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  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

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Hikikomori di Yolanthe Stratos - Recensione di G. Possa

Post n°61 pubblicato il 13 Febbraio 2015 da FenomenidiEmersione
 

Hikikomori di Yolanth Stratos

Chi si nasconde sotto lo pseudonimo di Yolanthe Stratos? In quarta di copertina dice di vantare una lunga carriera da hikikomori (un termine molto elegante per dire che vive recluso per sua volontà in una stanza) il che implica – sempre secondo lui - assenza di dati biografici certi, perché «Da piume di uccello a cotenne conciate,/ da pietre preziose a liquami di pesce,/da bave di baco a pelame tosato:/ da che siamo al mondo, ci siamo addobbati/ con ogni possibile oggetto, animale ed idea,/ pur di non rivelare chi siamo.

Dall’introduzione si intuisce solo che è nato nel maggio di un anno in tumulto, quando a Parigi un famoso signore occhialuto capeggiava rivolte marxiste, incitando ragazzi al futuro. Segregandosi tra le mura di casa e sottraendosi alle convenzioni sociali, Stratos sostiene di avere scoperto se stesso e di aver capito chi è. «Dove intende portarci?» si chiederà il lettore. Da nessuna parte risponde il poeta, perché non può lasciare la stanza, tuttavia può farci entrare.

Sicuramente, egli, oramai nel mezzo del “cammino” della vita (inteso nell’aspettativa contemporanea dell’esistenza) è assai acculturato, sa di greco e di latino, è un profondo conoscitore della psiche umana («Niente richiede l’anima,/ nessuno sa che farsene di quella./ S’aggira fatua e pretenziosa/ approfittandosi dei vuoti tra elettroni e nuclei/ lascivo parassita, prostituta che t’insinua la divinità,/ muta la rotta dell’imbarcazione/ ed abbandona il ponte al primo impatto/ con lo scoglio della materialità») e del fluttuare dello spazio cosmico («Mi percepisco greve, il corpo pesa, sto sudando./ Non sento più il ronzio dell’Universo/ ... mai prima d’ora il suolo è stato così avido,/ magnetico, goloso del mio corpo..../ il pianeta mi richiama/ mi brama di cannibale ossessione...»). Chi sono? Chi sarò? Si chiede ancora l’autore: «Mi frantumo. Da bolide a meteora, da meteora a meteorite. Infine solo polvere stellare, dispersa per i continenti come spora in primavera, trasportata dalle onde ad incarnarsi in molti corpi, in molti Io. Volteggio a piuma, mi deposito dovunque. Chi sono? Chi sarò? Sarò chiunque».

E allora seguiamolo, Yolanthe Stratos, in questo “pulviscolo dell’universo”, come lo definisco io il cosmo, la natura, l’uomo e ogni essere vivente.
Questa silloge poetica si suddivide in capitoletti partendo dalla nascita dell’hikikomori («tra terra e cielo con un solo appiglio,/ teso come ragnatela ad una zampa/ di sospetto vittorioso. Poi fu casa»), al suo esilio («lasciatemi gemere sangue/ in ampolla sperduta»), e poi leggiamo delle ossessioni («Mia madre mi prese adesempio/ di ciò che credeva peccato/ veniale, carnale, mortale»), della misantropia («se fossi in me starei per sempre/ chiuso incasa/ a raccontare fiabe/ altre»), della mistica («Seguivo le antiche scritture/ le scialbe scritture da rendere/ consone ai tempi»), della sessualità («L’incanto ebbe inizio da amplesso/ smarrito in un bosco di notte») del testamento («Quando sarai polvere,/ disperso in una nuvola di tempo/ - sbriciolate ossa, nudo spirito -/ avrai capito tutto:/ le corse per cercare la sua mano/ l’insufficienza amara di una vita,/ l’assurdità del lutto») e infine della morte dell’hikikomori («Rigurgito, rantolo/ palpebra chiusa.../ riduzione scheletrica.../ Anima?/ Quod superest/ date pauperibus»).

Ovviamente riassumere il tutto diventa complesso, la raccolta è intensa per il fluire di sentimenti e contenuti profondi, ermetici e simbolici, in cui l’autore scava, nell’ansia inquietante di evadere dal qui e ora, verso una direzione infinita, che può essere dappertutto e in nessun luogo: «Coaguli di cielo noi, compressi/ in un miraggio cosmico abbagliante,/ smarriamo il senso della scimmia,/ arrampicando nuove torri di Babele/ per metterci al riparo dal serpente/ esorcizzato in liturgie inumane,/ proiezione della nostra ambiguità».
I contenuti sono, poi, multiformi, suscettibili allegoricamente di interpretazioni diverse, eppure accattivanti per quello stile vivo nella fluidità e lievità dei versi, per la straordinaria capacità del poeta di fondere filosofie, passioni che affiorano da un mondo a dir poco psichedelico, senza tempo e spazio, dove la musa ispiratrice carpisce frammenti di immagini, residui di memoria, oltre ogni vortice dell’orizzonte, perché «Infine/ si è precessione di tempo, nutazione/ di sogno artefatto, scomparsa/ di un dio camuffato da uomo. Di uomo/ con ali di cera, dolore del tempo./ Noi siamo dolore del tempo».

Nei suoi componimenti, Stratos depura i versi fino a esiti musicali, con un’amplificazione strofica ben sostenuta, con una costante ricerca della parola e del ritmo, in assonanza di echi evocativi meditativi. Ogni sua lirica è un fremito che, nella malia esplosiva dei versi, permette di riconoscere una “voce” che parla: sono sensazioni, fuggevoli momenti in cui emozioni e sentimenti assumono un sapore universale: «Ti mostrerà la vita, che non è/ l’orchestra: non le quinte/ non le prove, non il prima/ e non il dopo, ma il sipario/ che si alza e che si chiude. Esattamente/ come tu l’amasti e odiasti:/ atroce ghigliottina di realtà».

Yolanthe Stratos ha affondato nella sua coscienza («non avrai parole per descrivere l’angustia della gabbia»), ne è sortita una poesia non monocorde, ma consapevole e variegata, avvolta in un “fuoco” vitale alimentato da una genuina ispirazione, unita a una diretta, vivificante e umana esperienza. 


Giuseppe Possa

da http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/

 
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