi poneva esigenze di calcolo. Quale consuntivo avrei dovuto stilare questa volta? Ricordando gli ultimi fatti accaduti, mi sembrava che in fondo non potevo proprio lamentarmi di come, una volta tanto, mi erano andate le cose. Con provata nostalgia, ripensai alla fine di settembre e al mio viaggio stupendo nel Mediterraneo…

                                                                                                           *continua

 

 

 
 
 
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