Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

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La volontà (parte I)

Post n°52 pubblicato il 04 Novembre 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Maša serrò la porta, accostò le ante, fece scorrere le tende, poi indossò il pigiama viola, quello di cotone acquistato tempo addietro in un mercato a Lužok. Levò l’elastico dai capelli, quello verde acqua, e se lo legò al polso. Infine strinse la coperta grigia e, messasi sul fianco, cominciò a contare gli elefanti.

« Odin slon... dva slonika... tri slonika... » – « Un elefante... due elefanti... tre elefanti... ».

Nel buio per un poco agitò i piedi. Infine emise un gemito e sognò.

Vide sé stessa bimba, ai margini di un infinito campo, scalza e lambita da una fonte elettrica lontana. Il mondo immobile. Nessun canto di uccelli, nessun vento di foglie; nemmeno il rombo del silenzio. Soltanto un dito in bocca ed un bagliore intermittente a illuminarle gli occhi a noce d’acagiù.

In quella solitudine notò un piccolo scrigno celato a mezzo dagli steli. Timidamente gli si avvicinò, lo prese in mano e ricordò d’avere già sognato quel paesaggio, di avere già toccato quell’oggetto e ciò le diede l’impressione di tornare a casa. Ma appena il senso di solitudine cominciava a dileguarsi ed un calore antico prendeva a perfonderle l’addome, ecco comparire un ampio squarcio nel terreno. Subito da esso colò acqua come da ferita il sangue. La fenditura procedeva in linea retta, scucendo metro a metro il campo, e i girasoli cominciavano a inclinarsi, qualche petalo cadeva in quello che era ormai uno stagno via via sempre più fondo e vorticoso. Il cielo si coprì di nubi, dapprima grigie, dopo pece, finché non fu tutt’uno con l’oceano d’acqua, terra e arbusti roteanti in mulinelli di  rabbiosi cerchi.

Maša, sudata, serrando la coperta con i denti, si svegliò. Pensò per pochi istanti alla sua casa, alla sua terra. Poi si vestì di fretta, allontanando l’incubo dal cuore.

Due piccole fessure oblique, impenetrabili. Sottili labbra astutamente disegnate, zigomi alti, dispiegati come ali a carezzare gli occhi ed una cicatrice sulla fronte, rosato stampo del passato, da tempo aveva abbandonato la sua terra per raggiungere Galati, sul confine tra Ucraina e Romania. La vendita del corpo, affrancamento dalle botte e dalla povertà di bimba, emancipava dalla fame, permettendole uno spazio personale ed una certa dignità, sontuosità insperate per chi nasce prigioniero di un kolchoz.

Aveva scelto un nome d’arte: Irene. Pur non sapendone il significato, ne adorava il suono: vocali dolci, sostenute dal pilastro della giusta consonante, pacifici ruscelli diramati dalla pietra levigata di una “erre”. Seppure affezionata a questo nome, il suo dialogo interiore, i sogni ed i segreti appartenevano al suo nucleo originale, erano proprietà di Maša. Ma Irene, il nome Irene, ammorbidiva gli adirati, innamorava i disperati, coccolava solitudini e dolori in un abbraccio di pacifica armonia che garantiva protezione.

Eppure la città stava cambiando. Movimenti integralisti a sfondo pseudo-religioso richiedevano un ritorno alla morale. Ronde di villani con la brama di vendetta (personale, la vendetta è sempre cosa personale) pattugliavano le strade di Galati, controllavano pertugi, scalinate ed intenzioni, in cerca di misfatti, imperdonabili devianze. Sorgente del pensiero perbenista la città di Bucarešti. Il popolo, frustrato e ottuso, domandava ad alta voce un padre, un capro di espiazione, un uomo nuovo. A dirlo chiaro: un dittatore; se il Potere è un canto di sirena cui l’opporre resistenza è ritenuto debolezza, il dittatore era alle porte, puntuale come carie destruente.

Fu così che una mattina di settembre, di ritorno dal mercato, Irene fu arrestata. Delatore un certo Pavel, sedicente innamorato, megalomane perbene. Fu a lui che il giorno avanti rifiutò una prestazione: al fine di allentarne il desiderio di possesso, il cappio che da tempo le stringeva attorno al collo:

« Se non ti ho, se mai ti avrò, chi mai ti avrà? » le chiese Pavel.

« Un altro » disse Irene.

« Se io non esistessi, chi ameresti? » incalzò Pavel.

« Un altro » disse Irene.

« E se non fossi nato qua ma a mille miglia, o sulla luna, chi ameresti? » insisté Pavel.

« Un altro » disse Irene.

« Tu non sai amare! »

Amore è congruenza di occasioni rigonfiate di molecole ormonali – pensò Maša – è  abitudine, paura appena cessa d’esser voluttà. Amore è una realtà mistificata, una bugia del tempo. E il tempo è un egoismo personale.

« Certo che so amare » disse Irene.

« Sei bugiarda! »

Se baci in bocca o lecchi il sesso di una donna ti innamori – pensò Maša – se il cane annusa poi decide di accoppiarsi. Uomo e donna sono solamente odore. Dio ci annusa ad uno ad uno: riconosce in noi il suo antico simulacro, la sua impronta di selvatico alambicco a dare al succo di noi umani una pesante gradazione.

« Bugiarda e opportunista! »

Siamo nuvole di olfatto, voci nella nebbia – pensò Maša – terremoti di emozioni instabili, cangianti. Siamo polvere di stella frantumata, non ci basta un solo corpo, non ci basta un solo volto. Adesso sono Irene, ma sono stata Sonia, Valerie, Maruška, Yvonne, Nadežda, Lili Brik, Veruška, Smilla. Non ho tempo d’essere una sola, di donarmi ad una sola, ad uno solo: non mi basta. Il tempo è avaro e non dispensa mai carezze; ma non lesina gli schiaffi.

« Io non posso più aspettarti, mi hai sfiancato! » - chiosò Pavel.

Tutto ha il tempo che conviene – pensò Maša – La premura è dei felici, dei bambini e, forse, degli agonizzanti. Serenità è una stanza chiusa illuminata da perpetua delusione fatta corpo rilavato, insudiciato, rilavato per ancora insudiciarsi. Appollaiati come uccelli in una notte di novembre, i corpi chiedono calore. Tarpare ali, negare cibo, rompere uova ed occupare nido altrui, questo è immorale, altro non vedo. Tutto ha tempo d'essere, e di essere aspettato. La frenesia che qualche cosa sia o non sia mai stata è convulsione senza sbocco. Non lo vedi che siam soli? Irrimediabilmente soli, indecifrabilmente soli, stupendamente soli? Non senti che abrasione di una stella è pari a morte di un amico, larva deglutita da cornacchia, airone deturpato in un agguato di sparvieri predatori? Non senti che la vita è una soltanto e non ci può bastare mai, davvero mai? Reclamati bellezza, sii tutto ciò che puoi: la vita non è cosa che si ama: la vita è quella cosa che si è!

L’attesero in quattro, ed il tutto si svolse in silenzio. Irene raccolse i capelli, poi il cuore per pochi secondi fu a casa: la vacca muggì, il grano, scomposto dal vento, ondeggiò ed il sole creò quel groviglio di ombre diretto al convoglio in attesa. Ci vollero solo quaranta minuti per compiere tutto: partenza, prelievo, ritorno. Le donne, le altre, eran note a metà: Svetlana, Katiuša, Jelena... clonarsi di visi e di nomi guastati, ingoiati dal tempo, oramai sfigurati dagli enterosucchi di ogni memoria. Ancorate ad un uomo con mitra gettavano sguardi di ghiaccio, danzando superbe su pioli di legno del carro bestiame.

Ci furono stupri di massa, ma questo fu nulla.

Volarono botte – ad Oksana spaccarono due premolari – ma questo fu nulla.

Due notti e tre giorni di viaggio, senz’acqua né cibo, quaranta ragazze pressate in un solo vagone, ma questo fu nulla.

L’arrivo nel buio, latrare di cani furiosi, le chiome rasate, in fila per cinque, paura di essere uccise, annientate, ma questo fu nulla.

Spogliate, private del viso, condotte a ceffoni ed insulti nel blocco diciotto, bordello del campo: punite del loro peccato col loro peccato in eterno, ma questo fu nulla.

La vera tortura non è negazione forzata di ciò che si è – pensò Maša –  distruzione dell’Io. La vera tortura comincia laddove si perde quel lusso di essere molti in un corpo soltanto e si resta ancorati ad un unico nome, ad un unico sé, scomparsa di tutti i tuoi sosia interiori, di molte occasioni di vita, del sogno. La vera tortura è sentirsi bambini in un unico corpo di adulto, spiegare le ali e restare ancorati alla terra, vedersi negato all’esterno quel volo interiore, restare soltanto quel poco o quel molto – non fa differenza – che si è. La vera tortura è il profumo dei campi in agosto, il sapore del latte bevuto, ricordo di giorni felici, attesa di giorni migliori. Tortura è memoria ed anticipazione dell’ unicità reiterata.

Poi l’alba, la prima di un numero incerto, fu grido: « Wstavac! In piedi! Wstavac! ».

Di nuovo impilate per cinque, pressate, incastrate le une nel corpo delle altre a marciare dal blocco alla piazza d’appello (due ore di appello) immobili, erette. Mezz’ora di attesa del nulla, tre ore di vaglio dei corpi: chi sana, chi anziana, chi affetta da morbo; icone graffiate da pioggia incessante di sguardi maligni, valanghe di mani importune, violente slavine di offese.

Infine la porta del lager-bordello. La sala d’aspetto, imbrunita dalle ante socchiuse, sapeva d’incenso stantio come antica cappella pagana adibita a rifugio dei primi cristiani, e di poi sconsacrata per sempre.

Per quanto può essere eterno un per sempre? Due giorni? Due anni? Un minuto?

Col tempo, a lenire la celebrazione infeconda del rito carnale, ben presto soggiunse la fuga interiore, il ritorno a un passato di poco migliore, ma alquanto diverso, così che l’untuoso calore di corpi ubriachi, grondanti sudore e paura, potesse mutarsi in un raggio lontano di sole, seppure sottile ed astratto. Accadde per tanto che, una sera di marzo, sotto al peso di un feldmaresciallo ansimante, la calda stagione scavò la sua breccia anzitempo, sciogliendo quei nodi che inchiodano l’anima al corpo. Lei prese il cammino a ritroso nel tempo. Per non più tornare. Ed ancora una volta si vide bambina in un mondo perduto.

In quel mondo l’estate era un nodo di canto d’uccelli. Smagriti di fame – le pance rigonfie d’inverno e gorilka¹ – solcavano i campi a contarne i germogli: i padri e le madri con sandali in pioppo, le bimbe con calli su pelli graffiate da steli ed ortica. Sedevano, a sera sugli usci, ingobbite e tarchiate figure. Parlavano piano, di cose segrete: raccolti mancati, adultéri, speranze. Col crescere d’intimità si narrava – pur sempre dubbiosi – di nausee, di ascite, di strie verdeggianti sul ventre: di pianto e di fame. Le donne (appartate con donne) ed i maschi (appartati con maschi), sfilate di edentuli spettri, torcevano zitti le labbra e azzannavano l’aria, gli odori, i profumi, le spore. Nerissima pece, la terra era regno dei piccoli, inutili bimbi. Carponi e depressi, due gravide lune di occhi su stelo di corpo emaciato, strisciavano in cerca di vermi, facevano guerra coi corvi. Lottavano nudi ma quella – la pelle – era veste preziosa, era l’unica veste.

 
 
 

La volontà (parte II)

Post n°51 pubblicato il 04 Novembre 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

«Volodya, ti riempio di botte!» - gridava talvolta, distratta, una madre. Era un grido di flauto strozzato, per nulla convinto e trafitto a riprese da un sibilo acuto nel fiato, uno schiocco di troppa saliva affamata nel gozzo.

Fu allora che Maša la vide. Lei, piccola bimba dagli occhi di volpe, sedeva in disparte, graffiando la terra con le unghie di piedi suini. Una treccia sommersa da folta sterpaglia di ciocche bisunte pendeva di lato, coprendole in parte l’orecchio sinistro; le braccia, incrociate sul grembo, mostravano i segni di antiche e vigliacche percosse, invernali livori di adulti.

Dapprima esitò, ma il richiamo di quell’animale arruffato si fece vieppiù prepotente, inducendola ad avvicinarsi. Traversato il cortile, sfilando davanti a quel crocchio di gente – nessuno sembrò farsi cruccio della sua presenza – si sedette di fianco alla bimba e parlò:

– Magdalini ha un bellissimo suono!

– Come fai tu a sapere il mio nome? – rispose, stupita, la bimba.

– Non lo so – disse Maša – ma qui tutte portiamo quel nome. Perché resti sola? Perché non ti unisci ai bambini? Non vedi che stanno giocando?

– Non stanno giocando – e in quel mentre la bimba sgranò quei suoi occhi color di nocciola – si stanno soltanto facendo paura a vicenda, perché qualcun altro ne ha fatta anche a loro; magari di più.

Poi, sbuffando la frangia oleosa dagl’occhi e tendendo un braccino emaciato, squittì:

– Me la leggi la mano?

– Ma certo, vediamo... Tu sei stata una brava bambina... una brava bambina. Non hai fatto mai nulla per fare arrabbiare la mamma, non hai mai contrariato il papà; li hai aiutati nei campi, hai accudito le bestie finché ne avevate; hai taciuto la fame senza piangere mai. Ti sei tolta di bocca le briciole per i fratelli.

Magdalini restava in silenzio, stringendo le labbra per non rivelare un sorriso.

– E domani? Domani? – le chiese, impaziente.

– Diverrai una bellissima donna. Saprai leggere, scrivere, fare di conto. Viaggerai su carrozze lussuose, la fame sarà solo un triste ricordo...

– Poi cos’altro? Cos’altro? – incalzava la bimba.

– Non avrai mai bisogno di un uomo, se non per avere dei figli che avranno i tuoi occhi soltanto. Non sarai...  – e la voce di Maša tremò – ... non sarai mai un oggetto, per niente e nessuno, nemmeno per i genitori, un amore o un’idea. Calzerai scarpe morbide e nuove, e con quelle ogni metro di terra sarà senza attrito. Possedendo te stessa, d’ogni cosa sarai proprietaria e più nulla potrà farti male...

Magdalini taceva. I piedini ricurvi, che un attimo prima ruspavano pazzi la terra, ora stavano immobili, pietrificati. Maša, cosciente del suo smarrimento, carezzò quella piccola, lurida mano, ne baciò i polpastrelli uno ad uno.

– Voglio farti un regalo. – si rivolse alla bimba con voce più dolce – Dietro casa, oltre il piccolo stagno, c’è un campo di elianti. Tu percorrilo tutto. Alla fine, all’incirca a due metri da un masso solcato da scanalature profonde, dal lato coperto di muschio, comincia a scavare! Il masso è vicino a una pianta d’acacia, è la sola, non puoi non vederla. Tu scava! Vai, ora !

Le diede una piccola spinta e la bimba iniziò a zampettare veloce, finché non sparì dalla vista.

La distesa d’elianti era in pieno rigoglio. Magdalini raggiunse la pietra coperta di muschio; col cuore impazzito, iniziò a rovistare alla base del tronco d’acacia. Nella terra, rigonfia di acqua, comparve uno scrigno. Lo estrasse e, nettatone in fretta il coperchio da un velo di mota rappresa, facendo schioccare un gancetto ferroso, lo aprì. All’interno, fasciato da un panno di seta, un astuccio intarsiato. Nell’astuccio una tasca di lana. Nella tasca un malloppo di rubli e un anello dorato. Sull’anello una scritta in rilievo: «Ščastlỳvoji doròhy – Buon viaggio».

Il giorno seguente, prima ancora che i suoi genitori s’alzassero (ed era di notte, perché chi lavora nei campi è animale due volte: diurno e notturno), Magdalini già stava viaggiando su di una carrozza diretta al confine. Quanti anni lei avesse e perché si spostasse da sola a nessuno importava: possedeva dei rubli, c’è altro che conta? Anche lei non chiedeva di meglio che l’anonimato. Di fortune così, nella vita ne capita una, mai avrebbe voluto sprecarla (povertà, botte, fame: risolti per sempre). Anzi, avrebbe dovuto trovarsi anche un nome fasullo, una maschera dietro cui nulla e nessuno l’avrebbero mai più sospettata. Un forziere. Uno scrigno.

Poi, d’un tratto, il cocchiere ha strozzato i cavalli tirandone il morso, ed un grido ha percosso le strade della cittadina: « Capolinea! – città di Galati! ». Il profumo del grano tostato vibrava di antica speranza.

 

¹ distillato casalingo ad elevata gradazione alcolica

 

Y. Stratos ® ( La volontà, versione di prova alquanto ridotta, ma con un suo senso)

 

Dipinto di Michael & Iness Garmash

 
 
 

Chiarificazione (?)

Post n°48 pubblicato il 29 Ottobre 2013 da FenomenidiEmersione
 

Non sono infelice.

Sono parte di un mondo che ottiene i suoi prodotti, sono prodotto del mondo.

Non credo in colpe o peccati, non ne tengo conto per natura.

Solitamente viaggio, ascolto il rumore delle stelle. Ed è un rumore che oggi si chiama "bianco" e viene riprodotto dai phon, dalle lavastoviglie, dagli aspirapolvere, dalla pioggia in foresta tropicale...

Non capisco perché gli effetti dell'imbarbarimento avvengano dopo millenni. Oppure avvengono proprio dopo millenni dopo Costantino.

Quel giorno la siepe alla destra raccolse i suoi frutti in un battibaleno e tuonò d'una inconsona e secca frustata: il cannone sparava dei colpi sul figlio di Pietro e di Dio. Porta Pia fu un'immane tragedia e conquista.

Non so dire chi sono e perché. Mi ritengo indelebile macchia di mondo, attuale o perduto non fa differenza.

La sintesi non spiega nulla.

Mi rivedo da bimba e da bimbo. Ci rivedo da bimbi e da bimbe.

So fare di meglio che esistere.

 
 
 

Voyeur

Post n°47 pubblicato il 15 Ottobre 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Non mi scindo da me.
Questa notte la vita è rafferma
e stantia.
Il profumo di pane ritorna
all'impasto e non dona
che acqua.
Non levita: accade.
Speravo di prendere
il viaggio, tornare alle
labbra di madre dischiuse,
al brusio di ventosa che
aspira il mio cranio di
feto cresciuto e felice.
Ogni droga ha la sua
tolleranza, ogni notte la
sua incongruenza.
Di solito leggo Baudelaire.
Vado a letto con Jeanne,
mi trafiggo di bianche colombe
ubriache d'assenzio tra porte
socchiuse da mani di strega
cinese: di solito dormo.
Domani m'aspetta, però,
quella ruga. Tra gambe
sottili e scoscese, montagne
che valichi appena rigando
le unghie in rosacei dirupi,
terribili anfratti di fame che
ingoiano tutto, ribatto me stesso
in antico fragore di sesso.
Allorché sono aperte le ante,
allorché la vicina va in bagno,
guardo il piccolo mondo distante
di un sogno castrato e
assoluto.

 

Y. Stratos ®

 
 
 

La solitudine

Post n°44 pubblicato il 20 Settembre 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Il professore con le labbra raggrinzite annoda i lacci della cartelletta in pelle. La lezione è terminata. In un istante l’aula magna, ormai deserta, è divenuta immensa e fredda e non rimane che un silenzio surreale in una sera di metà dicembre. La felpa della neve ottunde i suoni che provengono da fuori. La serie di finestre a dirimpetto sul giardino riproduce i fiocchi candidi, che planano in obliquo sopra al mondo come sogni abbandonati.

Il mondo?...

La classe è stata alquanto faticosa, il professore non si sente soddisfatto. Avrebbe fatto meglio a ribadire due concetti, forse tre. La gioventù ha barriere tali da respingere un attacco rasoterra di nozioni: meglio è il bombardarla a grandinata, farne piano levigato su cui erigere strutture più sicure, città nuove. Hai visto mai che dopo cresca come l’edera d’inverno?

L’inverno...

Sulla lavagna, incorniciata da un rettangolo tracciato con il gesso, un’equazione domina la stanza: S = KBlnW; seconda legge della termodinamica: i processi spontanei sono caratterizzati dalla conversione di ordine in disordine.

Il professore osserva a lungo quelle lettere accostate, prova a pronunciarle unite e ne esce un suono senza senso: Skblnw. Davvero in ogni lingua al mondo questo suono non ha un senso, eppure è ineluttabile realtà. Il mondo è ineluttabile realtà, la morte ne è spontanea conseguenza. È stato l’argomento più importante del semestre, ma comprenderlo necessita un’età che gli studenti sono lungi dall’avere.

La frustrazione impregna l’atmosfera, i fiocchi evanescenti della neve cadono seguendo traiettorie occasionali, imprevedibili percorsi mai una sola volta uguali, e fuori il buio ha avvolto la città come le spire di un serpente addormentato. Appena sette mesi prima le risaie popolate dalle ile gracidanti tratteggiavano dipinti sovraccarichi di luna ingravidata dal profumo di una donna. Era un aroma di sorriso e gomma che stordiva come farmaco potente, impertinente e sapido di vita. L’estate era alle porte e vi bussava dolcemente, come sposa che s’appresta ad indossare una corona ingioiellata di promesse, inanellando un’emozione dopo l’altra ed intessendo caldi arazzi di tepore. Si videro, la prima volta, in marzo. Lei si chiamava Lorna e aveva il capo raso ed una ruga sulla fronte parzialmente raddolcita da un foulard che aveva scelto con amore il dì seguente la sua prima chemioterapia. La voce era di viola pizzicata dall’archetto di incisivi un po’ sporgenti, come plettri in madreperla trafugata (tesori pirateschi abbandonati sul fondale d’una lingua che umettava spiagge pallide di labbra). La geografia di un corpo devastato di bellezza e malattia. Capirono da subito che il tempo era un nemico spaventoso, che una tenera alleanza avrebbe assassinato entrambi. Che sarebbero trascorse due stagioni, una stagione, un mese, un giorno, un’ora, solo un’ora di infinito. Che poi lei sarebbe morta e lui chissà. Ma il martire che, sorridendo, sfida il morso della belva è un santo, un folle o, più semplicemente, un idealista: S = KB ln W.

Qualcuno in strada suona un organetto – un mendicante? Un babbo di Natale? Le note si frammentano scomposte miscelandosi coi fiocchi. Pigre e amare, sbandano su scale a chiocciola d’orecchie intorpidite scatenando prolusioni di anatemi: il professore ha voglia di dormire, lasciatelo sognare, che diamine! Lo sa che ogni sistema chiuso è destinato a sottrazione di energia, lo sa che non c’è modo (proprio non esiste modo) di arrestare l’entropia. Ma il professore ha voglia di sognare, che diamine! Che mondo! Accorto, malaccorto, il mondo digerisce ogni risorsa e la trasforma in energia d’avere fame di se stesso: nulla nasce e nulla muore e tutto si disperde in nostalgia infinita, malinconia di nascita e di morte, brusio d’impertinenza.

Adesso un venditore di castagne abbrustolite sta gridando: oscenamente adesca dei passanti. Quell’organetto è suo. Sua quella nenia fastidiosa, ripetuta al solo fine di disfarsi della merce in cambio di denaro. Con quello comprerà nuove castagne e un po’ di cibo per se stesso, reiterando il monco ciclo di Carnot  dell’esistenza. « A quale pro? » si chiede il professore « a quale pro portarsi indosso questo sacco d’ossa e pelle se s’ ha da vuotare presto? ». Le sue pupille ora divergono nel vano tentativo di arrestare un pianto spastico ed osceno. Una cascata urlante sfonda gli argini del cuore ed il rigurgito di lacrime sconfina tra le pieghe del cervello frantumandone le dighe e lei gli manca, lei gli manca.

Lei gli manca, come un brano improvvisato, sciolto alla sua prima strofa, consono alle note che sarebbero seguite e, invece, muto. La treccia contro al cielo variopinto dagli scarichi di fabbrica lontana, il senso di abbracciarla nel profumo di una piovra di emozioni che divora mani e gambe, cuore, amore, padre, madre. Il gracidio di rana scostumata in uno stagno reclinato appena dietro alla vetrina dei suoi occhi di bambina docile di rabbia e noia, intabarrata in una coltre di malinconia perenne che nemmeno quella disforia perfora. E se le mani erano feticci di emozioni trattenute dal colore inverecondo dello smalto ed i suoi seni due fortezze di Volterra prossime allo sfascio, le sue labbra si muovevano in un canto disperatamente vivo, una canzone d’embrione innamorato della luce nel bel mezzo di un aborto, il cielo che si flette ad insegnare un catechismo di preghiere senza mani, un episodio di malvagità divina, abbraccio del demonio; un nulla intero, di quelli che se sciogli il pugno, la tua mano è piena di sciocchezze e queste, dalla prima all’ultima, sono gli archetipi che reggono la vita. La vita...

S = KB ln W.

« S sta per Solitudine » - delira il professore - « Ln sta per Lorna. KB non può esser altro che la costante dei baci, quelli dati, ricevuti e persi, o solamente immaginati ».

Ora la musica s’attenua, lascia strascichi di note che rimbalzano gommose lungo i muri delle case, poi, lontana ed ovattata, sprofonda nel cotone del silenzio: il venditore di castagne, soddisfatto o insoddisfatto del guadagno, cambia piazza. Nei corridoi dell’ateneo risuona un battito cardiaco puntuale, acquoso, fluido. Un rubinetto incontinente (chissà dove, chissà come) batte il tempo. L’eco penetra il cervello.

« W sta per Water, Wasser! Il tempo è acqua » - esulta il professore - « precipita ed evapora per poi precipitare. Questo in comune hanno il principio di Talete e il fiume di Eraclito: l’acqua! L’acqua che non è mai un’entità, ma un susseguirsi di entità. L’acqua ch’è una ed infinite acque, dal Tutto uno, dall’uno Tutto ». Poi si alza e, con il gesso, traccia simboli sul muro mutuati dalla logica applicata, ripescati dall’inconscio collettivo.

« In questo caso » - a questo punto il professore sta gridando – « la costante KB non è dei baci, ma del buio. E il buio è terra di nessuno, zona franca tra sostanza ed apparenza in cui le essenze si nascondono da sempre. Ciò significa che il mondo e i suoi abitanti sono solo proiezioni di qualcosa che sta altrove; che la morte non è altro che un rinnovo delle forme, ma l’essenza d’ogni cosa resta eterna ». Con la gioia che gli sventra le parole quindi urla: «Lorna è viva! ».

D’un tratto s’accorge di quanto sia insulso il dolore, di quanto insensate le azioni. Il gesso gli cade di mano, le labbra s’incollano al muro in un bacio profondo che umetta la calce; un bagliore, un’idea si fa strada: ora sa che l'averla voluta è una sterile colpa d’ingenuo. L'averla ottenuta un traguardo di spaventapasseri inerte. L'averla perduta è la logica essenza di tutto. Ora sente che il tempo è un concetto scandito dallo scorrer del sangue d’un cuore malato di malinconia. Il vivere è puro onanismo di stelle sfasciate anzitempo, pianeti insicuri di essere tondi, voragini di anti-materia. La sfera del mondo, spirale contorta, non ha sentimento ed il Tutto non vive, non muore: soltanto è sé stesso, da sempre. Per sempre.

Eppure continua a mancargli – lenzuola sudate, strappate con le unghie – e nessuno lo sa tranne il mondo.

Il mondo...

Sta notte nel cielo, rigata dai fiocchi di neve, la luna ha un aspetto acciaccato, di vecchio sfondato di vita, sperduto in un campo, cadavere antico, attraente canzone d'amore. Campane lontane si perdono lungo un sentiero di ghiaccio e il brusio delle stelle percorre il declivio d’imbuto celeste per cogliere il mondo alle spalle. La folla che corre giù in strada – decine di piccole teste che viste dall’alto ricordano atomi d’acqua che bolle – lo sa d’esser viva per puro accidente? Lo avverte il continuo rimescolamento dei corpi, il ricambio incessante di forma, la pelle che crolla sfaldata? Di certo lo avverte: è per questo che s’agita tanto. Alla fine del giorno ciascuno si chiude nel proprio castello, a proteggersi dall’imbrunire; si gode i congiunti, ci scambia due o tre informazioni, talvolta, magari, un abbraccio; si spoglia, s’infila nel letto, rimugina un poco gli eventi passati e poi dorme. Nel sonno si è soli; il cervello lo sa e se ne duole. È per ciò che rimedia col trucco dei sogni, virtuali e stravolte realtà modellate sul proprio ideale di vita: per illudersi ancora di un poco, quel poco che basta a non perdere il senno.

« Ma il senno è soltanto una porta dischiusa » – questo pensa, ormai estasiato, il professore – « dischiusa a motivi ritriti del cuore. Nascere, amare, morire. Nascere, amare, morire. Fede, Speranza e Carità, Fede, Speranza e Carità in un trittico di angoscia a tinte vive. Tumore, dolore, abbandono, tumore, dolore, abbandono: triade di sacra accettazione Quanto è grande la vita! ».

Da fanciullo possedeva un manuale sulla tecnica dei nodi marinari; tra le pagine di un’enciclopedia lesse la storia di Condé¹.

Il professore ha sciolto i lacci della cartelletta in pelle. Il tutto, com’è logico che avvenga, s’è incarnato in automatica gestualità di indissolubili grovigli, corde tese all’infinito, nodi morbidi, scorsoi. Si accendano le luci, si indossino i costumi: la lezione è veramente terminata.

 

Il silenzio è spezzato da un grido. Un giudizio, un’accusa, un insulto volteggia nell’aria per poi ricadere a strapiombo:

« Chi c’è dentro lì? » bercia rauco qualcuno.

« Che importa chi è? Tiriamolo fuori a cazzotti! »  ribatte una voce affilata.

« Sta a vedere che è ancora il barbone di via Boniperti, quell’uomo a cui è morta la moglie, quel matto che crede d’avere una cattedra qui! ».

« Chi? Dici il Tugnin che dormiva in stazione centrale? Quello strano che parla di un Can? »

« Sì, l’è cul lì che disturba col Kant! L’è un filosofo, dice. »

« Ma povera patria! Tiriamolo fuori sto povero Socrate! »

 

L’ingresso è forzato. Le luci violente rovistano l’aula. È deserta. Soltanto, tracciate col gesso su ardesia, in scrittura minuta troneggiano queste parole:

« S = KBlnW

La morte è intrinseca alla vita e ne costituisce il prezzo. La vita è intrinseca alla morte e ne costituisce il prezzo. Il prezzo è interpretazione umana del passaggio di stato. Il passaggio di stato è la modalità elettiva tramite cui le cose si compenetrano. Le cose tendono a compenetrarsi per garantirsi la sopravvivenza. Sopravvivere significa occupare spazio altrui. La vita è possibile soltanto laddove sottratta ad un altro ».

 

Ai confini dell’orbe terracqueo, oltre il Tavan Bogd uul (al di là forse anche del tempo, forse anche di un nome), un airone si libra maestoso su un campo di riso. Là in basso, interrotto da rari e sdruciti Dŏu lì², l’acquitrino somiglia ad un piccolo teschio trapunto di corti capelli dorati. Ogni stelo è proteso alle stelle, ma inchiodato in un mondo melmoso e stagnante, popolato da mille creature in perenne subbuglio. L’ardeide dal capo piumato raccoglie di un poco le ali, s’inclina all’indietro ed atterra leggero, elegante. Così, con gli artigli ancorati ad un labile appiglio di limo (a suo modo convinto che questo sia il centro del cosmo), rimane impettito ed assorto a scrutare le prossime prede: salamandre, batraci, roditori di piccola taglia, bestiole impegnate nel farsi la guerra a vicenda per non rinunciare a quel misero brano di carne che è chiave d’accesso alla vita.

Accecato ed ignaro di quel predatore – e per questo felice – un girino con tenere gemme di zampe s’appresta alla muta: da bimbo ad adulto. Da adulto ad anziano relitto.

Poi, cibo a nutrire il creato.

 

¹ Luigi Enrico di Borbone principe di Condé. Si tolse la vita impiccandosi.

² tipico cappello di paglia cinese

 

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